Foto non ne ho
E’ uscito ormai da qualche mese Santa Mamma il nuovo romanzo di Giulio Cavalli. Pubblico volentieri qui su Nazione Indiana qualche pagina e ringrazio l’autore per la disponibilità. G.B.
di Giulio Cavalli
Domani portate una vostra foto da piccoli, ci aveva detto la maestra. Forse prima elementare: di solito è lì che si inizia con la perversione dell’inculcare la meraviglia per la natura col diventare grandi, con la polpa che si aggiunge a polpa e i peli che si fanno capelli. Portate una foto da piccoli, la maestra si chiamava Anna, che dobbiamo fare un lavoretto; e la classe già inebriata dal pensiero di forbici, carta a strisce e colla secca sui polsini del grembiule.
Io invece no. Io non ce l’avevo una mia foto da piccolo.
Non l’ho mai avuta perché sono stato piccolo al massimo a due anni e mezzo: prima niente foto, niente tutine, niente ciucci da tenere sotto teca e nemmeno le prime scarpine slacciughente e uncinettate. La mia prima foto sono io, verso i tre anni, seduto sui gradini di un giardino con la ghiaia al posto dell’erba mentre spingo una macchinina fuoristrada rossa con la ruota di scorta avvitata sul tetto. Indosso una maglietta a strisce orizzontali bianche e rosse, pantaloni rossi e lo sguardo abbacinato. Sarò stato colpito da tutto quel troppo rosso o forse dalla violenza di chi martella ruote sui tetti delle auto; mi sono dato questa spiegazione per giustificare la torvatura della faccia. Niente per cui strapparsi lacrime a inizio del capitolo, intendiamoci: la fotografia, pur tardiva, svolge serenamente la funzione delle nostre foto da piccoli e ogni sputata volta c’è qualcuno che mi trova perfettamente somigliante a uno a caso dei miei figli. Tutto a posto. Qualcuno spericolato vede anche qualcosa di spiccicato “alla mamma” e fa niente che io sia stato adottato: io e lei ci guardiamo e in silenzio ci diciamo che no, che non vale nemmeno la pena di dirglielo, e in silenzio ci diciamo che va bene così. Mica vorrai frantumargli l’eccitazione.
La foto per la maestra Anna comunque non ce l’avevo e già allora non avevo il fisico per inscenare un dramma che non mi sfiorava per niente. Piansi. Iniziai a piangere nel modo meno credibile di tutta la mia vita con un lamento bitonale come una sirena dalle batterie scariche. Per mancanza di lacrime mi misi anche le mani sulla faccia simulando una lentezza straziata e producendo singhiozzi con colpi di pancia: devo essere stato uno spettacolo orribile se è vero che la maestra Anna, con il solito fragore degli adulti che hanno paura dell’oscenità di un pianto in pubblico, si è alzata dalla cattedra per soffocarmi di consolazione. Era sempre abbronzata, Anna. Primavera, estate, autunno e inverno aveva quel colore di terra battuta dei campi da tennis e da vicino profumava di giglio. Mi chiese: “Cosa succede, Carlo?”, e aveva gli occhi blu come due orecchini persi durante una partita. Io sicuro non rispondevo, continuavo a piangere di diaframma. Mai rispondere durante la simulazione di una disperazione se non si ha tutta una tecnica e un’esperienza sulla voce. Ci vogliono anni per piangere e dire insieme.
Alla bidella che mi accolse portato fuori dall’aula dissi “Sono stato adottato”. Lei e Anna strizzarono un faccia contrita. Anna con i braccialetti che le si incagliavano tra l’orologio e i bottoni delle maniche e che disincagliava con uno scrollo schizofrenico e la bidella con il suo grembiule come se fosse intenta tutto il giorno a preparare minestre. Mi accarezzavano con la cautela che si usa per le bestie feroci, spizzicavano frasi fino alla seconda parola. “Non è mica brutto essere adottati”, fu la bidella a riuscire a finire una frase per prima.
Già, disse Anna. Già, anche la bidella.
“Però io non ho la foto.” Già.
In corridoio nuotava un puzzo di mensa e i muri soffiavano vento. Avevo smesso di piangere, disattento, provai a riaccendermi e bastò per rinverdire l’allarme intorno. Anna mi strinse, finalmente. Con il naso tra i pelucchi del suo maglione e l’odore di giglio pensai che a simulare tristezza finisce che ci si intristisce per davvero. Deve essere liquida la tristezza se a versarne un po’ per gioco o simulazione poi si finisce per berla. “Ma la tua mamma è come una mamma vera”, la bidella me l’ha bisbigliato come se fosse un segreto di stato. “Lo so. Lo so.” L’avevo già sentito milioni di volte. “E poi”, mi disse Anna con la sua mano a farmi cerchi sulla schiena, “e poi non è mica colpa tua e nemmeno della tua mamma di adesso. Sei stato adottato ma sei un bambino normale.”
Sapeva di caffè, anche.
“Lo so.” “E perché piangi?” C’era un silenzio lirico, il mondo che s’era fermato con l’orecchio teso. Avevo vinto, a modo mio. E poi non lo sapevo perché mi ero buttato in quel lamento. O forse sì. Lo sentivo ma l’avrei saputo solo più adulto: piangere è il mio modo di partire e tornare, rassicurarmi di non essermi troppo indurito il cuore sformato dall’accidia che frequento. Mi capita ancora adesso di piangere, da solo, quasi di nascosto: è il mio grufolare cioccolato senza farmi vedere, mettersi il dito nel naso o imprecare contro qualcuno. Piango, mi prendo le misure e verifico di non essermi sformato. Un pianto ispettore.
“Ascolta Carlo, facciamo così…”
Quando gli adulti propongono soluzioni ai bambini indossano un servilismo cortese che stira le vocali.
“Adesso torniamo in classe…”
Si sente lontano un chilometro che hanno il terrore che gli si buchi il palloncino delle loro soluzioni.
“Parliamo con i tuoi compagni…”
Anna parlava come in chiesa. Con le parole pesanti, inzuppate.
“Gli spieghiamo che sei un bambino speciale…”
Speciale, normale. Fortunato ma come tutti. Si sarebbe fatta adottare anche lei, lì, per chiudere il discorso.
“E portiamo tutti una foto ma a tre anni. Da piccoli ma a tre anni. Tutti. Così siamo tutti uguali.”
“Ma io non lo voglio dire.”
“Non diciamo niente. Dico che ho deciso io. Sono la maestra, dico, e decido io. Va bene?”
Al rientro la classe non sembrò sfiorata dal melodramma consumato in corridoio: il solito vociare fitto come un ingranaggio in sottofondo di voci a punta non addomesticate si arrestò a bacchetta. Andrea mi ispezionava controllando che tornassi in classe tutto intero, vidi Roberta scimmiottare la contrizione osservata in chissà quali auliche nonne, tutti chi più chi meno cercavano di capire quel poco che basta per non sembrare disinteressati e scortesi spinti da quell’odiosa educazione fatta di posture affettate. Intanto io camminavo pieno di crepe ma la classe era troppo buia per vederle. Al mio banco Paolo, il compagno con cui avevo fatto il più bel pupazzo di neve della mia vita, si fece da parte anche se lo spazio non mancava e poi fu quel respiro prima della notizia.
Come succedono. Come succede la vita. Basta suonare le corde che stanno più in fondo la pancia perché tutto s’imbarazzi. Anni a progettare un pavimento solido e poi basta che si infiltri una lacrima, anche ammaestrata, e si naviga a vista sulle zattere.
Alla scuola di Tarrazza, paesino ai bordi della via Emilia, da quell’ottobre del 1983, fu regola portare a scuola la foto appena nati a tre anni per tutti i nuovi alunni della prima classe elementare. Poi la notizia si diffuse in qualche strascicata riunione provinciale e la norma dei tre anni prese piede fino a qualche istituto fuori regione. “È un’indicazione che ci viene da uno studio di psicologi dell’infanzia”, rispose qualche preside vestito marrone smunto di una piccola scuola borghese in Valtellina. Gli adulti sono così: se accade qualcosa di comodo diventa una regola; qualcuno a cui attribuirla al massimo si trova sempre.