Un’altra scuola di Francoforte: gli anni Settanta di Jörg Fauser
Di Daria Biagi
È il 17 luglio 1987 quando un uomo di quarantatré anni, poche ore dopo aver festeggiato il suo compleanno, viene travolto e ucciso da un camion lungo il tratto autostradale tra Feldkirchen e München-Riem, alla periferia di Monaco. Si tratta di uno scrittore francofortese noto per il momento più nell’ambiente delle forze dell’ordine che non nei circoli letterari: ad attirarlo fuori città, secondo alcuni, sarebbero stati presunti informatori con cui si era messo in contatto per un’indagine sui rapporti tra spaccio di droga e politica; secondo altri stava invece semplicemente barcollando verso casa, ubriaco come il personaggio di uno dei suoi libri. Le incertezze su questa strana morte avrebbero contribuito, negli anni successivi, ad alimentare il mito di Jörg Fauser, romanziere, poeta, giornalista, alcolista, testimone polemico della contestazione studentesca e di tutto quello che, in Germania e non solo, ne sarebbe conseguito.
I romanzi di Fauser diventano da subito libri di culto negli ambienti underground tedeschi, in particolare Materia prima, l’opera principale che esce adesso per la prima volta in traduzione italiana (Rohstoff, 1984). La storia di Harry Gelb, il protagonista, ripercorre per molti aspetti le vicende biografiche del suo autore: nato a Bad Schwalbach nel 1944, dopo le scuole superiori Fauser si iscrive all’università di Francoforte, che in questi anni è insieme a Berlino Ovest il cuore dei movimenti d’opposizione studenteschi. Ben presto tuttavia interrompe gli studi e, avendo rifiutato di prestare il servizio militare, viene assegnato come obiettore a una clinica di Heidelberg per malati terminali. È qui che, a venticinque anni, ha inizio la sua dipendenza dalla droga: solo nel 1972 riuscirà ad uscirne definitivamente e a passare, come scrive lui stesso, «dall’ago alla penna». Nel corso dello stesso anno esce infatti il suo primo romanzo, Tophane, dedicato all’omonimo quartiere di Istanbul dove aveva trascorso alcuni mesi, meta di tutti i tossici d’Europa alla fine degli anni sessanta e futuro scenario dei capitoli iniziali di Materia prima. La vita da junkie sembra quasi imposta dalla vocazione letteraria, dal desiderio di sperimentare e conoscere, sulle tracce di quegli scrittori americani – Burroughs e Kerouac in primo luogo – che tra gli anni sessanta e settanta erano considerati, prima che maestri di scrittura, veri e propri maestri di vita. Intanto Fauser scrive articoli per reti televisive e giornali, fonda testate indipendenti, lavora a sceneggiature cinematografiche (tra cui un film su Bakunin, mai realizzato), compone testi per il musicista rock Achim Reichel, collaborazione che gli assicura perfino una momentanea scalata delle classiche musicali. Il successo come scrittore arriva nel 1981 con il giallo Der Schneemann, (tr. it. L’uomo della neve, 2005), che lo fa conoscere al grande pubblico anche grazie a un fortunato adattamento cinematografico.
Rohstoff, il romanzo della “materia prima” o della “materia grezza”, è quello in cui Fauser elabora più a fondo il legame tra dipendenza e letteratura: tutto ruota intorno allo Stoff, la roba, che è anche, sempre, la “roba” di cui si scrive. Harry Gelb vive il periodo che va dal 1967 ai primi anni ottanta tra Istanbul, Francoforte, Gottinga e Berlino, in mezzo a tossici e spacciatori, rivoluzionari di professione e rivoluzionari improvvisati, donne tentate dal ritorno alla terra, scrittori underground che si mantengono con un posto da pilota per Lufthansa. La narrazione è ricca di episodi autobiografici in nome di quella vita vissuta che ogni scrittore deve conoscere, ma Fauser si diverte allo stesso tempo a prendere in giro questa mitologia («Avevo fatto il servizio civile in una clinica per tisici e asmatici e scrivevo un romanzo su un giovane che faceva il servizio civile in una clinica per tisici e asmatici» – sono i primi tentativi letterari di Gelb), difendendo al di là di qualsiasi esperienza il diritto alla finzionalità, all’invenzione. Gelb è un aspirante scrittore che, come gli rimproverano le varie fidanzate, scrive poco, appunto perché sempre a rincorrere qualcos’altro, un amore, una birra, un lavoro, una partita di droga, la ‘vita reale’. Riesce a entrare in contatto con gli artisti e gli scrittori che gli interessano – uno dei capitoli centrali racconta l’incontro a Londra con William Burroughs –, trova il modo di pubblicare un libro con una minuscola casa editrice bavarese, ma alla fine del suo percorso il massimo riconoscimento a cui arriva è l’invito a una lettura pubblica organizzata in una cittadina vicino Francoforte da un’associazione religiosa giovanile – un ritratto di quella ricca provincia tedesca lastricata di buone intenzioni che a tratti ricorda l’Emilia sferzata dal sarcasmo tondelliano.
La vicenda di Gelb percorre insomma le tappe principali della vita di un qualsiasi giovane tedesco del tempo – gli studi, i viaggi, l’adesione ai movimenti di protesta – ed è dunque, a suo modo, un romanzo di formazione. «Io appartengo ancora a una generazione che si è sentita ripetere spesso Dovete combinare qualcosa nella vita», affermava lo scrittore in un’intervista televisiva del 1984. Come Wilhlem Meister o come Enrico il Verde (nome che sembra quasi parodiato in quello del protagonista, alla lettera “Enrico Giallo”), anche il suo alter-ego Harry Gelb cerca dunque di combinare qualcosa, di buttarsi in un’attività solida, riconoscibile, in virtù della quale ricostruire un senso anche a tutto quello che c’è stato prima. La scelta di ambientare gran parte del romanzo a Francoforte, la città di Goethe e di Wilhelm Meister, non è dovuta solo a ragioni autobiografiche, ma anche al desiderio di richiamarsi a una tradizione letteraria cruciale nella cultura tedesca. Per far fallire un romanzo di formazione, evidentemente, non c’è luogo più adatto di Francoforte: Fauser sembra farsi apertamente beffe di questo genere letterario quando al termine del romanzo fa brindare il protagonista, appena informato che la sua ex ragazza ha sposato uno studioso francese di Goethe, ai «ricercatori goethiani», anzi «ai ricercatori goethiani francesi». La formazione dell’eroe si svolge qui su tutt’altri binari, e non a caso l’unico a concedergli l’appellativo di “Meister” sarà ironicamente il barista della stazione centrale, giusto un attimo prima di buttarlo fuori a calci dal suo locale.
L’incapacità di Gelb di trovare un posto nella società non è dovuta però soltanto alla sua sete di altro: nel corso del romanzo, man mano che si avvicinano gli anni ottanta, diventa progressivamente più chiaro come le grandi speranze del ventennio precedente si stiano avvitando in una stretta che lascia sempre meno scampo, e anche trovarsi un’ occupazione decente – il protagonista lo verificherà a sue spese durante un colloquio alla Bundesbank – sia molto più difficile di quanto non fosse solo tre, quattro anni prima. Gelb insegue le sue speranze letterarie cercando lavoro presso un quotidiano, dove un’anziana giornalista (che sembra la traduttrice puntigliosa della Vita agra di Bianciardi: «si faccia prima le ossa presso qualche piccolo editore!») lo incarica di recensire polpettoni cinematografici, poi trova un impiego come vigilante notturno e infine come addetto al servizio spedizioni di un’azienda che manda libri e cianfrusaglie ai quattro angoli della Germania – una sorta di Amazon in versione anni settanta. Francoforte, infatti, non è solo la città di Goethe e del movimento studentesco: situata nel settore di occupazione americana, dal dopoguerra in poi è anche il cuore pulsante del nuovo sistema finanziario, e una delle prime città europee a subirne le conseguenze. I grattacieli delle grandi corporazioni interazionali, la Zeil – la via commerciale che taglia la city –, la nuova stazione centrale con il suo famigerato B-Ebene (il livello sotterraneo divenuto ben presto il centro nevralgico del traffico di stupefacenti) tracciano il profilo della nuova città postbellica, bancaria e liberale, che offre ai suoi giovani una delle migliori università d’Europa (sono gli anni della Scuola di Francoforte) e una politica avanzata e non repressiva rispetto al consumo di droghe. Se a qualche angolo di strada resistono ancora birrerie da quattro soldi, come lo Schmales Handuch in cui si ritrovano i protagonisti, non dureranno a lungo. Francoforte è tutta cantieri, buche, rovine – come quelle del Teatro dell’Opera, che segneranno a lungo il profilo della città –, ma si tratta di una fase di transizione che si dirige inevitabilmente verso un destino di modernizzazione forzata. La città che si trasforma è un elemento fondamentale all’interno del romanzo, e per questo si è scelto di lasciare nella lingua originale alcuni nomi o sigle che alludono a quel contesto – come ad esempio l’AG-Westend, l’associazione dei residenti della parte occidentale della città che per anni ha difeso la zona dalle speculazioni edilizie intenzionate a trasformarla in un quartiere di uffici, e che è attiva tutt’ora.
Il movimento studentesco raccontato da Fauser è parte integrante di questa trasformazione. Tra infinite riunioni nelle case occupate, copie ciclostilate della Funzione dell’orgasmo di Wilhelm Reich e sogni sempre indecisi se far saltare in aria la Gedächtniskirche o fondare una comune alle Seychelles, gli studenti di Francoforte e di Berlino mostrano meglio di qualsiasi altro gruppo sociale le contraddizioni della metamorfosi in corso. «Chi vuole sapere come e perché la rivolta sia diventata una tappa della modernizzazione capitalista, il varco verso la Germania Federale individualistica e flessibile che conosciamo oggi,» affermano Matthias Penzel e Ambros Waibel, i biografi di Fauser «deve leggere Materia prima – e soprattutto avrebbe dovuto farlo nel 1984». Le perplessità del narratore sono espresse soprattutto attraverso il personaggio del greco Dimitri, l’unico rivoluzionario “vero” del romanzo, scacchista ed ex-trafficante di armi fuggito dalla dittatura dei colonnelli, che non ha più alcuna fede politica ma spera ancora, un giorno, di tornare in Grecia, di «girare un buon film», «di poter vivere con sua moglie e suo figlio e di vedere i fascisti appesi ai lampioni».
Il mondo degli studenti è fatto di maglioni a collo alto, di tabacco Schwarzer Krause e di cartine Abadie, un gergo di oggetti e parole che marca immediatamente i confini del territorio: le camionette della polizia, che negli anni settanta erano verdi, si chiamano qui ancora «Grüne Minne», e «Semester» indica non il semestre accademico bensì uno studente da anni fuori corso. Alle espressioni gergali si mescolano versi di canzoni, citazioni letterarie e parole d’ordine della rivoluzione, e le infinite sigle dei gruppi politici universitari, dal KSV (Kommunistischer Studentenverband, l’Unione degli studenti comunisti) ai gruppi che vi si contrappongono, i giovani di orientamento socialista dello JUSOS (Jungsozialisten) e le diverse “cellule rosse” legate a precise facoltà universitarie (gli studenti di legge della Rotzjur, quelli di lettere della Rote Zelle Germanistik).
Quella dell’ambiente studentesco, peraltro, è solo una delle lingue che tramano il romanzo, che mette in scena il conflitto sociale anche come scontro linguistico. Fauser è attento alle variazioni tra il tedesco parlato a Francoforte e quello parlato a Berlino (dove la disfattista Sonja viene apostrofata con l’epiteto tipicamente berlinese di «Kodderschnauze»), e al linguaggio pieno di sottintesi che si parla nel giro della droga. Materia prima fotografa un momento ben preciso anche nell’evoluzione di questa subcultura, che alla fine degli anni sessanta, con l’arrivo delle droghe pesanti importate principalmente da Istanbul, si avvia a diventare un mercato di massa fuori controllo e a trasformarsi nello scenario dove cresceranno, una decina di anni dopo, i ragazzi dello Zoo di Berlino. A testimoniare questa rapida trasformazione stanno anche qui parole e cose destinate a scomparire rapidamente, come la Berliner Tinke, una droga casalinga che assumeva una colorazione progressivamente più intensa a seconda del quantitativo di morfina presente (da qui il nome di “tintura berlinese”) e che sarebbe stata spazzata via dalla diffusione dell’eroina.
Per quanto Fauser segua da vicino il contesto del tempo, tuttavia, la sua scrittura ha poco a che fare con il genere dei reportage “trascritti dal nastro di registrazione” in cui rientra anche il romanzo di Christiane F., libri in voga nella Germania degli anni settanta che anzi vengono tirati in ballo polemicamente in breve passaggio di Materia prima. Solo in apparenza, infatti, la sua è una lingua reale, “parlata”: il tessuto del romanzo è molto più letterario e stratificato, debitore agli scrittori americani esplicitamente citati – Karouac, Burroughs, Bukowski – ma anche a tedeschi come Joseph Roth o Hans Fallada. Fauser si ispira alla tecnica del cut-up (che nel romanzo compare più come elencazione o giustapposizione di elementi che non come vero e proprio collage), rielabora passi dei suoi autori preferiti (viene da Bukowski l’immagine delle ragazze che si affaccendano indifferentemente intorno a un amore, a un tirocinio da parrucchiere o una bomba), e pesca parole ed espressioni direttamente dai romanzi della beat generation – o, per essere più esatti, dalle traduzioni tedesche dei romanzi della beat generation. Un termine come Kaltwasserbude – “un buco di casa senza neanche l’acqua calda” – si cerca invano in un dizionario, e non perché venga dalla strada: Fauser lo prende in prestito dalla prima traduzione tedesca di On the Road, neologismo del traduttore per rendere l’americano cold-water pad.
La lingua molto specifica di Fauser non è irriproducibile nel contesto italiano, che ha avuto comunque i suoi anni settanta, i suoi miti americani e i suoi racconti dal mondo della droga: per questo nel tradurre si è scelto di cercare l’atmosfera di quegli anni nelle pagine di Tondelli e di Pazienza, nelle canzoni degli Skiantos, nei romanzi pieni di ‘stramaledetti’ e ‘dannatissimi’ degli americani tradotti, anche correndo il rischio di creare qualche anacronismo con linguaggi che proprio per la loro estrema fedeltà a un dato contesto sono anche soggetti a un tasso di invecchiamento più rapido. Ma di fatto esiste già un linguaggio comune che racconta questi mondi, la lingua che parlano i personaggi dei film di Claudio Caligari o dei due Trainspotting, con tutto il loro carico di dialetto e di gergo. Attraverso le loro specificità apparentemente poco esportabili questi personaggi raccontano una storia che riguarda tutti, dove un junkie è un tossico e un trip è un trip, dove gli slogan hanno sempre la stessa retorica (scegliete la vita!) e l’unico modo per uscire da una dipendenza è – su questo tutti narratori concordano: trovarsene un’altra.
D.B.