I “monelli” del Dr. Tomuschat


 

di Orsola Puecher

Chi sono e dove si trovavano i bambini con i vestitini sporchi e stracciati come il monello di Charlot, i monelli come con arguta dolcezza qui nelle Marche si chiamano comunemente i bambini? E i soldati e ufficiali della Wehrmacht sorridenti che li prendono per mano, le donne in posa, i neonati in carrozzina, le suorine ammassate a sbirciare da un balcone, poi con gli ombrelli neri? Nelle riprese sfocate del Dr. Tomuschat, ufficiale medico della Wehrmacht, ⇨giunte dopo molte traversie fino a noi nel terzo millennio dal secolo delle guerre, in un ordinato antico paesaggio rinascimentale di vigneti e fondi agricoli si riconosce la cinquecentesca Villa Selvatico Sartori di Battaglia Terme, Rovigo, sui Colli Euganei, con la sua lunga scalinata a terrazze, la quadrata sagoma massiccia, il belvedere tutto intorno, la cupola turrita. Edificata in cima al colle di Sant’Elena, detto fin dall’alto Medioevo “colle della Stufa” (o stupa) per la presenza di una famosa grotta sudorifera, la Grotta Radioattiva, per curare malattie e dolori articolari con il calore e le acque termali che sgorgavano dal sottosuolo, fu frequentata nel tempo da famosi personaggi: da Francesco Petrarca, al duca Francesco III di Modena, il filosofo Michel de Montaigne, lo scrittore francese Stendhal e il poeta tedesco Heinrich Heine. E li possiamo ancora immaginare, sudati e accaldati, seduti fra le rocce vulcaniche, avvolti in bianchi panni drappeggati come senatori romani, o dannati di un un qualche antro acherontico dantesco.

Nel filmato appare anche un grande edificio “moderno”, in stile ventennio, che è lo Stabilimento Termale INPFS, Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale: un suo padiglione era stato adibito in quegli anni a ospitare i molti orfani di guerra della zona. Cosa che giustificherebbe la presenza dei “monelli”.

Lo stabilimento idro-termale, costruito ai piedi del colle per preservare la littoria salute dei lavoratori, venne inaugurato in pompa magna nel 1936, alla presenza di autorità regie e fasciste, Piccole Italiane e Balilla e folla festante.

 

Nel ’43-’44 l’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale fu requisito dal comando Tedesco per ospitare il Feld-Lazarett 95, ospedale da campo della 5a Gebirgs-division della Wehrmacht, una divisione di montagna paragonabile agli alpini. La 5a Gebirgs-Division dopo le vittoriose operazioni militari nell’isola di Creta nel ’41, che si conclusero però con grandissime perdite di uomini, dopo l’impiego nel settore sud-ovest di Leningrado, dove fronteggiò l’Armata Rossa fino al novembre 1943, contribuendo tra l’altro all’accerchiamento del cosiddetto “fronte Volchov” ma subendo anche là grandi perdite, venne trasferita in Italia settentrionale per un periodo di riposo. Dal gennaio 1944 entrò in azione sulla linea Gustav, scontrandosi anche nella battaglia di Montecassino. A settembre era sulle Alpi Marittime, e il 2 maggio 1945 si arrese alla 5ª armata statunitense nei pressi di Torino.


Nel filmato del Dr. Tomuschat compaiono ufficiali, soldati, in divisa, in maniche di camicia, in esercitazioni militari che paiono scampagnate domenicali, mentre brandiscono fiaschi di vino e bottiglie di prosecco, con bambini per mano e tutti sempre sorridenti e benevoli. Anche il saluto nazista con il braccio alzato è veloce, appena accennato, simile a un normale gesto di commiato. La gente qui è in posa di fronte agli shot di cinematografia amatoriale, con cinepresa portatile Agfa Movex e pellicola Agfa 8 mm del Dr. Tomuschat e non esposta, almeno per una volta, agli shot letali delle armi da fuoco di diverso calibro dell’esercito tedesco, ormai sconfitto e per questo ancora più incattivito, in quella precipitosa ritirata attraverso il Veneto, via di fuga diretta verso la Germania, detta comunemente marcia della morte per il numero di vittime di stragi, una lunga scia di atti di pura rappresaglia e crudeltà perpetrati contro una popolazione civile inerme e provata da anni di guerra. Il filmato ricevuto e fatto sviluppare da ⇨ Home Movies di Bologna e diffuso sui principali siti dei quotidiani per vedere se per caso qualcuno, ancora dopo tutti questi anni passati, vi si riconoscesse, è ora oggetto di analisi da parte di storici e studiosi. In vari articoli che ne parlano si cerca di identificare, un po’ forzatamente, e forse inutilmente, al suo interno, fra la quotidianità pacifica della situazione tracce del Male Assoluto, che ha percorso l’Europa nella prima metà del secolo scorso. La quotidianità, l’esistenza di una quotidianità, fatta di gesti normali, insignificanti è quasi impensabile in periodi di guerra, eppure la vita andava avanti comunque, nonostante tutto, per tutti, vittime e oppressori. Ad essere oggettivi, cosa molto difficile in casi come questi, non ci si può sbilanciare nè sul versante della celebrazione degli alcuni, rari, nazisti buoni, oppure di quella certa vulgata in cui si distingue Wehrmacht buona e SS cattive, cosa che farebbe solo il gioco di un certo strisciante e mai morto negazionismo, ma neppure è possibile virare le immagini riprese di indizi di terrore imminente, come un po’ fa intendere il pur bel accompagnamento musicale di sottofondo. Il terrore è interiorizzato dentro noi che guardiamo il passato con il futuro alla spalle, nel nostro occhio che non riesce ad essere innocente di fronte alla storia e alla sue bufere. Come l’Angelus Novus di Klee-Benjamin:

IX.
C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente ma­cerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera. 1

Il nostro occhio, il nostro ricordo è sempre nell’attimo di pericolo e forse è giusto che sia così, perché il ricordare, la memoria, non sia un mero esercizio di nostalgia, di conformismo, ma la scintilla di speranza per i cui morti, le vittime, non muoiano due volte nell’oblio e nel ritorno della stessa violenza, sempre pronta a rinascere, a ritornare a vincere, e che mai non ha smesso di vincere.

VI.
Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «proprio come è stato davvero». Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo. Per il materialismo storico l’importante è trattenere un’immagine del passato nel modo in cui s’impone imprevista nell’attimo del pericolo, che minaccia tanto l’esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari. Per entrambi il pericolo è uno solo: prestarsi ad essere strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla. Il messia infatti viene non solo come il redentore, ma anche come colui che sconfigge l’Anticristo. Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere. 2

Un dottore nazista con dei bambini con faciloneria evoca subito un qualche Mengele, eventuali terribili esperimenti su di essi, le donne le vedi come possibili deportate, rasate, nude, messe al muro, stuprate, i bambini ostaggi di rappresaglie, episodi realmente e iteratamente avvenuti, ma forse questo Dr. Tomuschat, era solo un medico militare che curava i feriti di guerra nazisti nel Feld-Lazarett 95 situato nello stabilimento termale. La cinepresa è amatoriale e quindi pare improbaibile che proprio in quel drammatico 1944 di ritirata, il film fosse girato per propaganda, ma bensì forse era solo per uso personale, per ricordo. Per raccontare a casa di un bel ricordo, da viaggio in Italia, che lavasse la coscienza dalla stragi di quel periodo, in quasi ognuno dei piccoli paesi vicini dei Colli Euganei. Il comando della Wehrmacht della zona, posto nel Collegio Vescovile della vicinissima Este, era in mano a un certo Willy Lembcke, protagonista di atti indegni. Qualcuno dei soldati sorridenti in pausa terrore del filmato vi aveva partecipato, vi parteciperà?
Nel suo romanzo La vita eterna [1972] ⇨ Ferdinando Camon, scrittore un po’ dimenticato ma che molto ha dedicato alla Storia del Veneto martoriato dai nazifascisti, descrive la crudeltà di Lembcke.

Sul far della sera arrivò nel paese una moltitudine di ragazzini tedeschi sui sedici anni, con cappotti più lunghi di loro che spazzavano la terra e le facce spaventate e perciò spaventevoli, e disponendosi metà a destra della strada e metà a sinistra, in totale silenzio come per una cerimonia sacra, cominciarono la loro processione. Dietro di loro venivano i tedeschi anziani che sopraggiungevano continuamente in camion e lasciavano i camion al crocevia incolonnandosi a piedi per la processione che andava a benedire le Sette Albare. In mezzo alla processione come una reliquia santa portata a spalle sul baldacchino veniva la faccia di pugnale del colonnello Lembcke sulla gip silenziosa che pareva procedesse a motore spento, e ai quattro lati della gip c’erano quattro ufficiali tedeschi che con la coda dell’occhio tenevano continuamente sbirciato il colonnello. Come arrivarono in zona, il colonnello ad ogni casa che incontrava pareva che si svegliasse da un sogno, perché illuminandosi di una luce sporca trasformava il pugnale in una faccia e con lo sguardo annoiato e sofferente toccava qualcuno dei quattro ufficiali, a destra o a sinistra del suo tronetto a seconda che la casa fosse a destra o a sinistra, e l’ufficiale così toccato si trasformava in bestia e schizzava via come un cane rabbioso e mordeva le file della processione che in un grande urlìo si scompigliava di qua e di là tutt’attorno alla casa come vesponi inveleniti, e poi saltavano dentro la casa per le finestre e per le porte, e per scoprire se c’era gente piantavano la baionetta sui letti trapassando i materassi e sugli armadi sforacchiando le porte e sulle madie e attraverso le tende dei sottoscala, sempre di corsa per le camere e saltando i gradini e nella fretta più volte scontrandosi tra loro con fragore di elmetti e ruotare delle occhiaie bianche senza pupilla, poi saltavano fuori per le finestre e mentre quattro si disponevano agli angoli della casa gli altri tornavano di corsa a riprendere il loro posto nella processione.

Sono casi questi in cui la colpevolezza collettiva di un intero popolo, cozza con l’innocenza individuale, effettiva magari in qualche caso, o pretesa, sempre. A tutti i processi di criminali nazisti, la scusa più usata per giustificare ogni tipo e grado di crudeltà e autoassolversi individualmente, non è sempre quella di aver ubbidito a ordini superiori?
Dando uno sguardo alla mappa dell’⇨ Atlante delle Stragi Nazifasciste in Italia, colpisce questa nuvola cosi densa di segni rossi delle etichette luogo di Google Maps, tale da non lasciare quasi intravedere l’orografia del territorio, e ingrandendo con lo zoom, ecco che si evidenzia come quasi ogni piccolo paese ne fu colpito in misura maggiore o minore.

Nel libro Soldaten, Garzanti [2012], lo storico Sonke Neitzel e lo psicologo sociale Harald Welzer analizzano i comportamenti brutali e la psiche dei soldati nazisti studiando i verbali degli archivi inglesi e americani, che trascrivono le intercettazioni delle conversazioni tra i soldati tedeschi rinchiusi nei campi di prigionia di Trent Park e Wilton Park, nel Regno Unito, e di Fort Hunt, in Virginia, Stati Uniti, e da cui emerge che quella violenza così incomprensibile era una violenza talmente profonda e ideologicamete radicata da essere davvero normale.

In Italia, in ogni luogo dove arrivavamo, il tenente ci diceva sempre “cominciate ad ammazzarne un po’ “. Io parlavo italiano, avevo compiti speciali.
[Dice un caporalmaggiore della Wehrmacht e un suo compagno di prigionia.]

Il tenente ci diceva, ammazzatene venti, così avremo un po’ di pace, alla minima loro sciocchezza via altri cinquanta. Ra-ta-ta-ta con le mitragliatrici, lui urlava, “crepate, maiali”, odiava gli italiani con rabbia.

I sorrisi dei militari della Wehrmacht non ci ingannano nemmeno per quei pochi minuti del filmato, ma forse queste immagini ci dicono molto di più dell’Italia del ’44-’45, di ville antiche e storiche, luoghi sacri o profani requisiti dai tedeschi e che spesso furono teatro di saccheggi, di torture, e di violenze di ogni tipo. E questi monelli ci raccontano la condizione di un paese ridotto a una miseria profonda da anni di guerra. Si fanno riprendere con maggiore o minore ritrosia, gli viene detto di certo Sorridi… sorridi…, si avvicinano agli uomini in divisa, ai loro mezzi con la confidenza e la curiosità che solo i bambini possono avere. Si fanno prendere per mano. Ma i visi già quasi adulti, già provati da mille privazioni, da una vita dura, anche oltre la guerra, che forse abbiamo troppo presto rimosso, con un cagnolino al guinzaglio, una canna da pesca in mano, i piedi nudi, le gambine un po’ rachitiche e sporche, i fiocchi nei capelli, nonostante, e le treccine ben strette intorno alla testa da mani sapienti, guardano diritto in camera, ci guardano e noi con commozione li guardiamo. Come ci guardano, e anche noi li possiamo guardare negli occhi, i soldati, a volte un po’ pingui, lo sguardo da padri di famiglia, spesso con un certo imbarazzo. La sagoma del Dr. Tomuschat curvo nel riprendere si sovrappone sotto forma di ombra per ben due volte. Ci siamo tutti sulla scena in questa pausa sospesa fra le violenze. Ed è forse per questo che l’emozione di questi quasi sette minuti che paiono apparire come per miracolo dalle code della pellicola con i loro disturbi di linee e di erosioni, non ci abbandona facilmente.

Nel rapido passaggio di inquadratura fra un soldato che spara con il fucile durante le esercitazioni e i tre bambini adossati a un muro in fila, corre un brivido lungo la schiena. Ma loro poi un poco sorridono. Senza troppa convinzione, ma sorridono, parlottano fra loro. Non è il caso questo di fucilazioni di massa e rastrellamenti di donne e bambini di tanti altri luoghi. Ma il pensiero non può non andare subito a questi episodi, a terrore negli occhi, nessun sorriso, attesa dell’esecuzione. Più si guardano questi sorrisi, questa confidenza apparentemente gentile dei superuomini ariani conquistatori con il popolo conquistato e sottomesso duramente, più non si riesce ad esserne tranquillizzati. Per contrapposizione. E qualche attimo di studiata e costruita serenità, non riesce e non può cancellare tutto il resto.

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NOTE
  1. Sul concetto di storia
    Walter Benjamin pag. 27
    Trad.G. Bonola, M. Ranchetti
    Einaudi 1997
  2. ibidem

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