Bienvenue Italie: Jamila Mascat
Questo è il quarto articolo ( qui il primo, il secondo e il terzo) del dossier da me curato e pubblicato in Francia sulla rivista Focus-in, diretta da Patrizia Molteni . Igiaba Scego, somala, Ornela Vorpsi, albanese, Helena Janeczeck nata in Germania da una famiglia polacca, Jamila Mascat, italo-somala si interrogano sul tema dell’identità. A illustrare il tutto il fotoracconto del fotografo Mario Ferrara. dedicato al tema dell’Arcipelago, paradigma da noi scelto per superare d’un balzo un concetto e una visione del mondo, quella isolazionista tanto in voga di questi tempi (effeffe)
Take a walk/ En marche
di Jamila Mascat
Camminare non le era mai piaciuto, probabilmente perché era così abituata a spostarsi a piedi per inseguire i trasporti – i treni, gli autobus, a suo modo gli aerei – sempre a passo svelto e maldestro, che non sapeva più bene distinguere una passeggiata da una rincorsa, e detestava quella sensazione di affanno da affaticamento quasi quanto detestava il singhiozzo, il suo e quello degli altri per solidarietà. Quando le diceva “facciamo due passi” ed era un invito implorante, e più spesso “facciamo due passi?” come per stupirla con una domanda stupida, restava a guardarlo, interdetta, o anche contrariata, talvolta obiettando che non ce n’era alcun bisogno e adducendo argomenti contrari che in verità mancavano di fantasia. Pur avendo assecondato spesso il suo desiderio, pur avendo accondisceso spesso a camminare con lui, non importa se controvoglia, non aveva ancora maturato un’idea chiara e distinta di cosa – una figura, un’immagine, una visione – potesse corrispondere a questo nome comune, molto comune – la “passeggiata” – nella testa di una persona adulta qualsiasi, che non frequenta le Dolomiti da molti anni, che non porta a spasso né cani né figli, che non deve sgranchirsi le gambe la mattina da quando è in pensione e che non crede che la flânerie si riduca a due gambe in giro in ordine sparso, tantomeno a quattro. O allora una flânerie piccolo-borghese, più piccola che borghese. O ancora un concetto così vuoto che precipitava i suoi ragionamenti in un vortice di inadeguatezza e che invocava un riempimento urgente, benché in fondo non lo meritasse.
Le pareva che la “passeggiata” si sottraesse con ostinata antipatia a qualunque sforzo immaginativo da parte sua, che le fosse preclusa e si negasse alla sua vista, mentre lei voleva vederla e non solo saperla. Ovviamente sapeva bene qual era il senso di quella “passeggiata” che nel giro di pochi minuti trascorsi a dibattere sull’opportunità di mettersi in moto, sui vantaggi del restare seduti o distesi o svestiti e sudati, seguiva l’esortazione di lui a camminare. “Camminiamo? Facciamo una passeggiata”. Nell’accondiscendere si rendeva ben conto del fatto che quel movimento insensato e senza meta aveva suo malgrado tanti significati, tra cui per esempio, anzi per primo, quello di “smettiamo di fare quello che stiamo facendo non per fare altro, come se ne avessimo voglia, ma soltanto per non fare più quello che stavamo facendo”. Reset, o della passeggiata. Un’interruzione, immotivata e sgradevole, che avrebbe distribuito separatamente, ma in parti uguali e inversamente proporzionali, rabbia e sollievo tra l’uno e l’altra. A volte una controproposta timida, la sua, che si fingeva sfacciata non tardava ad arrivare: “Prendiamo la macchina”, il contenitore che li avrebbe mossi vietandogli di muoversi e costretti a spostarsi da qualche parte.
La parte era tutto per lei, e per chi come lei aveva bisogno di situarsi e stare da una parte, possibilmente quella giusta, la sua parte, e non dall’altra, la parte opposta. Disegnarsi, anzi segnarsi come un puntino su un planisfero diviso a matita in quattro spicchi. Gli chiedeva un gesto, un cenno, una conferma, una risposta: Io sono qua e tu? L’importante era saperlo con anticipo. Perciò concepiva soltanto gli spostamenti, non le passeggiate a vanvera, ma i tragitti da qui a lì. Le linee non le servivano per unire brevemente due punti in superficie ma per tratteggiare trincee con il tratto grossolano di un pennarello rosso spuntato da una caduta. In trincea nessuno passeggia né gli uomini contro né i caporali allo sbando. Troppo faziosa per camminare, divorava la città, una qualunque, la nota e l’ignota, in cerca di indicazioni stradali su cartelli appuntiti e direzionati. Esigeva itinerari ben delineati contro il nomadismo metropolitano e il vagabondaggio di quartiere che si illudeva di aver abolito le frontiere. Un itinerario prestabilito come una manifestazione nella capitale – da Repubblica a Piazza del Popolo, da République a Nation.
Una manifestazione era un concetto pieno di intuizioni, l’antipasseggiata per eccellenza, lo spostamento di una parte in marcia. C’è chi marcia su Roma per non marcire con andatura marziale, e chi incede en marche arrière vestendo dal nulla i panni usurati del nuovo che avanza; chi marcia e chi marca male. La marcia da Selma a Montgomery, Alabama, con Doctor King in primo piano scolpito in bianco e nero come una statua ambulante, in silenzio per chilometri e chilometri ricordando il sangue e Jimmie Lee Jackson ucciso che non c’era più. Ci avevano provato tre volte con determinazione e con devozione, le braccia incatenate, dritti verso il voto, il diritto di voto, “the ballot or the bullet”, incalzava Malcolm X. Oppure la rivincita del terzo escluso né ballot né bullet: cavalli scagliati dai cavalieri in divisa all’assalto dei manifestanti a piedi. Il 7 marzo 1965 erano riusciti appena ad attraversare il ponte – l’Edmund Pettus Bridge alle porte di Selma – come avrebbe voluto esserci o magari essere il ponte e sentirsi tutti quei passi compatti addosso. Era un domenica che non si dimentica, bloody Sunday.
Il 10 marzo la folla di nuovo in marcia, con qualche cautela e animo riservato raccoglieva le forze per il round finale. Il 21 marzo la valanga nera si gonfiava strada facendo – 25.000 paia di scarpe – fino ad arrivare alle porte di Montgomery dopo aver percorso ottanta chilometri in quattro giorni.
Non era stata una passeggiata. Qualcuno avrebbe dovuto raccontargli quella storia a fumetti, in una lingua franca e spensierata, ammorbidita dai tratti acrobatici di una penna giocosa, la sola lingua che lui intendesse e che lei non conosceva.
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Sono testi bellissimi, perché svelano il mistero della lingua vissuta nell’identità straniera.
Senza nostalgia.
Ma viva.
Una parola significa altro per chi viene da un paese straniero.
Per esempio la parola mare in italiano che significa per me, francese?
La nostalgia della parola mer au fémininin et non au masculin?
Altro esempio:
La parola revoluzione ha per me,francese,un senso fondamentale.
Quando parlo una lingua straniera, anche se diventa lingua quotidiana, la penso ancora dal mio paese natale.
Diventa una lingua di segni diversi.
Diventa poesia.
Molto bello, sia questo testo sia l’intero progetto. Mi piace molto l’idea della manifestazione come antipasseggiata per eccellenza; mi piace, e purtroppo subito il richiamo alle proteste americane degli anni ’60 acquista evidenti quanto sinistre risonanze con l’attualità. Condivido anche qui il link di un agghiacciante documentario di 20 minuti sui fatti di Charlottensville; nel finale uno dei testimoni dice: “I have a great-grandfather who literally has told me the same stories of what I have experienced today”
http://www.esquire.com/news-politics/videos/a57009/charlottesville-vice-documentary/
grazie. @ornella https://www.youtube.com/watch?v=BFhcR362RyE
bellissimo, grazie