Metamorfosi del ricordo ai tempi dei social
di Ornella Tajani
Scopro oggi che non esiste più il rinnovo del passaporto: dopo dieci anni lo si cestina e bisogna farne uno nuovo. Sorvolo sulle prevedibili ragioni che nel 2003, due anni dopo l’11 settembre, hanno portato a questa ulteriore «misura di sicurezza». Cerco invece di richiamare alla mente, dato che non ho il documento sottomano, quali visti ho accumulato nel tempo. Del passaporto il visto è la cosa più bella, il timbro-ricordo di un viaggio. Quando l’ho richiesto per la prima volta, dieci anni fa, ed ero convinta che il viaggio fosse il valore esperienziale massimo, pensavo con piacere al momento in cui tutte le pagine sarebbero state piene di visti rigorosamente l’uno diverso dall’altro, e io avrei potuto sfogliarle come un singolare album dei ricordi. In Messico mi sono innervosita perché il timbro non è venuto bene, in Etiopia ho scoperto che l’addetto al visto non usava necessariamente la prima pagina libera, ma apriva il libretto in un punto a caso, in maniera sfacciatamente sciatta, alterando in modo irreversibile quell’ordine di viaggi che io avrei voluto rigorosamente cronologico.
Mi dispiace apprendere adesso che il vecchio passaporto, con sopra una foto bruttina capace di ridestare subito svariati ricordi, e con una serie di visti forse più numerosa di quella che abiterà nel secondo passaporto, non mi apparterrà più, perché dovrò restituirlo al momento della richiesta del nuovo: in quanto forma di archiviazione coatta, per me somiglia al furto di una porzione di passato.
Nell’ultimo anno ho trovato in più di un libro l’idea, espressa con parole diverse, che la memoria sia in fondo una forma di fiction, e il passato un prodotto in buona parte inventato. Forse per molti è un assunto banale; per me è stata una scoperta sensazionale. Così ho iniziato a prestare attenzione, da un lato, ai supporti materiali del ricordo (e ai modi in cui vengono meno, come per il passaporto, mentre proliferano gli strumenti di registrazione); dall’altro, ai procedimenti che provano a regolamentare i flussi della memoria. Il più evidente è fornito da Facebook: parlo naturalmente della funzione «Accadde oggi». Esiste ormai da più di due anni e mi sembra che si sia definitivamente affermata: ogni giorno dell’anno, Facebook ti consente di decidere di rievocare un ricordo, un po’ come si rievoca un’anima in una seduta spiritica, mostrandoti cosa scrivevi in bacheca nella stessa data ma un anno prima, tre anni prima, cinque anni prima. È l’ennesima mossa di Facebook per dare valore alla tua attività sul social, e dunque indirettamente a se stesso: la memoria, naturalmente, comincia al momento dell’iscrizione.
Il ricordo viene acceso a richiesta, assecondando un bisogno nuovo di zecca: «Voglio un ricordo», uno a caso, il che è ben diverso dall’aprire l’album di foto perché si ha nostalgia di quella particolare vacanza in Grecia; voglio un ricordo come posso volere una birra, e accedo a un dispositivo che me ne seleziona uno sulla base di un criterio affatto gratuito come quello della medesima data (per chi non lo sapesse, Facebook, che è sempre molto attento a non urtare la nostra sensibilità, e molto contento di lasciarci giocare per finta al gioco cui il sistema gioca per davvero, consente all’utente di bandire dai propri ricordi una selezione di contatti, in modo da non visualizzare momenti vissuti con l’ex o con l’amico indesiderato). Il tutto è perfettamente kitsch: non richiamo più un ricordo in maniera volontaria, né ritorno a un evento perché la vista di un oggetto o un profumo improvviso mi ci riportano con il pensiero, ma stabilisco di essere in vena di ricordi e ne scelgo uno da quelli in bella mostra sul banco del supermercato.
L’eventuale poesia dell’atto è definitivamente distrutta dalla formula con cui si conclude la quotidiana rassegna «Accadde oggi»: «Grazie di aver controllato i tuoi ricordi!». Di nuovo Facebook gioca a convincere l’utente che sia lui a controllare qualcosa, suggerendo inoltre che il ricordo richieda una sorveglianza speciale: forse per paura di perderlo?
Nel web, ormai, nulla si perde. Nel suo saggio Mobilitazione totale (Laterza, 2015), Maurizio Ferraris scriveva che il web è diventato uno strumento di registrazione prima che di comunicazione, provando a dimostrare come tale registrazione sia alla base della microfisica del potere attualmente dominante. Per Ferraris addirittura «molto più della crescita demografica, il tratto caratteristico degli ultimi due secoli, che ha subito una impressionante accelerazione negli ultimi decenni, è stata la crescita degli apparati di registrazione, e di conseguenza della iterabilità di fatti, oggetti, eventi, atti». La registrazione, come è ormai chiaro, è diventata propedeutica a ogni esperienza e fruizione: non ci si telefona più, ma si lascia un messaggio registrato su Whatsapp; non si guarda più il Van Gogh al Musée d’Orsay, ma se ne archivia una copia fotografica nello smartphone, e questo per limitarmi a due esempi minimi e immediati sulla larga scala disegnata da Ferraris, per il quale
la registrazione è il trascendentale (ossia la condizione di possibilità) dell’emersione [che è a sua volta la «linea continua che porta dal mondo naturale al mondo sociale», n.d.r.], in quanto, attraverso la sua funzione fondamentale, che è di tener traccia di una impressione, consente il crearsi di strutture articolate.
La registrazione conserva la traccia dell’impressione; dunque, recuperando quella traccia, io posso, in teoria, ricevere nuovamente la medesima impressione: che ne è allora della funzione mentale del ricordo? Con «Accadde oggi» Facebook prova a convincerci di aver registrato anche i nostri ricordi, che sono invece solo la traccia parziale dell’attività compiuta sul social in quel determinato giorno.
Di fatto, – prosegue Ferraris – la caratteristica essenziale del web non è la trasparenza ma l’asimmetria tra ciò che sa l’utente e ciò che sanno le compagnie di gestione. La registrazione assicura un sapere su tutte le operazioni compiute in rete, di qui la situazione asimmetrica: l’utente sa molto poco, l’apparato sa tantissimo.
L’apparato sa tantissimo, e può decidere in questo caso cosa farci ricordare. L’utente sa molto poco, e sempre di meno, perché i dati forniti sono sempre maggiori e non lasciano traccia, le memorie un tempo archiviate nel pc diventano esterne fino a trasformarsi in cloud fluttuanti nell’etere, e le registrazioni disegnano quella «iterabilità di fatti» così fitta da farsi ingestibile per il singolo. Da un certo punto di vista, sembra quasi che la registrazione si opponga al ricordo, esonerandoci dal dovere di ricordare, perché tanto in una penna usb resterà una copia di quell’esperienza che nel frattempo sparisce dalla memoria: il ricordo, in un certo senso, diventa innecessario, finendo con l’apparire una funzione mentale desueta. La memoria si fa archivio, un archivio a portata di click, consultabile senza sforzi neuronali, senza il bisogno di attivare una qualsiasi connessione cerebrale; se è vero che essa è una forma di fiction, la sua lenta trasformazione in archivio digitale consente di selezionare agevolmente le scene da montare per ricostruire il film di una vita.
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Abbiamo già quindi i cacciatori di memoria… altro che androidi….
“L’apparato sa tantissimo, e può decidere in questo caso cosa farci ricordare. L’utente sa molto poco, e sempre di meno, perché i dati forniti sono sempre maggiori e non lasciano traccia, le memorie un tempo archiviate nel pc diventano esterne fino a trasformarsi in cloud fluttuanti nell’etere, e le registrazioni disegnano quella «iterabilità di fatti» così fitta da farsi ingestibile per il singolo” .
Una mappatura delle fratture umane.
Molto bello e interessante, Ornella. Questo tuo intervento mi ha ricordato la scena curiosa che ho visto alla Galleria Belvedere di Vienna, dove la direzione ha collocato una copia del Bacio di Klimt a pochi passi dall’originale, ma in una stanza più luminosa per dirottarvi coloro che desiderano fare un selfie. Inutile aggiungere che la massa di persone davanti alla copia era più o meno uguale a quella di fronte all’originale..
Stessa situazione a Cracovia, con La dama con l’ermellino di Leonardo. Io, ovviamente, mi sono fatto il selfie con la copia, non ho resistito.
Gran pezzo, Ornella, brava!
Su questa linea, il prossimo passo, Walter Siti dixit, sarà visitare soltanto il bookshop – nell’attesa che il bookshop sostituisca perfettamente il museo; a quel punto spunteranno ovunque come funghi, il bookshop Louvre a Enghiens-les-Bains, il bookshop Uffizi a Civitavecchia (fornitissimo, per turisti in partenza per la Costa Smeralda, che possano vantare in memoria un selfie davanti alla copia della Primavera del Botticelli, risoluzione eccellente, in tutti i sensi).
Felice che il pezzo vi sia piaciuto!
Il doloroso ritiro della mia vecchia storica patente in cambio di un plastificato bancomat con foto scura piccolissima e quasi illeggibile è ancora fresco. Come se la ragazza di quella foto in quel preciso momento con tutto il suo carico emotivo, che essa mi ricordava tanto vividamente le rare volte in cui la guardavo, non ci fosse più. I vestiti che vi si intravedevano. Quell’espressione. La cartina rosa consunta a libretto del documento. Le vecchie marche da bollo, le date dei rinnovi, dei cambi di residenza con relativi vecchi indirizzi, di cui se adesso mi chiedessi un quando o un dove preciso, non saprei più dire (presa alla sprovvista dal ritiro non l’ho nemmeno fotocopiata), sono sfuggiti via anch’essi. Io sono qui e ora e basta.
La memoria che costruiamo dentro di noi è qualcosa di diverso, di elastico, di sostanzialmente impreciso, ed è legittimo anche rimuoverne certe parti, enfatizzarne altre. A volte penso di aver comiciato a scrivere proprio di, e a causa di, queste assenze, giustificate o ingiustificate che siano, per colmarne i buchi neri spazio-temporali. Mi sono preclusa volontariamente la dimensione facebook, whatsapp, smartphone per lasciare ai ricordi la loro legittima mappa a macchia di leopardo, per non consegnarli a nessuna azienda che li tracci, li scelga e lasciare alle mie parole il loro impreciso, a volte latitante, ma reale corpo fisico. E continuo a scavare fra vecchie lettere, calligrafie e archivi.
Bellissime riflessioni le tue, grazie Ornella!!!!
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Grazie a te, Orsola, per quello che racconti, sono felice di vedere che quanto scritto è in sintonia con altre esperienze; è vero che la scrittura resta un antidoto allo sgretolarsi della memoria, anche a quella – parzialmente o in maniera distorta – registrata da social e affini. À suivre…
Se, come me, ci tieni ai visti e alle stampigliature “collezionate”, puoi sempre smarrire il documento……. :-)