Previsioni meteo – da “Storia dei miei fantasmi” di Francesco Borrasso
di Francesco Borrasso
Dicono che domani piova, e io non so perché, nella pioggia ho perennemente trovato conforto.
Sarà che nell’abbandono ho sempre riconosciuto una terra bagnata.
Domani te ne sarai andata, e qui sul tavolo restano le cose che hai usato tu; una penna, un elastico per i capelli, un cuoricino rosa su un foglio di carta, il rossetto, il tappo della penna con la forma dei tuoi denti.
Chissà se ci sarà anche vento, domani; chissà se dovrei mettere ordine nella stanza, vicino al letto c’è l’impronta dei tuoi piedi, quando la mattina ti alzavi senza far rumore, perché io ero stato a scrivere tutta la notte; sul divano c’è la sagoma scostumata del tuo corpo.
Il gatto mi guarda con tenerezza, gli abbiamo scelto il nome anni prima che lo comprassimo, proiettando noi due in un futuro lontano, coniugandoci a volte, come un tempo all’infinito; era tuo, mio, nostro.
Distacco, allontanarsi, abbandono.
Dovrei sistemare i maglioni invernali, mettere in una scatola anonima le tue foto, lasciare le finestre aperte per giorni e giorni, affinché il tuo profumo possa emigrare, e trovare altre primavere da contaminare.
Sul lavandino ci sono due tazze, una ha il marchio a fuoco del rossetto che ti consumavo sempre a forza di baci; due piatti, qualche posata, uno spazzolino da denti, come se questa stanza fosse diventata la mente di chi perde conoscenza dei luoghi, degli utensili e dei posti giusti.
Dicono che il maltempo durerà molti giorni, ma nessuno mi dice come si fa a mettere via l’immagine di te che esci dalla doccia, fasciata da un’asciugamani, che ti avvicini, spostando nel mondo ogni equilibrio di bellezza, e mi stringi forte, assecondando con il respiro i miei battiti cardiaci; e ci sarà allerta, le strade saranno allagate, e io mi accorgo di aver voglia di un ombrello che non ho mai avuto, mi rendo conto dei mie capelli che si bagneranno, e mi è chiarò che non ti sentirò rientrare, con le scarpe piene di pozzanghere non schivate, e la pelle piena d’acqua.
Vorrei ripulire, toglierti via dalle canzoni, dai gesti, dalle pupille, prenderti come fossi un oggetto e nasconderti; ma poi mi accorgo che il tuo comodino non l’ho sgomberato, oggetti di te: un bicchiere d’acqua pieno a metà, un libro, due fermagli, il deodorante, la boccetta di profumo.
In effetti qualche goccia sta già venendo giù, il cielo si crepa con piccoli fulmini, il vetro della finestra e il ticchettio; dicevano bene, ma non sapevano tutto; tipo non sapevano che io mi sarei seduto sul pavimento, che avrei bevuto due birre e che ti avrei cercata per la stanza, ripercorrendo nei ricordi ogni tuo movimento, né che avrei detto a voce alta: non fai più male; mentendo, né che mi sarei poi alzato, con gli occhi gonfi, e avrei preso la porta, che mi sarei mischiato alla pioggia, per fermarmi sotto quel porticato dove la prima volta che provai a baciarti, tu spostasti il viso.
Cosa è stato bello e cosa no, adesso non è importante; cosa avrei potuto fare e cosa no, nemmeno; so solo che va tutto bene, o almeno così mi racconto quando la mattina al posto tuo c’è il vuoto, ma con te i colori e i sapori era diversi; il male faceva meno male, e i momenti felici erano di un’intensità a me sconosciuta.
La tua meraviglia dovrò anestetizzarla.
Resta tutto, anche se in fondo è tardi, e forse non resta niente.