A Tula. Dialogo con un fantasma
[È da poco uscito di Massimo Rizzante Il geografo e il viaggiatore. Lettere, dialoghi, saggi e una nota azzurra sull’opera di Italo Calvino e di Gianni Celati per Effigie. Ne pubblichiamo un capitolo, dedicato al dialogo con un morto illustre.]
di Massimo Rizzante
Città del Messico, febbraio 2015
Di stanza a Città del Messico. Abito nella Casa Refugio Chitlatépetl, tra Condesa e Hipódromo, quartieri sicuri e ricchi della capitale: basta uscire in strada e osservare il passo tranquillo dei cani di alto bordo e dei loro padroni.
Dopo qualche giorno decido di andare a Tula, l’antica capitale dei Toltechi, un popolo prudente e saggio, il cui regno durò cinque secoli e che fu sempre fedele a Quetzalcóatl, il celebre dio raffigurato come un serpente piumato.
Dopo un’ora e mezza di corriera mi trovo di fronte a una zona archeologica dominata da una grande piramide sopra la quale quattro enormi guerrieri in basalto, gli Atlanti, guardano l’orizzonte. Perché sono salito fin quassù? Per vedere gli Atlanti?
Non proprio. Sono qui per parlare con il fantasma di Italo Calvino.
È morto trent’anni fa. Ho come la sensazione che sia stato prima post-modernizzato, accusato cioè con frivolezza di tutte le derive di quella stagione che ormai nessuno ricorda più, poi canonizzato, quindi messo nel dimenticatoio dove stanno tutti i morti. Sono qui perché anche lui molto tempo fa è stato da queste parti. Ho come la sensazione che in mezzo a queste rovine il suo sguardo sia ancora utile a descrivere il mio mondo.
Quando è morto stava componendo le Lezioni americane, dove descrive i valori letterari che avrebbe voluto conservare: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità. Oggi, agli inizi del millennio che Calvino non ha fatto in tempo a vedere, le sue con- ferenze sono tanto lette quanto inascoltate.
Mi ritorna alla mente ancora una volta la fine del libro:
Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse di uscire dalla prospettiva limitata di un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…
«Che cosa volevi dire Italo?». «Che la letteratura non avrebbe alcun senso se non fosse rosa dal desiderio irrealizzabile di uscire da se stessa. La vera aspirazione della letteratura è racchiusa nella domanda: Comment se taire? Come tacere? Come tacere, scrivendo. Ecco perché tutti i commenti alle grandi opere sono superflui».
«Hai ragione. Se non fosse così la letteratura si ridurrebbe a essere un gioco che si inventa le sue regole e basta. Eppure sei stato spesso accusato proprio di questo: di giocare un po’ troppo con le forme, di importi ogni volta qualche griglia per sfuggire a te stesso».
«Non lo so. Può darsi. Sono sempre stato qualcuno a cui veniva facile mettersi in un angolo a scrivere una storia. Da solo o in mezzo a una compagnia di amici. Per me non cambiava. L’ho sempre sentita come un pericolo, la facilità. Vedi, la facilità ti porta al godimento, mentre la sfida difficile ti consegna al piacere. E l’arte non ha nulla a che vedere con il godimento, credo. Inoltre, ho sempre avvertito in modo quasi fisico l’invecchiamento delle forme. Da un certo punto di vista, intendiamoci, le forme letterarie sono sempre le stesse da secoli. Tuttavia, è sufficiente una singola breve vita per sperimentarne tutta la deperibilità. In fondo, è il grande disgusto per la forma il motore dell’arte. Almeno così è stato per me. Oggi forse è diverso. Oggi vivete in un mondo in cui nessuno vuole più invecchiare. Di conseguenza, la lunga vita delle forme e il relativo grande disgusto per esse hanno perso di interesse. Infine, qualcosa per me è cambiato durante il mio viaggio in Messico».
«Per questo forse mi stai parlando, o meglio, il tuo fantasma mi sta parlando, proprio qui fra questi basalti».
«Chi lo sa. Di sicuro ci torno spesso. Adesso che sono più leggero di una farfalla e più rapido di una freccia ogni spostamento mi provoca perfino un brivido di eccitazione. Ti ricordi Palomar? In un capitolo del libro, Serpenti e teschi, il protagonista è in Messico. Visita le rovine dell’antica Tula. È proprio qui dove sei tu e dove sono io. Con lui c’è un amico, che conosce a menadito le civiltà precolombiane. Palomar lo ascolta come un alunno diligente ascolta il suo professore, come sempre, con un’umiltà che sa di non possedere e che per questa ragione ha bisogno di accentuare attraverso lunghi silenzi. È attirato dalla bellezza delle opere del passato».
«Ma che cos’è la bellezza per Palomar?», chiedo.
«Scoprire che quelle opere sono nessi che rimandano ad altre opere, ad altri nessi. E se nulla ci unisce come un’emozione estetica, questa emozione è determinata dalla nostra capacità di vedere quei nessi, quelle opere, come parti di un tutto».
«Allora, Italo, chi non vede quei nessi è destinato a non vedere la bellezza, almeno quella che viene dalle opere d’arte?».
«Beh, sì. Oggi più di ieri – e ne hai una testimonianza anche qui, in mezzo a questa folla di visitatori in bermuda – si tende a confondere l’emozione estetica con la commozione: come ti spieghi se no che centinaia di migliaia di persone che probabilmente inorridi- rebbero davanti a un’opera d’arte contemporanea, poi restino a bocca aperta davanti a questi Atlanti eretti mille anni fa?».
«Eh, forse hai ragione…».
«Torniamo a Palomar. Mentre segue come un bravo bambino le spiegazioni dell’amico che sa tutto, è improvvisamente incuriosito da un maestro elementare in gita con la sua scolaresca. Il maestro, a differenza dell’amico di Palomar, non dà nessuna spiegazione dei monumenti. E, a differenza di Palomar stesso, non vede nessun nesso. Termina invece ogni volta il suo discorso con un laconico: “Non si sa quello che vuol dire”».
«Me lo ricordo» – intervengo un po’ bruscamente. «A questo punto Palomar non sa bene cosa fare. Si rende conto che il laconico e ripetuto congedo del maestro elementare possiede una certa saggezza. Si sente perduto. Forse gli piacerebbe far parte di quella scolaresca. Forse vorrebbe ricominciare tutto daccapo. Forse comprende che i silenzi del maestro elementare non sono della stessa natura dei suoi, che esiste un’umiltà di fronte alle cose, alle opere, alla bellezza, in grado di trasformarsi in genio. E pensa che il rifiuto di comprendere il presunto significato delle pietre di Tula comporta semplicemente rispettare il loro segreto, mentre tentare come fa lui di indovinarlo è un “tradimento di quel vero significato perduto”».
«Vedi, oggi che sono più leggero di una farfalla e più rapido di una freccia, cancellerei quell’aggettivo, “perduto”. Lascerei senz’altro il sostantivo, “tradimento”. Tradire: c’è un verbo più umano? Tradire significa in origine “consegnare”, cioè portare a consegna qualcosa che è stato. Tutto ciò che appartiene al passato ha bisogno del nostro tradimento per essere salvato. Da qui la parola “tradizione”, come sai. Certo il cristianesimo ci ha trasmesso un significato diverso: da Giuda in poi, tradire è un verbo infame. Eppure questa infamia la commettiamo ogni giorno, perché ogni giorno veniamo meno ai nostri ideali, ai nostri doveri, alle nostre promesse, ai nostri amici, ai nostri amori. Io stesso, nel corso della mia vita, ho tradito diverse cause politiche, il partito, la marcia della Storia… In realtà, vivere non è altro che un lungo tradimento. In primo luogo, ciò che ci è stato consegnato non lo conosciamo mai del tutto e mai nella versione originaria, e poi, una volta scomparsi, non sapremo mai fino in fondo che cosa consegneremo e a chi. In secondo luogo, non c’è nulla di più eccitante e liberatorio che venire meno alla propria immagine, quell’immagine che gli altri ti hanno consegnato una volta per tutte e a cui devi rimanere fedele, pena l’infamia. Vedi allora come per me, che ho preferito creare immagini sempre diverse dei destini umani per non cadere nelle trappole della psicologia, tradire è diventato sinonimo di avventura e di libertà. Non so se tutto questo mi era così chiaro all’epoca in cui, nel libro, Palomar riflette sul tradimento del significato perduto delle cose».
«E adesso che ne pensi?».
«Palomar è afflitto da quello che chiamerei il complesso di Teseo. Ti ricordi il mito del Labirinto, Arianna, il suo celebre filo con cui il futuro re di Atene, dopo aver ucciso il mostro con una spada avvelenata, ritrova la strada salvando così i sette fanciulli e le sette fanciulle ateniesi che ogni nove anni il re di Creta, Minosse, ha deciso di sacrificare? Per Palomar ci deve essere sempre una via di uscita, ci deve essere sempre un’Arianna, ci deve essere sempre un filo che ci salvi dal sentirsi perduti. E qui ritorniamo alla nozione di bellezza. Per Palomar la bellezza, dicevamo, è scoprire nessi, è seguire passo dopo passo il filo che lega un’opera a un’altra e che, nella ricerca, ci lega tutti e ci fa restare in vita. Dov’è la bellezza di Arianna per Teseo se non nel suo magico gomitolo? Questo è talmente vero che, ucciso il Minotauro, Teseo porta nella sua nave Arianna, ma poi, prima di giungere ad Atene, la scarica sull’isola di Nasso, dove la povera innamorata piangerà così tanto da far illanguidire un tipo come Dioniso, che le donerà una corona d’oro».
«Sì, sì ho capito. Tuttavia, il maestro elementare del tuo racconto non è certo un mostro divoratore di vergini…»
«Per nulla. Per il maestro elementare non esiste nessun Labirinto, nessuna Arianna, nessun filo. Le pietre di Tula, per lui, non devono essere salvate grazie alla nostra mente dall’oblio della Storia, ma semplicemente lasciate vivere nella memoria della nostra percezione. Perciò richiedono da parte di chi guarda uno stato di perdita che è allo stesso tempo uno stato di sbigottimento, di sorpresa e di mistero, che non ha nulla a che fare con lo smarrimento di Palomar-Teseo. Smarrirsi, o smarrire la strada, presuppone una perdita temporanea dell’orientamento o della lucidità. Presuppone, se vuoi, un metodo, una bussola. Lo stato di perdita del maestro elementare è invece uno “stato di affezione”, direbbe il mio amico Celati, originario, naturale. Mentre Palomar sa già quel che vede, il maestro elementare si meraviglia e tace perché non lo sa. Per lui le cose possono emanare uno stato di quiete, ma che cosa possono consegnarci, dirci, che cosa possono tradire? Palomar, malgrado si sforzi, non riesce al contrario a trattenersi dal compiere l’eterna teseide, non smette cioè di seguire il suo filo di Arianna, di interpretare ogni cosa come un nesso, con tutto il fardello di nevrosi e scacchi che ne deriva. Ecco cos’è stato Tula per me: la possibilità di sospendere la danza ermeneutica attorno alle cose, di cominciare un’altra danza. Non una vera e propria danza dionisiaca. Quanto piuttosto un saltellare primitivo al ritmo di un tamburo. Lascia perdere che poi non ne ho avuto il tempo, che il mio destino, come per Palomar, sia stato quello di interpretare fino al mio ultimo giorno, tanto che il mio tentativo di descrivere i valori letterari da trasmettere al millennio che tu stai vivendo si può ben definire, come per Palomar, una lunga esercitazione alla morte. Tuttavia, credo che qualcosa, alla fine delle mie Lezioni ameri- cane, sia rimasto della laconica lezione del maestro elementare di Tula. Per questo adesso che sono più leggero di una farfalla e più rapido di una freccia, mi piace ritornare qui fra queste rovine pieno di meraviglia e un po’ meno incredulo di fronte alle loro apparenze. Per questo oggi, come vedi, non ho nessun imbarazzo a scendere le scale di questa grande piramide percuotendo un antico tamburo sciamanico accompagnato da una scolaresca di piccoli tolte- chi saltellanti e dalla testa impiumata che in coro ne imitano il suono. Ascolta: Totocoto tototo cototo tiquititi titiqui tiquito…».
Che meraviglia! Massimo è rimasto un grande indiano.
io invece mi meraviglio della meraviglia.
La chiarezza e la profondità di pensiero e scrittura di Massimo Rizzante si riconfermano sempre e sono oggi rarissimi. Meravigliosa perseveranza del suo procedere senza distrazioni inutili, il suo viaggio nella letteratura e nella vita non si fa depistare dalle mode effimere. Coraggioso, oltre che raro. Affrontare la solitudine e la morte come elementi sostanziali del fare arte senza imposture.