Les nouveaux réalistes: Gabriele Drago

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Gabriele Drago

 

Siamo precipitati sulla calce, rotolando tra i ciottoli, nella polvere. Andrea modellava il mio viso con carezze lancinanti. Si allontanava per guardarmi, poi mi afferrava la mandibola e mi baciava. Anche io lo stringevo forte, ma nel furore gli ho preso la testa e glie l’ho sbattuta su una pietra per cinque o sei volte. L’ho sollevato da terra e l’ho lanciato su uno stelo di ferro che sbucava da un pilastro. È rimasto trafitto nella schiena, con i piedi che pendevano da un lato e le braccia da un altro. Mi sono inginocchiato per baciarlo ancora. Passavo le dita tra i suoi capelli, con una mano gli reggevo la nuca. La montagna di pietre faceva da sfondo al suo corpo tragico e il Bobcat scintillava sotto gli ultimi raggi di sole.

Siamo stati in questo posto che tagliato così sembra un paesaggio lunare, ma se allargassi l’inquadratura si mostrerebbe per quello che è: un deposito di pietre per la costruzione di un palazzo in mezzo alla campagna. Siamo stati qui perché Andrea doveva parlarmi, anche se a me nel tempo libero piace stare in silenzio.

Con il lavoro che faccio, il rappresentante porta a porta, mi tocca dire e spiegare, fino a che me ne devo stare zitto.
Ho provato a farmi una posizione con la mia professione, il fotografo, ho guadagnato poco, pochissimo, niente. Mi è toccato vivere con i miei e a un certo punto ho dovuto scegliere se sottostare alla dittatura di mio padre o alla schiavitù di un capo. Scelsi la schiavitù. Questa è la libertà alla quale posso aspirare, passare da una gabbia più piccola una più grande, cercare di stare comodo. E adesso sono comodo, talmente comodo che non me ne frega nulla.

Quando io e Andrea ci incontravamo per parlare, in realtà nessuno ascoltava l’altro. Ci conoscevamo da una vita e sapevamo già cosa ci saremmo detti. I problemi erano sempre gli stessi, forse variavano gli attori, ma il copione rimaneva uguale.

«Non risolveremo mai i nodi delle nostre esistenze, qualcosa sempre resta e non cambia. I traumi dell’infanzia, l’orrore a fondo perduto che sono le nostre vite», lo sappiamo.

«Siamo stati abituati alla menzogna. Le ansie dei nostri genitori dovevano essere placate con una vita finta che stava diventando vera. Quelli che conosco fingono di essere maturi e fingendo diventano tristi, come gli adulti che sono. Su questa pietra abbiamo costruito la nostra chiesa» e via dicendo con il lamento continuo al quale non credeva neanche lui.

Mentre parlava, Andrea aveva strappato una spiga che faceva scorrere tra le dita. Aveva preso un masso e l’aveva spaccato per terra. Era rimasto a guardarne i frantumi. Tirava le pietruzze al muro secco. Sembrava che la sua volontà fosse quella di distruggere tutto ma operava senza rabbia, per gioco.

Per giustificare la mia presenza in quel luogo con Andrea, avevo portato la macchina fotografica. Almeno avrei trovato qualcosa di insolito nella ripetizione delle nostre vite. È la magia della fotografia che salva dalla noia. A un certo punto un palo o una pietra escono dalla banalità della loro presenza e diventano interessanti senza motivo.

Andrea aveva smesso di drogarsi, mi diceva, anche se non ci sarebbe nulla di male nell’andare ancora a un rave party o nel prendere un goccetto di acqua più all’mdma, ma no, tempi andati quelli. Adesso pensava alla carriera, anche di sabato. Si addestrava alla rinuncia come un asceta. Aveva trovato altri modi per togliersi di mezzo.

Nelle palestre o nei corsi di fitness, Andrea immaginava di non morire mai. Nel mangiar sano, nelle verdurine, nel tofu, la malattia non lo avrebbe sfiorato. Nel flusso infinito della Home, dove con un click discerneva il bene dal male, lui che si era autogenerato, che era padre e madre di se stesso, imprenditore di se stesso, si credeva un Dio fatto uomo.

Ma la mortificazione del godimento creava la sua malattia, il suo ego ipertrofico, la colpa di non riuscire mai a raggiungersi.

Era un demone minore Andrea, tentato dal bene e inibito nel farlo. Questa la goffaggine incerta dei suoi movimenti, il dubbio timoroso che si portava dietro dal liceo. Se avesse saputo scegliere il bene, il suo bene, sarebbe stato più sicuro, in pace o morto. Sempre meglio dell’inferno in cui si era cacciato, con la sua vita finta, a non voler deludere nessuno.

Siamo stati in questo cantiere aperto e fermo. Io fotografavo, Andrea parlava. Parlava della complessità della mente, se ricordo bene, di chi siamo noi e di chi sono loro e di quanto di loro c’è in noi, della riflessività del giudizio, tipo giudica e sarai giudicato, e tante altre cose, le solite cose, che non ricordo.

I discorsi erano più difficili rispetto a dieci anni fa, servivano più concetti per comprendere cosa ci stava succedendo. Quelli di Andrea apparivano però come formule di cortesia per compiacere il suo pubblico che in quel momento ero io. Si sentiva che la sua voce non era autentica, che le parole non aderivano alla carne. Ma che bisogno aveva di fare così anche con me? Conoscevo la sua nullità e gli volevo bene lo stesso quando perdeva quella solennità ebete e il sorriso gli si allargava mentre ci insultavamo le madri o quando saltava sulle panchine del lungomare in inverno o mentre tirava un calcio alla lattina schiacciata che portavamo ai passaggi fino in macchina.
Le sue menzogne erano diventate mediocri, non aveva le abilità per creare il personaggio glorioso che voleva essere. L’esistenza misera che spesso raccontava era più misera di quella che viveva. «Se la gente sapesse quanto è poco interessante non sarebbe più mia follower», si preoccupava.

Il controllo esasperato del feedback, il resoconto al minuto dei like ai suoi post, i selfie sorridenti nei luoghi dei suoi viaggi, lo consumavano.
Una volta a Cracovia era rimasto in ostello per tre giorni. Visitava un monumento, si faceva un selfie, lo condivideva e tornava in camera a contare i mi piace. La seconda sera voleva tornarsene a casa. Non avrebbe voluto fare quel viaggio, niente di tutto quello che faceva avrebbe voluto farlo. È sempre stato così. Questo il motivo della sua lentezza, lo sforzo di vivere che lo stancava come una febbre.

Mi ero interessato alla montagna spianata che faceva da pista all’aggressiva azione del Bobcat. La fotografavo ammaliato, ma non ne usciva nulla di buono. Mi ero accorto in quel momento che non volevo fotografare e non volevo neanche ascoltare Andrea. Glie lo avrei detto presto, perché io, il coraggio di deludere gli altri, c’è l’ho.

Non lo sopportavo. Dovevo dirgli di starsene zitto. A ogni sua parola mi spostavo, muovevo le pietre, creavo composizioni senza ragione pur di non sentirlo. Salivo su un masso, mi allontanavo, controllavo il diaframma, l’otturatore, non capivo nulla. Andrea mi dava la nausea con la sua luce artificiale che cercava di diffondere ovunque e allora ha dovuto dirglielo. Ho dovuto dirglielo che non lo stavo ascoltando, che non non me ne fregava un cazzo. Ho dovuto dirglielo perché gli volevo bene e non volevo mentirgli.

«Non me ne frega un cazzo, sai? Non me ne frega proprio un cazzo di quello che stai dicendo», gli ho detto.

Mi aspettavo una reazione violenta come quelle che sgorgavano della sua paranoia quando un gesto fortuito confermava la logica persecutoria con la quale interpretava il mondo. Pensavo di suscitare la sua collera e dopo avergli detto che non me ne fregava nulla della sua disperazione, per un momento, avevo perso il coraggio di guardarlo in faccia. Ripensavo al braccio rotto di Leda, la sua ex compagna, e agli occhi gonfi dell’uomo sul traghetto. A entrambi bastò scambiarsi uno sguardo per meritarsi una scarica di legnate. Andrea poi andò a rifugiarsi nel bagno in preda ai sensi di colpa.
Era una superficie colorata Andrea, sotto la quale si agitavano ingovernabili turbini.

Armeggiavo con il display della macchina fotografica, sentivo i suoi occhi di stucco su di me. Nonostante ciò continuavo a dirgli di stare zitto.

«Zitto devi stare con le tue cazzate», mormoravo con gli occhi bassi.

Sentivo che una catastrofe imminente sarebbe arrivata. Il cantiere fermo era diventato immobile. Il Bobcat teneva in alto la ruspa colma d’acqua che da un momento all’altro sembrava riversarsi sulla testa di Andrea e su tutto. Un’alluvione, un fiume in piena, la campagna allagata e il suo corpo galleggiare in una pozza di fango immaginavo. A un certo punto volevo vederlo annegato e me ne vergognavo.

«Devi stare zitto», ho detto un’ultima volta.

Andrea era fermo su una dunetta di terriccio poco più in là. Se si incazza, se mi umilia, lo ammazzo. Deve stare zitto, pensavo.
Non volevo ferirlo, ma a lato c’era un tondino di metallo sottile come i capelli di una frusta. Prenderlo e schioccarglielo in faccia, uno squarcio lungo gli farei, dalla fronte alla bocca.

Andrea non parlava più. Sentivo i suoi passi strisciare e la sua presenza avvicinarsi.

«Potevi dirmelo prima che non volevi ascoltarmi», ha detto con calma quando era a circa un metro da me.

Mi ero abbassato lentamente per prendere il tondino di ferro che stava per terra. Calcolavo che con una sola mossa sarei riuscito a girarmi e ficcarglielo nell’occhio.

«Perché non me lo hai detto prima?» continuava.

Aspettavo il momento giusto per fiondargli il pezzo di ferro in faccia, ma lui ha steso il braccio per prendere la mia mano e mi sorrideva. Quel gesto mi ha disorientato e ho lasciato cadere il ferro.

«Che vuoi con quella mano?» gli ho detto mentre gli porgevo spontaneamente la mia.

Lui ha azzerato velocemente la distanza, mi ha agganciato il collo e mi ha abbracciato. Mi sono ritrovato appeso al suo corpo, con l’orecchio vicino al suo orecchio. Non ci siamo detti nulla, poi mi ha dato una stretta forte e ho perso l’aria. Gli occhi mi si sono spalancati sulle colline bianche che circondavano il cantiere, sulle impronte lasciate nella terra dai cingoli del Bobcat. Mi ha stretto di nuovo talmente forte che il mento mi si è alzato verso il sole e il cantiere attorno è scomparso diventando solo cielo. La sua mano ha cominciato a scorrermi sul collo, ad avvolgermi la nuca, mi spingeva dolcemente la testa sul suo petto. Mi sentivo rigido, fragile e incollato come un vaso rotto. Andrea ha sollevato lentamente il viso dalla mia spalla. Le nostre guance si sono sfiorate forte. L’attrito delle barbe descriveva una linea che è finita sulle nostre labbra e le ha unite. Gli occhi mi si spalancarono ancora, ricevevo sul busto il suo peso morbido, un flusso caldo che mi scioglieva le braccia. Per alcuni larghi secondi, qualcosa di denso, di oscuro, voleva trapassarmi. Non sapevo nulla di ciò che provavo né quanto sia durato quel bacio. Eravamo sconvolti al crepuscolo. L’ultima foto l’avevo fatta alle quattro, dopo avevo abbandonato la macchina per terra e inclinato la testa per ricevere ancora le labbra di Andrea.
Le sue mani e le mie arrivarono ovunque, mosse da una forza che aveva più a che fare con la materia che con la nostra volontà. La stessa forza sovraumana che mi spinse a sfondare il suo cranio in preda all’orgia.

Quando l’alito di Andrea si è spento e ho visto la sua agonia pendere appesa al pilastro ho avuto una visione. Forse la più intensa della mia carriera di fotografo. Tutto intorno splendeva di una gloria nera. I ferri, le fondamenta, l’acqua torbida dei barili, quella specie di montagna biblica sotto la quale giaceva Andrea come un Cristo morto, erano rivoltanti nel loro ordine meraviglioso. Allora mi sono alzato dal suo volto che tenevo tra le mani, sono corso verso la macchina fotografica e ho scattato, scattato e scattato, fino a esaurire la batteria. Mi sono arrampicato sulla gru, ho scalato le rocce a quattro zampe, tornavo al corpo di Andrea, lo fotografavo e lo baciavo in uno stato di grazia incontenibile. Il mirino della macchina apriva un canale diretto con questo buco nero impronunciabile e mi univa a un grande mistero del quale ne facevo parte insieme al Bobcat e alle pietre. Diventavo immenso come la natura oscura del cosmo che attraversava ogni cosa. Mi ero frantumato altre volte nell’assurdo. Sempre deciso a scolarmi tutto il veleno, era impazzito ma non ero mai morto. Stavolta sentivo che sarei scomparso davvero, ma ero felice, pazzo di gioia per questa libertà oscena e che stavo diventando.

Vede signor giudice, ci sono luoghi dentro noi che è meglio non frequentare. Lì risiede la verità, ma ad altre leggi deve rispondere la vita, altrimenti si rischia l’estasi o il martirio. Questa è l’ultima foto che ho fatto. Andrea era morto da pochissimo. Il sangue gli cola sulla fronte e il tondino è in sezione aurea con il suo cranio, le piace? Non dà serenità allo sguardo? Non la calma?

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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