Dentro una casa di specchi. Su Appartamenti o stanze di Carmen Gallo
di Franca Mancinelli
Lo sguardo è la nostra possibilità di entrare in contatto con le cose, di conoscere, di tracciare un confine. Non guardando ci consegniamo a un regno dove la realtà e la sua percezione si confondono, lo spazio della nostra identità si apre a riflessi e ombre. Paura degli occhi, il primo libro di Carmen Gallo, (L’Arcolaio, 2014), dichiara questa condizione fin dal titolo. La frequenza di dettagli isolati del corpo e di verbi all’infinito, sono due tracce di una stessa necessità di difesa nei confronti delle profondità brucianti dell’esperienza, delle emozioni. Siamo sulla soglia da cui si presagisce qualcosa di decisivo, che è invocato e insieme temuto: «come svegliarsi nella luce estrema», «come svegliarsi nella luce intera». Il secondo libro di Gallo raccoglie questa forza dirompente che l’esordio annunciava. La preghiera che conteneva fin dall’epigrafe iniziale si compie in Appartamenti o stanze (d’if 2017): «Fa’ che il tuo occhio nella stanza sia un cero, / lo sguardo un lucignolo, / fammi essere cieco quel tanto / da mettergli fuoco» (Paul Celan). Siamo fin da subito condotti in uno spazio interno dove la «paura degli occhi» non è più detta, ma lasciata parlare e agire come in un teatro interiore. Qualcosa di inquietante, inconoscibile e oscuro richiama il lettore-spettatore sempre più dentro, verso zone inaccessibili, pervase da un’angoscia sottile, come in Inland empire di David Linch. Su ogni cosa che accade si proiettano i tratti di una fiaba nera, allucinata, dove l’orrore è allontanato, trattenuto sullo sfondo. Nei gesti quotidiani, negli interni domestici o di un albergo, vibra la stessa allarmante tensione che si addensa attorno a fatti traumatici (il ferimento con cui si apre il libro, un incidente in tangenziale, un ricovero in ospedale). Compaiono sulla scena riverberi di una stessa identità frammentata e smaterializzata: sagome elementari, incise nel bianco e nero, allucinazioni visivo-uditive, fanstasmi psichici. Non c’è una distinzione netta tra quelle che potrebbero apparire le figure principali (la donna bianca, la donna con i capelli neri, l’uomo ferito), il coro di donne che li accompagna e quella prima persona plurale, pulviscolare, che sembra vegliare e dirigere ogni cosa. Identità e fantasma, presenza e suo riflesso, sono intrecciati l’uno nell’altro. È come se lo schermo quotidiano fosse attraversato da una forte interferenza che pervade i normali canali percettivi e ci connette con dimensioni alterate, distoniche, a pochi millimetri dal dissolvimento dell’identità. Da qui probabilmente proviene la forte istanza ordinatrice che presiede al libro e che si esplica non soltanto nella calibrata e perfetta architettura compositiva, ma anche nella capacità di reggere i fili di questa rappresentazione, come in un teatro di burattini, o in una coreografia di movimenti immobili, di gesti essenziali e taglienti come nel teatro danza di Pina Bausch. Questo libro è a sua volta un appartamento o stanza, qualcosa di simile a una scatola cinese, dove una parete sorge e scompare all’improvviso, una stanza si chiude o si apre dentro l’altra, e non è possibile sapere cosa, come, quando, qualcosa può apparire o svanire. Mano a mano che procede la lettura la sensazione è quella di aggirarsi in una casa di specchi, in un labirinto dove non è possibile distinguere la realtà dalla sua distorsione. A tratti le pareti sembrano di membrana, come fossimo dentro alla mente di qualcuno che ci ospita insieme ai suoi fantasmi. A un certo punto, come nel film The others di Amenábar, ci ritroviamo dall’altra parte, tra le voci che premono, abitano lo spazio della nostra vita, della nostra mente. Forse ciò che siamo chiamati a fare è pronunciare il nostro nome per non esserlo. È proprio quanto accade tra la IV e la V sezione del libro, nel punto in cui la dinamica che lo governa raggiunge il suo acme e apre al suo scioglimento. Nella prima parte, un’enigmatica presenza plurale agisce su altre figure che vengono governate e accudite come in una casa di bambole. Questo esercizio di controllo avviene attraverso lo sguardo costante che lega il “noi” alle sagome di personaggi che si muovono e compiono azioni, inizialmente ignare del potere a cui sono assoggettate, dei confini della cella che li contiene. Quando arrivano a sfiorarne le pareti, il sistema inizia a entrare in crisi: «la donna nell’albergo si è accorta / che di notte sul letto la guardiamo». Lo schermo paralizzante è ormai infranto. Tra la donna e il “noi” si stabilisce un contatto. Questo comporta un’inversione di ruoli: la donna riacquista autonomia di voce e di movimento, mentre la presenza plurale viene relegata nella «stanza più lontana». È ormai chiara la stretta interdipendenza che vige tra queste ombre della psiche: a farle coesistere è la forza ad ampio spettro dello sguardo, che altro non è, in fondo, che la possibilità di mostrare una storia, di farla accadere davanti ai nostri occhi. Nella IV sezione che fin dal titolo dichiara il suo carattere di svelamento, Noi siamo qui, la presenza plurale si palesa nella sua funzione narrativa e nella sua essenza costitutiva: il centro del “noi” è un “noi due” indissolubile, un’identità binaria in cui vige un perfetto rispecchiamento simbiotico che ha la potenza di annullare entrambi, insieme allo spazio che hanno generato. Come nella Trilogia della città di K., a prendere parola è la voce di un’unità gemellare, infantile, di comunione perfetta. È questa la lingua del libro, una lingua capace di sostenere la pluralità e il dissolvimento del soggetto, da una salda presenza duale. Dalla Kristof Gallo ha probabilmente appreso anche il nitore gelido capace di avvicinare contenuti traumatici e dolorosi, con la precisione di una lente che raggiunge effetti stranianti.
Questo libro è un contenitore di storie narrate “per stanze”, fotogrammi immobili che si succedono secondo uno svolgimento non sequenziale. Sono storie dentro la storia, che si ripetono come un tema rimosso che torna ad affiorare, nonostante l’ostilità aperta o l’estraneità di chi si trova ad assistere al loro racconto, perché le parole hanno la facoltà di accadere, di occupare la scena, non diversamente dalle altre azioni e fatti presenti nel libro. Così nella prima sezione, dove l’uomo ferito sente la sua stessa storia e piange, fa a pezzi il giornale, chiude a chiave il coro di voci narratrici; così nella penultima, dove di fronte a una storia che torna per due volte a narrarsi, come cercando di avvicinare una verità, «la donna chiude la porta e ci dimentica», l’uomo «torna in cucina, accende la tv». Alla fine è proprio questa sordità, questa mancanza o rifiuto di destinatari della storia, che porta alla sparizione delle voci, al richiudersi dello spazio. La fine della possibilità di narrare coincide infatti con il riassorbirsi nelle pareti di questo “noi due” autore e regista della storia. Il libro è retto da una complessa costruzione pronominale: dall’impersonalità quasi oggettiva, da referto, delle prime sezioni dietro cui la prima persona plurale cerca di mascherarsi, assistendo impassibile allo svolgimento dei fatti, e garantendo l’esistenza dello spazio stesso dell’appartamento o stanza, fino al crescente coinvolgimento del “noi” nelle azioni e nella vita delle figure, all’emergere del “noi due” e al suo svanire lasciando che parli, nella sezione conclusiva, per la prima volta nel libro, un “io”. Come per il sovrapporsi di diverse lenti, ora miopi, ora astigmatiche, in questi testi finali i pronomi oscillano da una persona all’altra per arrivare, solo nei due testi conclusivi, ad assestarsi sulla prima persona che si relaziona a un tu. Questa pronuncia viene come dalla stanza più interna, che è contenuta e contiene tutte le altre: ha assorbito in sé l’indistinto unisono della prima persona plurale, il “noi due”, le voci bisbiglianti. Per questo è stata necessaria una «caduta» dentro se stessi, qualcosa di simile alla caduta dal balcone di una delle storie narrate; più che una morte sull’asfalto è però in realtà un abbandono per esistere, per raggiungere la propria voce, il proprio spazio di percezione. L’aria che alla fine esce dal petto è un respiro, una salvezza: l’uscita da quel luogo della mente che si era fatto claustrofobico.
La storia di cui parla questo libro è essenzialmente una storia di formazione, il dramma di una presenza che si afferma attraverso un percorso doloroso e allucinato. Per contenerlo Gallo ha costruito un congegno perfetto, lasciando l’opera a se stessa, alle sue voci-figure che governano da sole lo spazio. Perfino la Nota al testo conclusiva è infatti scritta da loro (e per questo va letta con la dovuta cautela, senza lasciarsi sviare, ad esempio, dalla facile chiave fornita, per cui ci sarebbero “uomini e donne che agiscono, ragionano, decidono, parlano con i loro fantasmi”). La straordinaria forza di attrazione di Appartamenti o stanze aumenta quanto più ci addentriamo in queste pagine, come se la scrittura, nella sua nudità fosse capace di addensarsi, di crescere in profondità, accogliendo le dimensioni di tutte le stanze che ci ha aperto. E forse proprio nell’ultimo testo, nel momento di congedarci dal libro, abbiamo la misura dell’energia che ci ha guidati. Immessi di nuovo in una stanza, non possiamo fare a meno di sentirla vibrare di presenze, di voci che si annidano e potrebbero scaturire da questo forte sommovimento interno che pervade ogni cosa, «un nuovo ordine di calamità» che ingiunge di abbandonare questo luogo, nonostante il «taglio vivo smarginato» del pavimento, e «tutti i vetri che ci parlano» come in un’ultima richiesta di ascolto, prima di scomparire. La tentazione è allora quella di voltarsi indietro e ricominciare, seguendo la corrente circolare che attraversa il libro: l’aria infine uscita dal petto, libera da ogni appartamento o stanza e riconduce sulla soglia, alla prima sezione, L’aria adesso.
Carmen Gallo, Appartamenti o stanze, d’if, Napoli 2016
*
Da L’aria adesso
L’uomo ha accompagnato il vetro
lungo una linea gonfia e verticale
il sangue si è rappreso in fretta
sul braccio lasciato staccato
dall’asfalto incerto delle luci
le voci sul fondo della piazza
fatta più alta dagli alberi tagliati
la testa reclinata sotto il peso
degli occhi aperti, abbassati
a cercare il bicchiere più vicino.
L’uomo urla e piange sotto di noi
da quel fondo che abbatte coi denti
ha voglia di vedere subito il conto
della città che crepa intorno
e noi seduti a misurare il vuoto
e l’ambulanza troppo vicina ai tavoli
lui ci guarda e ci chiama
mostra lenta la recisione
quelli lo prendono e lo legano
tra fili nudi e trasparenti.
C’è una donna che siede lì da dieci anni.
L’uomo con il vetro non l’ha mai visto.
Ha sentito la sua voce, ma la donna è bianca
e non riconosce le lingue e i giorni.
Non chiedetele perché sia lì.
La donna ha un ricordo preciso, e uno solo.
Questo le basta perché ha molti fili
e non vuole essere legata altrove.
La donna non vuole nemmeno parlare con noi.
L’uomo ha ballato e sudato
per tutto il tempo della festa
ha squarciato l’aria densa
di una stanza affollata
ha mostrato i denti e i passi
ha risposto agli impulsi
cadendo piano all’indietro.
La musica è alta, e la voce
non arriva a spalancare la finestra.
Tutti sentonola mancanza dell’aria.
Noisiamo in piedi a sostenere il soffitto
che è diventatosempre più curvo
e poi è caduto e ci ha raccolti
e siamo diventati pareti bianche
conchiglie con le bocche chiuse.
Da Noi siamo qui
Da quando siamo finiti nella stanza più lontana abbiamo cominciato a sparire, uno a uno. Se non possiamo guardarla non siamo più sicuri di esistere. Alcuni non ce la fanno, hanno paura, scompaiono. L’uomo che vive con lei ogni tanto apre la porta e prova a farci uscire. Ci chiede di nascosto di tornare, ma noi siamo soltanto incrostazioni nell’intonaco e non sappiamo come fare. Se lei non viene qui scompariremo. Ad aspettarla siamo rimasti solo in due. Non so se ci siamo scelti, so soltanto che mi somiglia. L’altro sente quello che sento io, vede quello che vedo io. Presto diventeremo una cosa sola e spariremo