Il tramite e il filtro – Sulle erotomaculae di Sonia Caporossi
di Enzo Campi
In linea di massima e per quel che mi riguarda, basterebbe dire che quest’opera è costituita da una serie di poesie erotiche o, se preferite, aggiungere un’etichetta di genere: «omoerotiche», e il discorso sarebbe già chiuso. Non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro. Non tanto per lo specifico dell’opera di cui qui si vagheggia, ma per il «genere» che, nella maggior parte dei casi, rasenta i territori del risibile e del grottesco. Non è facile destreggiarsi dignitosamente in quest’ambito. Scrivere una «buona» poesia erotica è un po’ come scrivere una «buona» poesia comica. È difficile, tremendamente difficile. Per questo il prodotto che ne viene fuori è spesso scadente, o comunque dozzinale e scontato. Credo che chiunque pratichi questo genere debba chiedersi come sia possibile evitare questa incombenza. Ma vista l’eccedente presenza-a-sé che pervade l’opera, credo che non sia stata questa una delle preoccupazioni dell’autrice, quella cioè di trovare una risoluzione a questa eventualità. Comunque, partendo anche da questi presupposti, si potrebbe aggiungere un plusvalore all’impostazione formale e grafica con cui l’opera si presenta a noi. Perché si tratta, a tutti gli effetti, di una scelta. Le dichiarazioni dell’autrice in tal senso non lasciano adito a dubbi. Si tratta di una raccolta di poesie concepite in un arco temporale piuttosto ampio, compreso tar il 1986 e il 2015, e la cui forma originaria era quella di una versificazione piana e distesa, ovvero lineare. Il corpus testuale originario di queste poesie non prevedeva l’uso di diversi formati, caratteri, dimensioni, l’avvicendarsi, quasi furioso, di corsivi, tondi, grassetti, il ricorso ad apici, pedici, parole barrate, delocalizzazioni spaziali e quant’altro concorre alla forma definitiva che è stata poi fissata sulle pagine. Solo dopo aver deciso di farne un libro le liriche originarie hanno subito una trasformazione, per così dire, sperimentale, avvicinandosi a quello che è stato, da molti, definito come una sorta di manierismo futurista. Ma, al di là di una certa predisposizione intenzionale dell’autrice e di una vicinanza alla fenomenologia visiva futurista, non credo che l’etichetta sia calzante, non completamente almeno. Dico questo almeno per due ragioni. La prima consiste nel fatto che le parole in libertà futuriste non avevano un’impronta lirica e queste poesie, checché se ne dica, sono essenzialmente liriche. La seconda è che il ricorso ad espedienti grafici comunque conserva un andamento ordinato, lineare, decisamente consequenziale, e quindi non entra in un regime di stretta parentela con i vortici tipografici delle parole in libertà futuriste. Certo, se andiamo a soffermarci sulle minime differenze strutturali di costruzione grafico-spaziale possiamo anche trovare testi contenenti passaggi più affini alla strutturazione futurista (p. 57, 58, 62, 104, 133, 138, ecc.). Ma le eccezioni più evidenti sono più che altro di tipo calligrammatico, un po’ alla Apollinaire tanto per capirci, come ad esempio nella poesia denominata “Lacrime” (p.35). E anche altrove, il dispositivo para-calligrammatico si rende funzionale spezzettando una singola parola nelle lettere che la compongono e imprimendola sulla pagina in verticale dall’alto verso il basso, in un processo sinonimico tra concetto e risoluzione grafica, come ad evidenziare, per esempio, una caduta (“colante”, p.141; “pioggia”, p.123; “lacrimare”, p.99, e via dicendo). Del futurismo, classicamente inteso, resta comunque un’eco idealizzata, persiste cioè una vicinanza elettiva, forse rivolta a spiazzare il lettore attraverso una messa in scena egotica/dispotica (di cui vedremo meglio più avanti).
Detto questo si abbisogna di una ripartenza.
“Dove fu così, devo venire”.
La citazione è di Freud, citazione che vado a ri-definire in: “Dove fu così, devo (av)venire”. Mi sembra evidente che la «venuta» cui si accenna abbia almeno una doppia valenza, e che l’avvenimento o, se preferite, l’avvento possa istradarsi lungo diversi e contorti sentieri. Si dice che i sentieri debbano essere battuti, ovvero: praticati. Ma qui c’è la volontà preminente di battersi e di praticarsi nel tentativo di conferire logica formale e ordine concettuale alla venuta e all’avvenimento (“e quando ti sento cercarmi / le mani nella brezza immobile vaganti nel vago di un soffio / la guazza immota di sperma colato / rapprende in saliva alchemica / i nostri frementi e pulsanti torrenti di linfa e parole” [p.59]). E ciò avviene propriamente «a posteriori» , si potrebbe dire col senno di poi. Quindi il nostro “dove fu così” va identificato in quel tempo che è già stato vissuto ma che continua a caratterizzare sia il presente che l’a venire. Tutto ciò che, in arte e in letteratura, rinvia ad un a venire è comunque sintomatico di una progettualità. Ed è così che le singole lettere o le singole parole sono divise in blocchi concettuali dove il significato risiede a monte e il significante invece si configura, a valle, anche a livello prevalentemente visivo.
Perché ho citato Freud?
In quest’opera non si dà un punto d’arrivo, non un solo punto d’arrivo almeno. Sarebbe buona norma quindi concentrarsi sul punto di partenza. Il mio personale punto di partenza consiste in un lapsus che si potrebbe definire freudiano. Quando a Maggio del 2016 presentai quest’opera, in uno degli eventi del Festival Bologna in Lettere, citai testualmente «eteromaculae» invece che «erotomaculae». Comprenderete che, in un’opera dove viene celebrato e idealizzato l’amore saffico, pronunciare la parola “etero” rappresenti una sorta di contraddizione in termini. Ma, al di là dell’aneddotica, non credo che Freud possa assumere il ruolo di referente dell’opera. Forse, con una leggera forzatura, si potrebbe tirare in ballo Lacan, ma solo nei termini del «godimento» del soggetto scrivente verso l’oggetto attraverso il quale si estende o, se preferite (tanto per restare in ottica lacaniana), si estroietta. Il soggetto scrivente è naturalmente l’autrice (con tutte le accezioni di presenza/assenza/essenza che qualcuno potrebbe conferirle) e l’oggetto estroiettato è l’opera che induce l’autrice al godimento. Qui si tratta di «gettare» qualcosa. La gettata di Caporossi, con buona pace di Heidegger prima e Derrida poi, non rappresenta necessariamente un atto liberatorio ma un tentativo d’edificazione. Non tanto l’edificazione di una struttura (che comunque c’è) quanto l’edificazione di una consapevolezza comportamentale, per quanto non ci sia psicoanalisi che possa tenere le redini di una poesia erotica o omoerotica, così come non ci sono un inconscio o un subconscio da far riaffiorare, non necessariamente almeno. Il nostro “dove fu così” è già «venuto» e si è già consolidato.
Come districarsi allora in questa res extensa che erotomaculae mette al lavoro?
O meglio quali sono gli aspetti da evidenziare senza cadere nel tranello freudiano del “dove fu così”?
Si abbisognerebbe, forse, di un’altra «venuta», della venuta dell’altro che guarda da fuori. Un occhio esterno che dovrebbe indagare per poter argomentare, o quantomeno congetturare. E qui c’è da stare attenti a non trasformare l’atto dell’occhio esterno in una pratica voyeuristica, cosa che potrebbe intrigare un Bataille o un Klossowki ma che non sarebbe funzionale alla creazione di un «mezzo differenziale» che sveli, che porti all’aperto, che es-tenda le valenze significanti dell’Eros qui praticato e idealizzato come modus vivendi (“fibrilla il mio impavido peritoneo / sento che danza nell’etere in fiamme / il nostro sacro amor greco di sole” [p.56]).
Di quest’opera, o meglio del suo senso complessivo e della sua particolare ed eccedente «messa in forma grafica» conosciamo i pensieri e le opinioni profuse dall’autrice nel corso delle presentazioni pubbliche e nelle dichiarazioni programmatiche fino ad arrivare a qualche recensione e interviste presenti in rete. Sarebbe quindi pressoché inutile ri-proporre gli aspetti-chiave della strutturazione dell’opera, dalla rivendicazione di una matrice futurista (su cui comunque ho già puntualizzato) ai riferimenti più o meno espliciti a certi canoni della poesia greca antica, dell’elegia latina e del dolce stil novo, dalla presenza fantasmatica di Saffo alle chiare dissertazioni filosofiche su un’esserci che, per quanto sembri consolidato, è sempre da ricercare, e via dicendo.
Per evitare quindi di risultare prolissi e ripetitivi ci toccherà concentrarci su qualcosa di altro e provare ad entrare nelle pieghe di questo diktat sovrastrutturato.
Ci troviamo di fronte ad una serie di esperienze vissute da donna a donna, e consumate quindi con una serie di donne. Il regime è essenzialmente al plurale. Se ognuna di queste donne dovesse essere considerata come una musa ispiratrice: (“come fai a non capire che sei un essere divino / che la materia che ti compone è il punto zero del cielo” [p.101]), ci troveremo al cospetto di una serie di muse. Nell’impossibilità di citare tutti i passaggi significativi che pervadono l’opera, solo un’altra occorrenza che mi sembra, in tal senso, esemplare: “tu aggiungi forma all’informe / come il calco di un riflesso diamantato che rivela accecando […] tu aggiungi parole ai pensieri / modelli le onde proteiformi delle maree cerebrali […] tu aggiungi vita alla vita / tu aggiungi amore all’amore” (p.65).
Con buona pace di Foucault, quella della musa al singolare sarebbe una “linea di soggettivazione” (così come evidenziava Deleuze: “un processo, una produzione di soggettività” [Gilles Deleuze, Che cos’è un dispositivo?, Trad. Antonella Moscati, Cronopio, Napoli, 2007, p.17]) perché è fruibile solo dal soggetto scrivente, o quantomeno è destinata a rifluire verso il mittente. E anche la musa di turno vivrebbe la stessa situazione idealizzata in quanto «filtro» per un avvento corporeo e «tramite» per la messa in scena del sé scrivente.
La musa, al singolare, produce Eros solo nell’univocità e nella presunta immanenza di una specifica e limitata temporalità che ad essa è riferita e che con essa è vissuta. Ma non si tratta di una vera e propria produzione, perché l’Eros può darsi solo in un regime di serialità.
L’Eros, in quanto concetto universale (sebbene proiettato verso una continua ri-definizione e, come vedremo più avanti, verso il costante spostamento del suo centro), non può riferirsi ad una particolarità specifica. Se così fosse sarebbe errato chiamarlo Eros perché si ridurrebbe ad un semplice rapporto tra un uno e un altro. L’Eros è, in sé e fuori di sé, plurale.
In una diversa accezione o, se preferite, in una diversa terminologia, un’occorrenza esemplare sarebbe quella di conferire all’Eros una plusvalenza artistica. Come fa giustamente notare Nancy, la musa al singolare non potrebbe esistere perché rappresenterebbe l’arte stessa e non il mondo plurale delle arti (Cfr. Jean-Luc Nancy, Le Muse, Trad. Chiara Tartarini, Diabasis, Reggio Emilia, 2006).
Ci si potrebbe avvicinare così ad una definizione di Eros come arte, o meglio: come un insieme di arti (vista la molteplicità intrinseca della sua essenza). E sembra proprio che l’autrice sia orientata in tal senso, che cerchi cioè di conferire a quest’opera in particolare e all’Eros in generale una plusvalenza artistica: “poesia è il vomito di un istante / l’alleggerirsi scabro di succhi gastroenterici / un dito immerso nell’egolatria / della Musa di turno, / nei suoi affreschi vaginali” (p.8).
Scrivendo “della Musa di turno” è proprio l’autrice a predisporsi in un regime al plurale. Sottintende cioè la presenza/essenza di più muse, e quindi di una serialità. Se si considera che si tratta del testo introduttivo (e quindi di una dichiarazione programmatica) e che il titolo recita: “La funzione postmoderna dell’arte”, il circolo sarebbe già chiuso e determinato. Inoltre, se fossi costretto a puntualizzare, nella poesia denominata “Le figlie di Mnemosine” (pp.28-29), che è, forse, il momento dove l’autrice trova il più alto e intenso valore lirico di tutta l’opera, e che rappresenta un vero e proprio inno, oserei dire giubilante, all’Eros, l’autrice dicevo, attraverso il filtro e il tramite delle figlie di Mnemosine, ovvero delle «nove muse», certifica inoppugnabilmente la pluralità della pratica che contraddistingue l’opera.
Ma l’arte non si nutre di sola liricità o di quelle che l’autrice definisce “prospettive emozionali”. Bisogna fare i conti anche e soprattutto con la carne (non a caso l’autrice, in una intervista presente in rete, dichiara: “Erotomaculae è un libro ancor prima che scritto, pensato in carne e sangue. La sostanza materica che trasuda dalle sue pagine è composta dagli umori irriverenti del corpo e del sesso. È l’istinto omoerotico allo stato condensato, raggrumato, rappreso”), ovvero con la prospettiva materica e con il movimento dei corpi; nel nostro caso specifico anche con il movimento conferito alla scrittura, ai corpi della scrittura.
Difatti talvolta Caporossi sovverte, categoricamente, la lezione di Adorno sulla “discrezione” (“il movimento dei momenti posti in posizione discreta l’uno rispetto all’altro, nel quale l’arte consiste” [T. W. Adorno, Teoria estetica, cura E. De Angelis, Einaudi, Torino, 1975, p.259.]). In molti dei passaggi dell’opera non viene contemplata nessuna tipologia di “discrezione”. La descrizione, drammatizzata, dei corpi al lavoro è, spesso, decisamente sfacciata, quindi esposta ed esibita: “una lucida follia dell’intelletto sopperisce / alla mancanza delle mie unghie morsicate / ti penetra nel culo ti passa tra gli orecchi / ti distrugge la fica come un batocchio tritacarne / il tuo clito in calore mi squarta la pelle dell’anima (p.14)”. I corpi, nel porsi l’uno accanto all’altro, eccedono qualsiasi tipo di discrezione. L’accostamento, per usare le parole dell’autrice, deve accadere e cadere su una linea di pensiero, carne, sperma, amnio, sangue. Devi dirsi e agirsi. Difatti c’è una sacralità, per certi versi, quasi teatrale, o comunque teatralizzata.
Non a caso il riferimento alla caverna platonica è volutamente ambiguo e polivalente. C’è la caverna, casa-di-sé o dell’esserci, ma anche il «filtro» dove il regista Platone con l’escamotage visivo-concettuale delle ombre muove, da sapiente burattinaio, la propria macchina desiderante (il teatrino della vita) usando come «tramite» l’inconsapevolezza dei suoi personali burattini. A questa prima caverna si oppone la “caverna pubica” (p.24) caporossiana, che riprende da Platone solo l’idea che all’interno debba esserci, per così dire, una certa «animazione», che qualcosa (che sia solo un’idealizzazione, una sensazione o la reale tattilità di un corpo poco importa) produca un movimento volto a caratterizzare e ri-definire, per così dire, la messa a nudo dei corpi nel tempio della vita. E l’antiplatonismo, cui talvolta fa riferimento l’autrice in sede critico-esplicativa, è direttamente riferibile, per quel che mi riguarda, anche al fatto di essere lei stessa regista consapevole della propria caverna. Per la norma, non scritta, che due diversi registi non possano avere un punto di vista e una risoluzione comune, Caporossi deve definirsi antiplatonica, perché le sue ombre animate non sono quelle di Platone (passaggi come questi: “Aiutami se puoi / perché Platone ha aperto gli occhi stamattina e dal soffitto / traspariva l’idea di una caverna senza luce” [p.80]; “languo disamorata nella mia maschera virile / canto epicedi tantrici al funerale di Platone”[p.138], possono ritornare utili in tal senso).
Ma, d’altro canto, è conscia del fatto che si può «(av)venire» partendo dal “dove fu così”. In buona sostanza si tratta di assimilare e dimenticare, per poi poterne scrivere e drammatizzare. Per questo la «gettata» caporossiana potrebbe consistere essenzialmente nell’edificazione di una casa-caverna-struttura dove «agitare» e mettere in movimento il lavoro di tutta una vita in senso globale e non una semplice giustapposizione di attimi intensi vissuti e consumati tra un uno e un altro. Come se l’urgenza fosse quella di un vissuto da rivendicare, da un lato attraverso la trasmissione di dati sensibili, e dall’altro lato attraverso la drammatizzazione di un cortocircuito tra corpo e arte, ma anche tra il corpo proprio dell’arte e l’arte del corpo.
Il fatto che l’Eros sia anche una pratica artistica per molti potrebbe essere una cosa abbastanza scontata, ma solitamente (sconfessando la sua pluralità di base) si dà e si consuma nel privato. Renderlo pubblico, cioè estenderlo verso un fuori generalizzato conferisce, al di là dei risultati, un’intenzione artistica.
Ed è anche per questo che si abbisogna di un «tramite» e di un «filtro».
Nel corso di questa disamina abbiamo già incontrato qualche filtro e qualche tramite (l’accostamento oppositivo/riconciliativo tra classicismo e sperimentazione; l’estroiezione di un’anteriorità intesa come flusso e godimento; la produzione di soggettività differita nell’altro, le muse da usare e in cui usarsi, ecc.) e altri ne incontreremo che, seppur diversi tra loro, ci condurranno comunque verso una sola parola: «corpo».
Siamo alla presenza di un linguaggio performativo e insieme informativo, che compie realmente delle azioni e che ci informa su quello che accade (“e il mondo delle api si sveglia, e quello degli amanti va a dormire / ma vibra ancora nelle nostre viscere violente e scarnificate / dal rito d’una lussuriosa dignità l’evacuazione / il latte cagliato e rappreso del nostro istinto animale / di un supremo godimento interinale / conseguito / soddisfatto / e poi sfinito” [p.60]).
Partendo da questi presupposti si potrebbe anche ricercare un «codice», una sorta di scansione ricorrente attraverso i cui termini ri-considerare i singoli elementi in una vera e propria griglia concettuale. Ci toccherebbe quindi stabilire delle frequenze lungo le quali sia possibile trasmettere dati sensibili. Consideriamo queste frequenze come «linee di frattura» e insieme di rinsaldamento. Le terminologie più ricorrenti vanno ad identificarsi in una sorta di tavola dei comandamenti: rosso, silenzio, sangue, amnio, sperma, linfa, latte, fuoco, fonte, fiato, clitoride, spruzzo, umore, lacrime, labbra, ecc.
Ora, se consideriamo ognuno di questi termini come una parola d’ordine, come quelle che Nancy definiva “medaglie verbali”, noteremo che nel decorso del flusso testuale alcuni contesti sono costruiti in uno schema circolare e concentrico, il cui scopo potrebbe essere quello di rifluire proprio verso quella determinata parola d’ordine, verso quella determinata “medaglia verbale”. E questo avviene non solo in un singolo testo ma anche a distanza, come se fosse necessario dislocarsi da corpo a corpo, da testo a testo, rincorrendo i marchi distintivi del proprio status.
Un corpo che agisce e subisce, che dispensa e riceve, che incarna ed escarna sia il soggetto che l’oggetto, un corpo che si fa tramite e filtro sia delle azioni compiute che di quelle mancate, un corpo idealizzato e verificato sia nel cominciamento che nella fine (“là dove affondano le mie labbra / come agnelle spaurite dal coltello del Vate / come due pagine dello stesso libro / che si chiudono per sempre // sulla parola fine” [p.13]).
Nel nostro caso specifico, per estensione del concetto (e tenendo conto che anche le “linee di soggettività” possiedono comunque punti di fuga), la musa al singolare potrebbe essere considerata un Eros idealizzato come pratica salvifica incarnata in sé, e le muse al plurale rappresenterebbero invece l’escarnazione dell’Eros verso altri sé.
Ma risulterebbe comunque semplificativo e riduttivo.
Sarebbe difatti utile affermare che l’incarnazione potrebbe consistere anche nell’atto di toccare l’altro al solo scopo di toccarsi. E già questo sarebbe un primo aspetto sacrificale. Si sacrifica l’altro per sacrificare se stesso proprio nel ritorno-a-sé, anche a costo di fallire nell’intenzione primaria (“E quando abbiamo finito / mi sento ancora più sola. / Consapevole / di non esserti penetrata sotto la pelle. // In tutta l’estensione del tuo corpo, // in tutta la profondità del tuo pensiero. / Avendo fallito / a un solo passo / dal permutare identità. // Avendo perso l’occasione / dell’abbaglio metamorfico / che avrebbe fuso il nostro plasma / in un unico risultato” [pp. 40-41]).
Certo, stiamo parlando di eccedenze, ma per l’autrice sembrerebbe che l’aspetto dell’eccedenza (riconducibile, per certi versi, a quello che altrove è stato definito, di volta in volta, “neo massimalismo” o “realtà aumentata”) sia determinante a definire il suo status.
Per Bataille l’erotismo, in quanto sacrificio, è anche vita mescolata alla morte (“Scoppierei a piangere, / ti abbraccerei fino a farti morire / mentre soffoco di lacrime / sangue animale raggrumato // umore cristallino di ogni vano desiderio” [p.37]). Qui invece – nonostante la citazione, che è comunque idealizzata in una coloritura metaforica – si sostiene, sottotraccia, che l’erotismo sia invece «vita che eccede la vita».
Valga come esempio la poesia “Nel Segno” (p.20) che riporto per intero, la cui chiusa, sempre espressa attraverso metafora, non rappresenta altro che un inno alla “morte che muore”, ovvero alla vita che vive: “nel segno che incide la carne dei polsi / nel prisma iridato che incarna i tuoi occhi // nel battito esangue del fiato che muore / squassando un delirio che affoga parole // io sento il mio istinto assetato di gioco / io vedo il mio fiato forgiato nel fuoco // un significato pretende ben poco / ed altro da sé non ha di che dire // la tua sacra fame mi nutre nel cuore / strappandomi a morsi pietosi il dolore // mi salvi ogni giorno di grazia e calore / io ora contemplo la morte che muore”.
O almeno questo è quello che l’autrice trasmette attraverso quella che si potrebbe definire una gettata di carne (“le tue grandi labbra traboccano bocche di mille baccanti”; “seno bianco di latte fluido di calcio”; “la guazza immota di sperma colato”, [rispettivamente p. 16-25-59]), una sorta di rivelazione illimitata della carne, proprio perché differenziata da corpo a corpo, da musa a musa.
Abbiamo quindi messo a fuoco due diversi aspetti di questo sacrum facere. Naturalmente, una vita che eccede la vita è già, in sé, un atto sacrale e sacrificale, vuoi solo perché ritualizzato. In ogni rito c’è, per così dire, una componente divina (l’allusione all’acqua santa [p. 52] o la presenza ricorrente di un Cristo-Dio [p. 84, 87, 90, 93, 101, ecc.] lavorano in tal senso, per quanto l’uso sia comunque metaforizzato), o meglio una idealizzazione «con» il divino (“io / croce di Cristo fatta carbone da camino / cerco le stimmate sulle mie mani rattrappite” [p.80]).
Nell’usare l’altro per un ritorno-a-sé ci si pone come su di un piedistallo. Ma non è oro tutto quello che luccica. Difatti l’identificazione con il divino (si consideri anche l’accezione più estrema di tale pratica che consisterebbe nella divinizzazione del proprio ego) porta anche ad una perdita-di-sé. E può accadere che in questa perdita prenda consistenza la rivalsa dell’altro, cioè che avvenga un’inversione di ruoli, o che comunque prenda vita e forma un regime di «consegna» dall’uno all’altro e viceversa (“ed io / io / io, solo un giovane Tiresia non ancora accecato dal Sole / ti invoco, amica dei giorni e delle notti // tu mi possiedi, // tu mi hai completamente avvinta” [p.70]).
La pluralità che inneggiamo ad emblema di questa disamina contempla, anche e soprattutto, un regime di riconciliazione, o comunque di compresenza dei contrari. La sacralità dell’atto con cui ci si consegna alla perdita-di-sé nell’altro o all’acquisizione della perdita dell’altro in sé, rappresenta a tutti gli effetti un sacrificio o, se volete, una sorta di divinizzazione (del resto tra l’eccedenza e la trascendenza il passo è breve). Bisognerebbe forse insistere sul «divenire divino», perché tale pratica, se sublimata e quindi vissuta e consumata in un regime d’«intensità», porta alla definizione di uno status d’intoccabilità (lo vedremo meglio più avanti). Potrebbe sembrare un paradosso: una pratica basata, anche e soprattutto, sul «toccare» porta all’intoccabilità. Ma è ciò che può realmente accadere: la sublimazione rende l’artefice intoccabile, e quindi divino. Ci si pone su un piedistallo idealizzato dal quale sia possibile spiccare il salto non verso l’indivisibilità tra morte e vita ma verso la divisibilità del mondo della vita che eccede se stessa creando una dimensione altra in cui è l’Eros a dettare le norme comportamentali.
Che morte e vita rappresentino la totalità dell’essere è cosa indubbia, ma l’erotismo si consuma nella vita proprio vivendola. Ed è proprio questo, per certi versi, il vero aspetto sacrale e sacrificale, quasi religioso, dell’Eros.
Facendo il verso a Bataille, e con le dovute precauzioni, si potrebbe parlare dell’erotismo come “esperienza interiore” dall’aspetto religioso, ma che prescinde da qualsiasi religione precostituita per rivolgersi solo al sacrum facere, ovvero al rituale in cui rivelare i misteri dell’Eros.
L’aspetto sacrale, in quest’opera, si dà attraverso più dispositivi di disvelamento. Per amor di brevità ne enunciamo solo alcuni: la continuità (che è anche ripetibilità, sebbene di volta in volta differenziata), la risonanza (propria del «contatto»), la ridondanza (relativa all’apparato formale), il pervertimento.
Se il pervertimento (si tenga presente l’accezione di tale termine che Barthes conferiva a Bataille) rappresenta anche un rovesciamento o un ribaltamento, la perversione (l’allitterazione ci rinvia automaticamente ad una famiglia etimologica comune), che in esso è inscritta (vi invito a considerare anche accezioni quali per il verso, per il verso giusto, per una [diversa] versione) può permetterci di addentrarci nei meandri di una messa-in-scena o, se preferite, di una certa ob-scenità di fondo.
Secondo la lezione di Carmelo Bene l’osceno è il fuori scena, ciò che si conduce verso la totale estromissione dall’azione. Ma l’ob-scenità di Caporossi non sembra ricercare una vera e propria estromissione, anzi sembra così presente a se stessa che il condursi verso la scena-di-sé potrebbe portarci a ri-definire il concetto di Eros.
“Ob” nella lingua latina è una preposizione e significa “tendere a”, condursi verso”, “porsi di fronte”, in buona sostanza ricercare un «con» o definirsi in un «con». Se mi concedete una forzatura, nella lingua tedesca “ob” è una congiunzione. Significa “se”. Il “se” fa scendere in campo un’ipotesi (che comunque presuppone un antefatto, un qualcosa che viene prima e che potrebbe condizionare l’a venire) ma è la sua natura di congiunzione a rientrare, di diritto, nel nostro specifico.
Questo è uno dei conflitti irrisolvibili che più avanti ci condurranno verso l’intoccabile: da un lato un’eccessiva e ostentata presenza-a-sé (“… e l’impegno di portarmi sempre / questo calvario addosso / questa fellatio esausta delle mie pagine bianche / alla punta fallocentrica polipale / -venature d’inchiostro a filo d’aria- / del mio cosmico, sfottuto, bastardissimo E / G / O” [p.23]) e dall’altro lato la predisposizione ad una congiunzione con un altro (“leccami le ferite / prima che me le bagni il cielo / e poi, / crudemente riposa / il flusso sanguigno / perché io poi ne beva ancora e ancora” [p.26]).
A questo punto, e in tal senso, la scena dell’Eros caporossiano potrebbe anche istradarsi verso la condivisione di un fuori scena come eccedenza della presenza-a-sé «filtrata» da un altro, dalla congiunzione con un altro.
Ma, al di là di eventuali presupposizioni con-giuntive con il «filtro», con l’altro, comunque ciò che resta è la scena. La scena è ciò che viene prima del porsi fuori scena, è l’ipotesi che potrebbe condizionare il risultato finale. Una scena condivisa, ma vissuta nella divisione – e mi si scusi l’iperbole – con il «con». Per puntualizzare un’accezione di questo concetto a pag. 87 possiamo leggere “io temo // la mia conoscenza a te, a voi // la mia conoscenza a me stessa/o / fugge come la lepre sull’orlo del baratro / fugge come presenze benigne nel calderone delle streghe // lègami ti prego ad una immagine di me // fammi restare immobile in un giudizio, in un pensiero”.
Come a dire che non si può sottovalutare l’ipotesi che la congiunzione e la condivisione usino il «filtro» dell’altro per un ritorno – di volta in volta differenziato – alla presenza-di-sé. E questo non è un paradosso, ma ciò che essenzialmente cade e si fissa su queste pagine, anche attraverso il «tramite» di una messa-in-forma, decisamente eccedente, che esalta e consolida la congiunzione di una divisione ri-definita nella pluralità degli espedienti grafici, nel «divenire molteplice» dell’ego scrivente e nell’avvicendamento delle muse.
Ora, depositiamo il ritorno-a-sé nelle pieghe del sottotesto e proviamo ad allargare il raggio d’azione.
Entrambe le categorie, toccarsi e toccare, si offrono come trampolini di lancio verso innumerevoli estensioni. Limitiamoci a considerarle come «tramite» e «filtro» verso l’intoccabile. Non pensate al solito paradosso linguistico da cui attingere linfa vitale o all’aporia del gesto che si ritrae proprio mentre si dà. Non si tratta di questo, non solo di questo almeno (perché comunque in un regime di pluralità anche aspetti cosiddetti secondari conducono alla definizione di un concetto). Colui che dà, che tocca, il toccante, è a sua volta toccato (anche indirettamente se volete) da colui che riceve il tocco. È la natura stessa del contatto tra due corpi ad esprimere e consolidare questo assioma. Così facendo, il gesto originario del toccante perde il suo valore di assolutezza proprio perché è toccato mentre tocca. Ed è in questo preciso momento che si verifica l’intoccabilità. Nel momento in cui si verifica il contatto il nostro toccare si accresce di un significante aggiuntivo e relativo (si legga anche relazionabile) che vanifica il primo significante, quello assoluto. In tal senso, il toccante non tocca il toccato e il toccato non riceve il tocco del toccante. Eppure entrambi si toccano nel contatto. Il contatto sarebbe quindi l’intoccabilità che si verifica solo rinunciando ad una estensione univoca e assoluta da un uno a un altro, solo traslando verso un’estensione biunivoca e relativa tra l’uno e l’altro.
Cosa significa tutto ciò?
Che l’Eros ha bisogno, sia nella sua incarnazione che nella sua escarnazione, di un regime di «complicità», di una sorta di comunione d’intenti, di una forte predisposizione a toccare l’intoccabile, o meglio ad appropriarsi dell’intoccabile dell’altro.
Se ciò avviene si dà Eros.
Così abbiamo già visto, questo aspetto – mettendo a morte il valore assoluto – rappresenta a tutti gli effetti un sacrificio. Osando e forzando, si potrebbe dire che l’intoccabile rappresenti la sacralizzazione dell’Eros attraverso la sublimazione di un contatto sovradeterminato.
Ma oltre al reciproco toccarsi bisognerebbe considerare anche il reciproco sentirsi. Ed è qui che la musa del corpo, della carne, delle viscere lascia il posto alla musa dell’anima, del pensiero. La corporeità cede il passo alla cerebralità.
Per chiudere questa triade ci tocca anche accennare al reciproco vedersi e considerare l’occhio come quell’organo che può toccare, idealmente, il profondo.
Toccarsi, sentirsi, vedersi sono le tre componenti essenziali, direi fenomenologiche e genetiche, dell’Eros. Componenti intersoggettive e plurali, linee intercomunicanti, piani sovrapposti e interagenti. Potrebbero addirittura essere considerate come un unico insieme. Una sequenza come questa “Eros le guarda avvolte di peccato / concludere le braccia e stringersi le mani / sentendo dentro a sé nell’atto di fuggire / il divino urlo di gioia che invoca il suo nome (p.28; i corsivi sono miei)” è esemplare, in quanto la «reciprocità» viene formalizzata proprio nella nostra triade: vedersi, toccarsi, sentirsi; senza tener conto del fatto che l’”atto di fuggire” possa rientrare nel concetto dell’intoccabilità.
Ma, naturalmente, in ogni insieme che si rispetti non bisogna sottovalutare i sotto-insiemi che esso comprende. Al di là della componente del ritorno-a-sé che abbiamo messo a riposo nelle pieghe, ma che rimane comunque sempre attiva sottotraccia, i sotto-insiemi mettono al lavoro l’intoccabilità, l’inascoltabilità e l’inguardabilità, ovvero le fenomenologie che alimentano l’insieme primario rendendolo suscettibile di deviazioni dalla strada maestra e facendo in modo che esso non possa mai definirsi in una assolutezza.
In una diversa terminologia queste fenomenologie, questi sotto-insiemi potrebbero essere definiti distanze. Si tratterebbe quindi di attingere qualcosa dall’altro nella distanza che intercorre tra un corpo e l’altro (“L’unica cosa che voglio / ora / è esitare sulla danza delle tue labbra” [p.41; il corsivo è mio]). Che sia la possibilità di toccarsi o l’intoccabilità, che sia la dedizione verso l’altro o il ritorno-a-sé poco importa. Ciò che conta è per l’appunto la distanza.
Ecco: la distanza è toccabile.
La carne (che non è il corpo, non solo almeno, e questo è proprio l’autrice ad affermarlo) pratica questa distanza, si pratica in questa distanza che è il luogo della «chiamata» all’altro.
Giunti a questo punto, ci toccherebbe aggiungere una quarta categoria ai nostri «imperativi relativi»: il reciproco chiamarsi lungo una linea elettrica, fibrillante che precede il contatto. Qualora fosse necessario puntualizzare con un’altra occorrenza, l’esitazione che sottintende il desiderio e che formalizza la distanza viene ribadita poco più avanti (p.63): “segretamente godere / esitare sulla porta e guardarti ridere”. Ed è attraverso questa linea che vengono trasmessi i dati sensibili dell’Eros. Si può toccare l’Eros prima di incontrarsi con l’intoccabilità dell’altro. Questa linea può essere, al contempo, sia fisica che cerebrale, sia carnale che elettiva. Non ci sono limiti alle possibili combinazioni dei due aspetti (al di là della presenza, come già evidenziato, dei sotto-insiemi) e anzi è proprio nel proiettarsi verso il limite e nel situarsi al limite che si dà Eros.
Non dimentichiamo la correlazione eros-morte enunciata da Bataille che può essere non condivisibile ma che comunque, in sede teorica, è determinante in quanto punto di non ritorno (per quanto Bataille considerasse la morte come “segno di vita” e come “apertura sull’illimitato”). Ma eros=morte significa, sempre e comunque, la morte dell’Eros. Questo concetto individua così il limite dell’Eros. Ma il limite al singolare, in quanto unicità e assolutezza, non rientra nelle nostre linee di pensiero. Bisogna lavorare sui limiti al plurale e considerare i diversi aspetti della reciprocità come l’entrata in campo di una sorta di «concorso di colpa» (beninteso: provate a conferire un’accezione positiva a questa enunciazione, magari trasformandola in «concorso di merito») ove possa avvenire una riconciliazione tra i contrari, tra il tramite e il filtro, tra il toccarsi e l’intoccabilità e soprattutto tra il ritorno-a-sé del toccante e quello del toccato.
Questo concorso di colpa viaggia ancora una volta all’interno di una distanza, quella intercorrente tra l’incarnazione e l’escarnazione che in apertura abbiamo provato a definire, ma che andrebbe di volta in volta ri-definita, vuoi solo per il continuo avvicendarsi delle muse e per il peso che le «distinzioni» formali conferiscono all’opera.
Difatti c’è una organizzazione della forma che risponde a canoni precisi. Questa organizzazione diventa espressiva di un senso a priori, o meglio di una scelta di campo orientata verso quella che si potrebbe definire «distinzione». I vari elementi formali si distinguono gli uni dagli altri nelle varianti tipografiche attraverso le quali si estendono, ma anche nella ri-definizione contestuale delle cosiddette “medaglie verbali”.
Tra un’estensione orizzontale della scrittura e dei segni che la trasfigurano e l’erezione verticale di un significante, talvolta esibito nella sua nudità e crudità, talaltra solo accennato o celato nel sottotesto o nelle pieghe (si potrebbe dire anche nelle fibre nervose della struttura testuale, così giusto per rinsaldare una certa corporeità da cui risulta comunque difficile distaccarsi), in questa doppia linearità, dicevo, si situa e si sistematizza un regime d’enunciazioni sorprendentemente omogenee.
Per quanto eccedenti nella forma che si slancia e si distende, esse sono finalizzate ad una funzionalità quasi rassicurante, ad una progressione che incide sì, ma senza ferire. Non ci sono evidenti lacerazioni o crepe insanabili. Anzi, sembra quasi che l’autrice operi per suture e accorpamenti più che per tagli e disgiunzioni.
All’organizzazione della forma si aggiunge quindi un’organizzazione del testo attraverso ordini semantici e stratificazioni concettuali, anche facendo ricorso a semplici enunciazioni informative (quelle più evidenti risiedono nei titoli attribuiti alle diverse sezioni che compongono l’opera, ma ci si potrebbe sfinire nell’elencare tutti gli indicatori intertestuali che operano in tal senso), il tutto sistematizzato in quella che è la tematica centrale, in quell’Eros che però è sempre (dis)impegnato a spostare il suo centro.
In poche parole la centralità dell’opera risiede in un «centro in fuga».
Al di là degli evidenti registri d’immanenza, se in quest’opera vengono messi al lavoro anche registri di trascendenza, ebbene: essi sono da ricercarsi proprio in questo «centro in fuga», ovvero: nella ricerca – continua e vitale – di un centro da conquistare e in cui situarsi per mescolare le proprie linee di soggettività con quelle dell’altro, anche a rischio di creare delle linee di frattura tra il toccante e il toccato, anche a rischio di generare unità traumatiche nell’enunciazione linguistica di tali fratture. Beninteso, le unità traumatiche non devono essere considerate come un aspetto negativo, in quanto frutto di una scelta ben precisa.
Credo che si possano rilevare almeno due categorie di unità traumatiche. La prima è relativa all’uso di termini inusuali in poesia, quali ad esempio: autoconcupirsi, polipale, ambiforme, biancobracciute, terramaricolo, compossibile, rimbrotto, sinoptiche, criptomelodia, e via dicendo. Checché se ne dica questi sono, a tutti gli effetti, termini cacofonici e anti-lirici. La seconda categoria invece è riferibile allo spostamento dell’Eros verso un’accezione porno-grafica, e ciò è dovuto proprio alla strutturazione grafica e formale.
Se il porno è l’eccedenza dell’Eros in quanto atto esteso, esibito e ripetuto, la grafia attraverso la quale questo Eros si mette al lavoro eccedendo la sua natura, estendendosi verso un fuori, esibendosi come scena-di-sé e ripetendosi, è a tutti gli effetti «porno-grafia».
Si dilata e si contrae. Si fonde, si auto-cancella, si gonfia e si sgonfia. È insieme estesa e invaginata, si protende verso l’alto e poi sprofonda, talvolta sembra quasi imitare i movimenti del coito.
È porno-grafica in quanto esposta alla visione-di-sé.
È visibilmente impegnata ad articolarsi e disarticolarsi, come se fosse alla ricerca della giusta posizione in cui fissare la propria estroiezione. Posizione sulla pagina e posizione corporea. Ma, lo sappiamo, ogni posizione è, in sé e fuori di sé, una deposizione, in quanto trasferimento da un corpo all’altro, in quanto passaggio dalla pratica erotica intima alla visione pubblica della pratica intima.
Checché se ne dica, un atto erotico esibito in pubblico (esposto e deposto in pubblico) è comunque pornografico, una poesia erotica esibita in pubblico (anche solo e semplicemente fissata sulla pagina) è allo stesso modo pornografica.
Se la posizione è un «filtro», la deposizione è il «tramite», attraverso il quale il gesto si estromette da sé per divenire altro-da-sé, per esibirsi nell’eccedenza. In tale ottica l’Eros si trasferisce nel porno attraverso una grafia visibilmente eccedente. Sebbene semplificando e riducendo, cercherò di puntualizzare. La messa in grafia, la porno-grafia di quest’opera ri-organizza il dettato poetico in una sovrastruttura che trascende la struttura originaria. La prima struttura è quella che tende e si conduce all’eros. La seconda struttura trascende l’eros divenendo porno-grafica. Compie l’atto, esibisce l’atto e si esibisce nell’atto. Caporossi crea quindi un piano di correlazione tra i corpi umani e i corpi della scrittura mettendo in campo diverse linee di forza e tentando di operare in quella che abbiamo definito riconciliazione dei contrari.
Come avviene ciò?
Attraverso la creazione di quadri viventi.
Quest’opera, da un certo punto di vista, è costituita proprio da una successione di quadri in esposizione. Si tratta di una vera e propria mostra, classicamente intesa, con tanto di vernissage (“baciando l’epidermide dei miei pensieri sacri / dispersi in nubi amorfe / nel deserto del tuo grembo / restiamo qui, penombre nebulari / impiccate un tempo al giogo del dolore / che ora lecca le ferite dell’interiorità / cercando avidamente, nei sogni silenziosi, / le muta ambiguità di grida sconosciute” [p.11]) e finissage (“sei il giglio che colsi nel fiume che scorre incessante nel greto / sei il senso del mio lancinante non-senso in etereo vagare / sei il sogno che venne una notte e all’alba non volle svanire / sei l’estasi enfatica e santa di un brivido che ancora mi scuote” [p.143]). Senza dimenticare l’evento performativo che si posiziona e si depone nel mezzo, che scandisce le ripetizioni e le differenze spazio-temporali e psico-fisiche del farsi scena come avvento-di-sé.
Questo aspetto del ritorno-a-sé trova anche altre connotazioni specifiche, magari un po’ forzate, ma di cui bisognerebbe comunque tener conto nella possibile impossibilità di incorniciare la raffigurazione dell’Eros, ovvero di conferirgli dei margini all’interno dei quali contenerlo e definirlo. La forma più alta, o più estrema, del ritorno-a-sé consisterebbe nel praticare l’Eros con se stessi. Fare sesso con se stessi, ovvero: masturbarsi.
Al di là del fatto che una delle poesie dell’opera reca come titolo proprio “Masturbazione” (p.19), è questa una fenomenologia in cui il toccante e il toccato, escludendo l’altro, coincidono nello stesso corpo o, se volete, nel pensiero e nell’idea di un corpo che basta a se stesso (non a caso la masturbazione viene definita dall’autrice con il termine “autoconcupirsi”).
Sulla falsariga di questa presunta autosufficienza si potrebbe aggiungere un’altra connotazione, quella dell’androginia (si vedano i chiari riferimenti alle pp. 24 e 90). Secondo i principi dell’orfismo, Eros nasce doppio (Eros-Phanès), metà uomo, metà donna. In sede teorica, in quanto due riunito in uno, non avrebbe bisogno di un altro per realizzare la propria scena erotica e per consumarsi nella propria scena erotica.
Ci sono però altri due aspetti sacrificali di cui bisognerebbe tener conto, e che vertono sulla «mancanza», una mancanza che è propria di entrambe le connotazioni. La mancanza non è tanto quella dell’altro ma il rovesciamento (ricordate il pervertimento di cui si accennava in apertura?) dell’unico vero elemento che permette all’Eros di esistere, ovvero: il «centro in fuga».
Nell’essere un corpo che si basta-da-sé, il centro rinuncia alla fuga e rientra in sé. Continua comunque a moltiplicarsi ma lo fa attraverso un’introiezione e non attraverso un’estroiezione. In tal senso sia la masturbazione che l’androginia corrispondono ad una «invaginazione» della scena erotica.
Ma è anche vero che – estendendo il concetto, e solo per puntualizzare la compresenza o l’accostamento dei contrari – l’uno del ritorno-a-sé funge da trampolino di lancio per la connotazione dell’ennesima pluralità. Se l’idealizzazione dell’androginia trasla sui piani della congiunzione con l’altro, la pratica del trasferimento della sfera erotica non avviene più da donna a donna, ma da una androginia ad una donna (almeno per il momento). Non a caso, se l’autrice afferma: “leccami baciami ama l’uomo che c’è in me” (p.26), vuol dire che non ci sono più solo due corpi a calcare la scena dell’Eros, perché almeno uno dei due corpi è due riunito in uno. Ancora una volta, quindi, siamo alla presenza di un regime al plurale.
Secondo le lezione spinoziane, l’incontro (ocursus) tra due aspetti, due corpi, due cose, due entità produce comunque una terza identità risultante dalla fusione delle prime due. Sempre in sede teorica, l’incontro tra un uno e un altro potrebbe produrre l’Eros e questo, come abbiamo già visto, può avvenire anche attraverso l’appropriazione dell’intoccabilità dell’altro o attraverso la pratica in cui ci si consegna all’altro.
Cioè i due corpi distribuiscono il proprio peso erotico per generare e mantenere una sorta di equilibrio. In tal senso l’Eros potrebbe essere identificato anche come un equilibrio condiviso tra le parti. Ma nel caso di un’androginia comune ad entrambe le parti in causa (che sia idealizzata e/o latente poco importa) come potremo orientarci?
I due corpi anatomici, in questa eventualità, sarebbero formati da quattro essenze, e risulterebbe comunque difficile determinarne peso ed equilibrio. Quando l’autrice, invitando l’altro ad amare l’uomo che è in lei, quando cioè si pone e si offre attraverso la sua componente maschile, non è sicura che l’altro (che è comunque una donna) accetti l’invito con la sua componente femminile. Potrebbe invece darsi anch’essa nella sua componente maschile. Allora l’ocursus non sarebbe più consumato da «donna a donna» ma da «uomo a uomo».
Sempre ricorrendo a Spinoza, in tal caso l’affettività diverrebbe affezione, e la presenza si nutrirebbe dell’essenza, o meglio di una delle essenze dell’altro. E mi sembra piuttosto evidente che il significato (o uno dei significati) della parola “ambiforme”, che l’autrice declina più volte nell’opera, viaggi proprio a cavallo di questa linea di ambiguità e molteplicità.
Ne converrete, la nostra situazione al plurale diventa sempre più complessa e intricata, vuoi solo perché gli atti, performativi e informativi, si moltiplicano a vista d’occhio, accrescendo le accezioni del loro porsi in scena.
La sfida di ogni performance (esposizione, esibizione) è quella di mettere in movimento i dati. In tale ottica, al di là dei gusti soggettivi, l’opera si direbbe riuscita, soprattutto nella veicolazione di un significato globale. Ma la catena dei significanti (quelli sotto-traccia e quelli sovrastrutturati), quelli che precedono i significati, resta comunque volutamente «aperta».
La porno-grafia della sua messa in scena aiuta non poco a confondere e sovradeterminare quello che Derrida avrebbe definito “il tessuto della traccia”.
È questo è un bene. Conferisce all’opera un valore aggiunto e le consente di non esaurirsi dopo la lettura.
Attraverso l’uso del segno, attraverso l’abuso di una traccia, di un’impronta, di un marchio, le poesie – un tempo lineari – vengono ri-configurate e quindi ri-materializzate. È inutile negarlo, siamo alla presenza di un corpo ri-modellato. Il corpo nuovo viene qui presentato, ostentato, installato, messo in piazza, gettato in un «aperto» a cui è possibile accedere con relativa semplicità.
Ecco, la soluzione formale consente un accesso agevolato alla sfera erotica, al contesto saffico, all’idealizzazione di una continuità comportamentale, all’apologia di una contiguità tra il tramite e il filtro, tra le muse come corpi da toccare e le muse come anime con cui condividere non il gesto fine a se stesso ma l’idea stessa dell’eros come eccedenza dei singoli atti (“leccami la sostanza, la forma tu già la possiedi” [p.14]).
Per questo bisogna sovradeterminare la scena, ovvero: porsi fuori scena, ovvero ancora: creare una linea di intercomunicazione tra il fare-scena-di-sé e l’idealizzazione di un modus vivendi in cui l’eros corporeo e cerebrale non può fare a meno della porno-grafia della scrittura che si concede il lusso di traslarlo verso un fuori-di-sé.
E se anche ciò avvenisse vanificando l’ordine oggettivo che dovrebbe ricevere il messaggio e ritornando all’ordine soggettivo che invia il messaggio, sarebbe comunque irrilevante, perché ciò che qui conta è quel fantomatico, plurisignificante «centro in fuga» che non può esimersi di riaprire le danze ad ogni virata di rotta.
In tale ottica non sarebbe una forzatura declinare l’espressione io+tu=io.
La confusione dell’io e del tu, del soggetto agente/scrivente e dell’oggetto che funge da filtro e tramite è prevalentemente indirizzata verso una realizzazione egotica, e quindi dispotica. L’io ordina e dispone, sceglie sempre la carta più alta per illudersi di poter vincere la partita.
Ma la vera partita che qui si gioca non è quella tra l’io e il tu, bensì quella tra l’io e l’eros. Una partita dove l’io è comunque destinato a soccombere. Il toccante non potrà mai essere “discreto” in senso adorniano, anzi sarà costretto a divenire, in un certo senso, isterico. Ed è proprio per questo che il tessuto delle tracce formali (la porno-grafia enunciativa) è riconducibile a quella che Deleuze e Guattari chiamavano “isteria dei segni”: “[…] il segno salta da un cerchio all’altro spostando continuamente il centro e al tempo stesso non cessa di riferirsi ad esso (la metafora o isteria dei segni) […]” (Gilles Deleuze, Felix Guattari, Mille piani, vol.1, p.169, Treccani, Roma, 1987).
Riferendoci a quanto già detto, il centro a cui le enunciazioni ritornano è prevalentemente (ma non esclusivamente) il toccante e non il toccato. Le muse si avvicendano, si sostituiscono. Solo l’eros sopravvive al massacro e perpetua l’estasi sacrificale attraverso linee di fuga, il cui compito non è propriamente quello di correre a perdifiato verso un nuovo punto d’arrivo, ma quello di una ri-proposizione differenziata dell’identico. E l’identico qui non è l’io che basta a se stesso ma l’io deterritorializzato nell’eros. Un eros che, per definizione, non può bastarsi né bastare.
E in tutto ciò dov’è finito il toccato?
Qual è la sua funzione specifica?
È possibile che tutte le reciprocità del toccarsi, sentirsi, vedersi siano solo delle favole?
Come districarsi in tutta questa carne al fuoco?
Non ci sono soluzioni assolute da prendere come assioma. Non ci sono soluzioni relative alla portata di tutti. Del resto ciò che conta non è il praticante ma ciò che si pratica.
L’unico che continua a lavorare è lui: l’Eros.
© Enzo Campi (Reggio Emilia – Novembre 2016)
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Grande Sonia, grande lettura.