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Il tempo tormentato nelle celle siriane, “Il luogo stretto” di Faraj Bayrakdar

di Giuseppe Acconcia

“Il luogo stretto”, l’ultima raccolta di poesie del siriano Faraj Bayrakdar (Nottetempo, 2016, 98 pag., 10 euro), traduzione di Elena Chiti, si inserisce nel magnifico e vario filone della poesia in carcere e sul carcere fiorita negli ultimi decenni nel Paese. Faraj ha trascorso sei anni in completo isolamento e 14 anni in carcere, attivista del partito comunista anti-governativo, il poeta è stato costretto ad imparare a memoria i suoi versi perché non aveva né fogli né penne. “Ho esercitato la memoria” per scriverci direttamente, ammette il poeta nella prefazione al testo. Di sicuro questa confessione conferisce ai versi una forza ancora più struggente di quanto non abbiano le parole. La poesia diventa un esercizio del detenuto per conoscere e “proteggere” la propria anima. In altre parole serve per conquistare la salvezza e dare senso o valore alla vita. Proprio quel senso di cui il carcere priva la vita dell’uomo. È nelle mani di sua figlia che l’autore ha consegnato i suoi testi non appena ne ha avuto la possibilità durante le visite concesse ai suoi familiari. Ma Faraj non è mai stato davvero solo in carcere, anche i suoi due fratelli erano nelle celle del regime degli al-Assad, per affiliazioni politiche diverse dalla sua. Tragico è stato l’incontro con uno dei suoi fratelli, incarcerato a pochi metri da lui. E ogni parola, ogni incontro esprime con chiarezza il motto che sembra echeggiare in ogni verso: “la libertà che è in noi è più forte delle prigioni”. Tant’è vero che una campagna internazionale per il suo rilascio e l’eco che ha avuto in tutto il mondo la traduzione in francese dei suoi versi da parte del poeta marocchino, Abdellatif Laabi, avrebbe alleviato la sofferenza dell’autore.
I temi ricorrenti in questa raccolta vanno dalle donne, alle visioni del detenuto, dalla trasfigurazione della cella e dei versi degli animali, fino ad una più generale rivoluzione della natura che prende forma nei fiumi proprio nel luogo dove queste poesie sono nate: il carcere. La prigione è intesa come un luogo senza tempo e pieno di contraddizioni. Si tratta di versi profondamente politici che esprimono la più convinta opposizione dell’autore verso gli autocrati di turno ma più in generale verso uno Stato che trasforma la sua terra in una “fossa comune” più che in una “nazione”. Sono elegie delle donne che circondano il poeta che siano esse madri, figlie, sorelle, innamorate. In “Due sigilli”, Faraj richiama proprio la nostalgia verso le sue “due gazzelle” (moglie e figlia), “smetti mia nostalgia/ di non avere approdo”. In “Storia”, il poeta è attraversato dallo sgomento della solitudine della cella “scrivi sui muri/riferisci al sultano tuo signore/ che una cella non è più stretta/della sua tomba/ che una cella non è più corta/ della sua vita”. Un “sultano” che per l’autore è “indegno di sepoltura”.
E da qui in poi al poeta ingabbiato non rimane che affidarsi ai versi degli animali. In “Richiamo”, Faraj vorrebbe aprire le mura del carcere alle colombe. Non importa se questo potrebbe ucciderlo perché il richiamo è “come il vino della poesia”. E così non gli resta che ululare vegliando il cadavere penzolante di uno studente universitario. In tutta questa tristezza, l’unica salvezza è sì la poesia, ma una certa creazione che mira all’equivalente poetica della donna. “Lei sola disseterà l’anima”, “è presente nell’assenza” del carcere “quasi le stelle fossero tue schegge”. Il tempo diventa un continuum di visioni straordinarie, ma tragiche. “Non ero né vivo né morto”, ma un amico suggerisce a Faraj la forza che cresce intorno a lui fuori dalla cella “Ricordo chi piange per te e mi pare/ che siamo in molti e le nubi rare”. Questa angoscia e questo sgomento attraversano i giorni di “Sciopero della fame” in cui si sentono i palpiti del sangue e dei ricordi. Ritornano i versi, i nitriti questa volta, “perché il mio corpo è cella/ e la poesia è libertà inattesa”. I versi sono a questo punto dei sinonimi del dolore. In questa poesia del dolore, “il blu del profondo è dolore/ e il profondo del blu è dolore”. E così le mani di sua moglie diventano le rive di un fiume di dolore. Le visite dei familiari sono come una rinascita ma fugaci, tanto che quando terminano “le finestre del carcere chiudono gli occhi/ e le pareti si coprono di/ un colore di estremo pudore”. Questi versi si trasformano in gemiti, di corpi su corpi, nei momenti più tormentati in cui Faraj è solo “e la morte è tutto” “e lo Stato ti regala una morte/di riserva”. Uno Stato perverso che “spezza la schiena” e lascia dietro al poeta un’epoca che “si vergogna/per la menzogna della geografia”. In “Questo è ora” ormai la cella si trasforma nello spazio mentre un passerotto costruisce un orizzonte sull’altra finestra. Questa tragica ma umanissima raccolta “Il luogo stretto” non omette di aprire alla possibilità della vita futura e così si chiude inaspettatamente con poesie più serene da “Eco” a “Diagnosi” fino a “La lacrima”. “È una vita della notte”.

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