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Agosto oscuro

(Tommaso Labranca ha scritto molto. E molto di ciò che ha scritto ha avuto diffusione carbonara, roba per pochi iniziati, autopubblicazioni, email, blog… Luca Rossi, dopo la sua morte, ha raccolto alcuni di questi testi introvabili, li ha organizzati e ora, nella collana dei libri di Tipografia Helevetica, finalmente ripubblicati (per i tipi della “loro” microcasa editrice). In attesa del doveroso anti-meridiano labranchesco, questo mi sembra un buon inizio. Pubblico qui di seguito la affettuosa introduzione al volume di Luca, spronandovi ad acquistare il volume. Basta un click. G.B.)

 

di Luca Rossi

Se solo fossi stato più veloce. Avrei potuto prendere la rotella della pizza Alessi a forma di orso polare blu che Tommaso aveva coordinato con il portabiscotti Mary Biscuit in termoplastica blu, con la zuccheriera Gino Zucchino Alessi, sempre in blu e avrei potuto operare il salvataggio cerebrale. Avrei usato lo spremiagrumi Mandarin per scolare il cervello e lo avrei collegato al powerbank che ho sempre nello zaino. Per tutto il resto ci sarebbe stato tempo: l’avrei potuto mettere in un acquario per pesci e lui sarebbe rimasto lì dentro, completo di occhi e nervo ottico, con tutto l’occorrente per continuare a guardarmi durante la procedura. Avrei sostituito la batteria portatile con un avviatore d’emergenza per auto o con una batteria per tir e avrei tenuto Tommaso in vita, lì immerso un altro po’ in una sostanza lattescente e nutritiva. Dall’acquario avrebbe continuato a guardarmi, con gli occhi sempre aperti, ancora vivi, alimentati dallo starter, collegato in due punti distanti del midollo spinale, per alimentarlo. Tommaso mi avrebbe guardato tutto il tempo, attraverso gli occhi, fissi, ma non spenti, un po’ come succedeva in una delle scene più pulp di Robocop II: un cervello, estirpato e messo sott’olio, ascolta i chirurghi parlare di come il resto della sua persona verrà smaltito, in umido probabilmente. Io avrei dedicato la massima cura a questi amabili resti, li avrei dispersi sul Sacro Monte di Varese, come voleva lui, facendo partire sull’iPhone Ascent (An Ending) di Philip Glass, come concordato con lui e subito dopo un pezzo qualsiasi degli Wham! Con George Michael che di lì a poco si sarebbe nullificato come Tommaso.

Penso che Tommaso avrebbe vissuto bene anche all’interno di un barattolo di miele che era la sua unica dipendenza. Avremmo continuato a parlare, telepaticamente. Certo ci sarebbe stato qualche problema per andare al ristorante e anche per elaborare un complicato dress code per un nuovo indimenticabile evento della stagione autunnale della MaisonLabranca, ma avremmo avuto tutto il tempo del mondo per trovare una soluzione.

In questa brutta copia del Cervello di Donovan io non avrei avuto la faccia di Lew Ayres, il primo Dottor Kildare e non avrei nemmeno potuto contare sull’assistenza della futura signora Reagan, ma al massimo della mamma di Tommaso che si sarebbe messa a urlare vedendomi prendere i guanti di lattice e la rotella della pizza a forma di orso polare che a Tommaso piaceva tanto, ma che non aveva mai usato.

Sarebbe stato il degno epilogo dell’agosto oscuro di Tommaso Labranca, un agosto passato a lavorare all’ennesima biografia su commissione e che si sarebbe concluso come uno dei libri più celebri del poco celebre Clifford Siodmak, che da noi è arrivato solo sotto forma di Urania altamente disintegrabile, fragile come tutte le cose belle.

Tommaso però avrebbe potuto continuare a scrivere, mi avrebbe dettato le cose telepaticamente, proprio come a scuola, come avviene nelle pagine più belle di quell’Urania: un dettato come a scuola e avrebbe finito il libro sul mondo del lavoro e del lavorìo intellettuale che aveva il nome di lavorazione Cyclon come la polvere che il padre di Tommaso, gommista, usava per pulirsi le mani e che aveva scelto per quel suo  suono così dannunziano.

Nel cervello di Tommaso, quell’insieme di volute grigie che ora mi osserva silenzioso dall’acquario, sarebbe stato un Cuore 2.0 ambientato nel meraviglioso mondo di chi millanta una miseria balzachiana perché per vivere «lavoro coi libbri!» come ama urlare alle amiche coatte.

Il nuovo Cuore o Cyclon sarebbe stato pubblicato da Ventizeronovanta? Non è detto. Tommaso diceva spesso di voler cercare un altro editore, diverso da noi, cioè da me solo ora che lui si è ridotto a encefalo galleggiante, ma chi? Nel dubbio un contratto con se stesso, con Ventizeronovanta non era vincolante, ma avrebbe dovuto sottoporre il testo al vaglio del giudice-editor più severo: lui stesso.

Ci aveva preso gusto a farsi le cose da solo, perché «tanto non vendo, non m’interessa vendere se devo scrivere cose che non mi piacciono» e quindi era meglio vivere dignitosamente con le biografie alimentari come quella del cantante di Pontedera, oppure elemosinando articoli da Libero, «gli unici che mi fanno lavorare» e, sento che telepaticamente il cervello lo sta impremendo a fuoco tra le mie sinapsi, gli unici che mi facciano scrivere quello che voglio, come lo voglio.

Steve Martin, del quale Tommaso aveva curato la biografia per Excelsior 1881, l’editore che ci ha fatto incontrare (nel senso che grazie a Excelsior 1881 abbiamo preso a frequentarci ogni giorno, quando stavamo editando un mio libro), viene sedotto da un cervello in Ho perso la testa per un cervello: il protagonista s’innamora di una conserva di neuroni. In tutti i cerebri però è radicato un forte istinto di sopravvivenza, siano essi in vetro o all’interno della scatola cranica, o in un hard disk esterno pieno di file interrotti. Così quella cartella, nominata maliconicamente “cose da fare” chiede giustizia, perché la morte, prematura, di un cervello eccezionale, è sempre un’ingiustizia, anche se questo cervello non è morto.

Come il protagonista del Cervello di Donovan anche io mi chiedo cosa abbia originato il pensiero di Labranca, perché l’encefalo non me lo vuole dire. «Il pensiero è frutto di un processo chimico, il problema è scoprire quali combinazioni chimiche siano responsabili del successo, della gioia, del dolore, del piacere» diceva il Dottor Kildare a Nancy Reagan guardando dentro l’acquario nel quale galleggiano i neuroni di un miliardario mitomane.

Il cervello di Tommaso invece è reticente, quindi devo rispondermi da solo: è l’isolamento, quella solitudine che ricercava e nella quale mi era permesso entrare solo in punta di piedi. La solitudine che difendeva e che percorreva, percorravamo, in bicicletta nella lunga estate milanese fatta di asfalto rovente e di parcheggi facili, una città svuotata dalla volgarità impiegatizia sciamata verso località amene animate da dj set chiassosi, olio abbronzante su addominali faticosamente piallati per nove mesi all’anno in attesa di questi quindici giorni di trasgressione.

Sento che queste cose me le sta suggerendo il cervello telepaticamente. È questo cervello che ha scritto i frammenti che andrete a leggere e che sono stati scritti in anni diversi, ma sempre in questo periodo, il periodo che va dagli ultimi giorni di agosto ai primi di settembre, fino alle prime castagne mature, chiuse nel loro riccio come il cervello di Tommaso era chiuso nel corpo prima che lo liberassi. Sono anche i ricordi più belli che ho di Tommaso. Lo vedo con l’encefalo inserito nel corpo, io e lui, attraversare la città svuotata con le bici del comune e la cartella stampa del suo ultimo libro, Vraghinaroda per portarlo in gallerie d’arte e redazioni che non risponderanno mai. Oppure lo rivedo a raccogliere castagne nei boschi vicino a Varese «La mia Combray» o ad attraversare il decumano dell’Expo in una sera di ottobre dell’ultimo autunno che ha visto, la stagione che amava, tanto quanto odiava l’estate. È questo agosto oscuro, quello che ha distrutto il suo corpo fisico che lo ha elevato sopra quel grigio cielo impiegatizio dove Labranca ha ambientato 1+1=1 e che odiava fino al midollo (quindi anche ora che è un cervello), fin da quando lavorava all’enciclopedia della pesca DeAgostini, della quale ricordava maliconicamente il bar della metro di Caiazzo e l’Apple II che aveva portato un capodanno a casa per lavorare, proprio come noi due a capodanno 2015 che ci siamo trovati a lavorare a Tipografia Helvetica mentre il resto del paese faceva il trenino. Eccola la patetica libertà di chi vive nel meraviglioso mondo delle letterine e cerca di scaldarsi nel freddo inverno metropolitano solamente con collaborazioni a riviste e quotidiani come in Iva è partita, fiaba patetico-fiscale che è la vita di chi si deve procacciare un reddito giorno per giorno. Così quando l’ultimo modello di iPhone, che racconta mesi di stenti per pagare le rate e che non suona perché le redazioni sono chiuse ad agosto come a dicembre. In questa bolla di caldo africano o di gelo iperboreo si consuma la tua personale apocalisse urbana, fatta di attese irrealizzate e fatture non pagate. Viene da chiederti dove hai sbagliato, forse peccando di eccessiva purezza.

In uno di questi agosti Tommaso aveva scritto le Poesie dell’agosto oscuro e H20, Il sussurro dell’acqua, che chiude la raccolta e che è stato presentato in occasione del primo compleanno di Ventizerovanta. È stato invece il silenzio dei boschi insubrici a ispirargli Una zampa più corta ed Applesina, in uno dei pomeriggi passati a raccogliere castagne. «Ti fa piacere se li pubblichiamo? Anche se tu dicevi che alla tua morte avrei dovuto bruciare tutto?» Il cervello mi fissa, ma non risponde. Mi viene voglia di usarlo come un iPod Shuffle, uno strumento magico in grado di azzeccare sempre la playlist giusta per uno specifico stato d’animo, un libro-game che ha per protagonista Milano o una LabrancApp che sfruttando il gps e la realtà aumentata attivi un’ologramma tridimensionale di Tommaso ogni volta che attraverso in bici un luogo della città che ho visitato con lui. Quello che invece posso fare è un Labranca superpocket compatto e tascabile, che è un po’ quello che è stato raccolto nelle pagine che seguono. Accontentiamoci nell’impossibilità di avere un Labranca “aumentato”, ridotto nel peso e nello spazio occupato, ma virtuale e interattivo, ologrammatico, vivo in qualche modo, con il quale interagire ancora, come l’intelligenza artificiale del film Lei, ologrammi più veri dei replicanti senz’anima quotidianamente immessi e ritirati in un mercato in cui è difficile distinguerli dagli uomini dotati di anima. Una specie di Blade Runner 2049, ma con le prime umide foglie gialle settembrine al posto della pioggia sempiterna a manifesto di questi anni incolori. Il cervello di Labranca sarebbe più umano di tanti uomini interi. Potrei metterlo in un tupperware con del ghiaccio secco e infilargli un cappellino di lana per il freddo. Lo metterei nello zaino e poi nel cestino di una BikeMi e pedalerei alla volta del McDonald’s di Porta Venezia o di Brenta o in uno dei tanti posti in cui andavamo assieme a lavorare. Sarei disposto a correre il rischio di farlo spiaccicare sull’asfalto, proprio come nel finale di Robocop II. Rabbrividendo ogni volta che la ruota della bicicletta incontra l’infida superficie di porfido del temibile pavé cittadino, perché tutti i cerebri celebri del cinema fanno sempre una brutta fine. E troppo spesso anche nel mondo vero.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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