Le librerie più belle del mondo sono sempre le stesse
di Giorgio Pirazzini
Le librerie indipendenti parlano con due linguaggi, quello della fierezza della qualità del servizio rispetto all’anonimato delle grandi catene e quello dell’imminenza del naufragio perché “in Italia si legge sempre meno”.
Ma c’è uno sparuto gruppo nel mondo che invece non ha problemi di vendite, sono “le librerie più belle del mondo”. Il virgolettato viene dai titoli che si trovano sul web: ogni anno, forse ogni mese, c’è almeno un sito che pubblica, prendendolo da un post precedente di un’altra testata, una galleria di foto delle più belle librerie del mondo e l’articolo viene a sua volta rimbalzato da diverse testate. È notoriamente un discorso autoreferenziale in cui i siti di informazione, anche i più prestigiosi, si rifanno sempre alle stesse fonti e ripubblicano vecchi contenuti tentando di attirare click e condivisioni sui social media e aumentare gli introiti pubblicitari. Niente di male, per carità, lo fanno veramente tutti. Solo per citarne alcune: in Gran Bretagna il Guardian o il Telegraph, la BBC, Metro, in Francia Les Echos e Vanity Fair, in Italia Repubblica, La Stampa, magari negli inserti del Corriere della Sera, Il Post, e ovviamente le testate di lifestyle, come Donna Moderna o Style.it.
Ma come si entra in questa classifica? Come si diventa una delle librerie più belle del mondo? C’entra la passione, certamente, ma quella non spiegherebbe come centinaia di librerie indipendenti non reggono l’arrivo delle grandi catene o di Amazon. E qui interviene un costante lavoro sull’immagine che si proietta e sulla decorazione – o forse sarebbe più esatto, scenografia.
Prendiamo il caso dell’onnipresente Shakespeare and Company di Parigi. Non c’è classifica che non la includa. I film la scelgono come ambientazione. I turisti la visitano.
Fu inaugurata da George Whitman con il nome Le Mistral nel 1951, e divenne Shakespeare and Company solo nel 1964, un omaggio alla leggendaria omonima libreria anglofona fondata nel 1919 che aveva, tra l’altro, pubblicato per prima l’Ulisse di Joyce, e che veniva persino citata da Hemingway nel libro “Festa mobile” ricordando che alla proprietaria Sylvia Beach piacevano gli scherzi e i pettegolezzi e che “nessuno era più gentile di lei”. Menziona anche che aveva delle belle gambe. L’omaggio si ferma al nome, perché la libreria di Sylvia Beach [foto 2] era da tutt’altra parte, all’interno della Rive Gauche in rue de l’Odéon, mentre quella odierna è ospitata in un pittoresco edificio seicentesco sulle rive della Senna. In pubblicità si cerca di agganciarsi a storie pre-esistenti in modo che il pubblico abbia delle referenze a cui agganciare la propria immaginazione.
È una libreria labirinto, dai corridoi angusti e i soffitti alti, tutta di legno scuro e con un gusto sapientemente antico che ricorda l’artigianalità del libraio e la storia che quelle pareti potrebbero raccontare. Una scaletta rossa stretta e scricchiolante, porta al primo piano, dove gli scaffali sono stipati di libri usati. In un cabinotto chiuso da un soppalco c’è una vecchia macchina da scrivere dove i turisti, aspettando il loro turno, possono sedersi e immaginarsi di essere un famoso scrittore emigré, Ernest Hemingway o Henry Miller, impegnato a scrivere di una scandalosa Parigi dei primi del Novecento da una stanza in affitto nel Quartier Latin. In un’altra c’è un vecchio pianoforte in cui chi vi scrive ha passato abbastanza tempo ad ascoltare ragazzi, tendenzialmente anglofoni, che strimpellavano qualcosa. In fondo al corridoio c’è la sala degli incontri, uno spazio quadrato e foderato di moquette che funge da silenziatore dove si discorre, in inglese, del ruolo della poesia nel mondo di oggi. Dall’altra parte il corridoio è chiuso da un vecchio letto su cui ci si può sedere e leggere qualcosa. Non è la classica libreria polverosa piena di libri usati mangiati dalle tarme, e a Parigi ce ne sono ancora parecchie. È un “vecchio restaurato”, o, meglio ancora, un “vecchio rivisitato”. Il cliente vede nella Shakespeare and Company il fascino della vecchia libreria che ospitava la vita maudit dei grandi scrittori senza il fastidio dei topi. Come entrare alla Favela Chic, anch’essa nata a Parigi, senza la criminalità e la sporcizia. Il cliente vuole l’immagine fatata, non l’essenza reale. Credo che Paolo Conte intendesse questo quando parlava del “sogno arabo che ami tu”.
La cosa che più salta agli occhi, parlando di una libreria, è che non c’è niente nell’offerta del prodotto che sia differenziabile. Un libro, la stessa edizione di un libro, resta identico se comprato in in un grande magazzino, dal libraio di fiducia o su Amazon. Questa è la fregatura maggiore per gli indipendenti perché limita la possibilità di differenziare la propria offerta. Ma la Shakespeare and Company riesce nell’impresa impossibile di convincere il consumatore a pagarlo più degli altri, nel caso dei libri usati, a volte persino più del prezzo originale di copertina da nuovo. Un’edizione Penguin recente dell’Isola del Tesoro venduta in Inghilterra per 5,95 sterline, viene proposta di seconda mano a 6 euro. Piccole Donne, nuovo a meno di 6 dollari, ne costa 6 euro un po’ ingiallito. The Hunger Games, nuovo a poco meno di 9 dollari, qui viene venduto a 6 euro.
E qui entra in gioco la superba strategia di narrazione della Shakespeare and Company. Non è una libreria, è un tempio dell’immagine di quella Parigi ribelle e letteraria che i lettori sognano. Comprare un libro alla Shakespeare and Company significa gettare un obolo in un santuario della cultura e portare a casa un’immagine sacra.
Infatti, un libro comprato alla Shakespeare and Company, per negare proprio quello che affermavo poco sopra, non è lo stesso libro anonimo comprato da un commesso svogliato di una grande catena o lasciato nella buchetta della posta dentro un cartone marrone da Amazon, ma è un libro “firmato” da un timbro che ne certifica la provenienza, come se fosse autografato dalla storia che la libreria si porta dietro, autografato da tutti gli scrittori che hanno conosciuto la libreria e anche da quelli che frequentavano la libreria di Sylvia Beach, ripeto, in tutt’altro rispetto all’attuale. Baudrillard sosteneva che che un’immagine non riproduce la realtà, come sarebbe intuitivo credere, ma invece la precede e la modella. E infatti generazioni di scrittori si fondono anche nelle menti di chi in quella libreria ci lavora. Io stesso comprai Il Tropico del Capricorno e il commesso che mi timbrava il libro mi assicurò che “Henry Miller was a good friend of the Shakespeare”, nonostante Miller abbia vissuto a Parigi dal ’30 al ’39. Magari sarà tornato a Parigi di tanto in tanto dopo la guerra, chissà.
Un altro pezzo della narrazione della libreria è l’immagine da Chelsea Hotel che proietta. A Parigi risuona ancora la storia che la Shakespeare and Company dia rifugio a intellettuali e artisti squattrinati che vogliano dormire fra le pile polverose di libri. Il motto del fondatore, oggi dipinto a grandi caratteri in cima alla scaletta interna è, “accogli gli sconosciuti, potrebbero essere angeli travestiti”, che poi è la parafrasi della credenza della Grecia classica di accogliere gli stranieri perché tra loro potrebbero nascondersi Dei in incognito. Si parla di più di 30,000 ospiti dalla fondazione a oggi, e l’immagine dell’accoglienza di questa libreria è ancora forte. Quando dieci anni fa cercavo casa a Parigi un’amica mi consigliò di chiedere alla Shakespeare and Company se potevano ospitarmi qualche giorno. Il sito internet offre l’opportunità di proporsi.
La moderna libreria si inserisce quindi in un settore di marketing “premium”, quello di Starbucks per intenderci. Non vuole diventare “lusso”, Shakespeare and Company offre lo stesso prodotto, un libro o un caffè, a un prezzo maggiorato in virtù di un’esperienza sensoriale ed emotiva che va oltre l’oggetto stesso ma si fonde con la storia che quel luogo emana. È marketing spicciolo, a spiegarlo, ma difficilissimo da mettere in pratica. L’agio, la storia, la bellezza, è un delicato puzzle di sensazioni che si combinano magnificamente e che fanno sì che all’entrata si formi una fila senza che ci sia un autore famoso come Stephen King, Fabio Volo o J. K. Rowling, perché nell’imprinting della libreria, gli autori culto sono già tutti dentro. Come spiegare altrimenti le persone che si scattano selfie all’entrata di una libreria, senza poi nemmeno entrarvi?
Nel 2015 ha assorbito anche i locali adiacenti, aprendo, appunto, un caffè omonimo, colonizzando tutto l’angolo della strada, che ormai potrebbe chiamarsi dunque Shakespeare and Company Place. Si è quindi inscritta a pieno titolo nella tendenza degli ultimi 15 anni di agganciare a un luogo di cultura un ristorante o una caffetteria, sfruttandone la posizione e l’ambientazione esclusiva: due esempi fra i tanti sono i lussuosi Le Georges all’ultimo piano panoramico del museo Georges Pompidou e il Café Marly con la terrazza con vista sulla piramide del Louvre.
E infatti stiamo parlando di un luogo che, a differenza delle altre librerie generiche che vivono del tessuto del quartiere che li circonda, la Shakespeare and Company raggiunge un pubblico che va molto oltre i confini naturali, sostanzialmente quelli di una libreria anglofona nella Rive Gauche di Parigi: la pagina Facebook ha più di 120,000 mila likes, quella Instagram è seguita da quasi 40,000 persone.
La libreria Shakespeare and Company si nutre di una forza che va oltre i libri, ma sarebbe riduttivo addurre il suo successo solo a una strategia di marketing che non farebbe giustizia alla passione che il suo fondatore ha messo nel progetto, oggi portato avanti con vigore dalla figlia. Parliamo di un flusso costante di eventi letterari tra incontri e premi, iniziative per coinvolgere i lettori – e i turisti -, una presenza importante sul web con un sito ricco di informazioni e di servizi, incluso un e-shop e un lavoro insistente sui social media.
Insomma, non è solo “marketing”, quella parola “marketing” pronunciata con una vena di disdegno, ma è anche il marketing che può valorizzare una passione autentica.