L’autore a se stesso

di Giuseppe Felice Matteo Givanni (con un commento di Roberto Antolini)

 

 

L’è za na sfilza d’ani, che ‘l refles

D’esser prest vechio* m’avea fat desmeter     [*si legga: vecio]

Dal far versi ‘n la lengua del paes

E pena ‘n carta per esnsim de meter;

Perché quel che ‘ntum zovem no rencres,

Un vechio no se pol mai comprometer,

Che se ‘l lo fa, e orevesi, e saltori

A sentirlo no i diga: oh mat Bidori!

 

Ma come no l’è colpa de l’infermo

Quel so sbater de polsi, ma del mal,

Cossì, se de componer no me fermo

El pecà l’è tut quant del natural,

Natural che ve zuro, e ve confermo,

L’è ‘l sol ereditari capital,

Che porto da la vechia* me genia;     [*si legga: vecia]

Che chi de gata nasse sorzi pia**.

 

**NOTA dell’A.: “proverbio trito”

 

TRADUZIONE

È già una fila d’anni che il riflesso, d’essere presto vecchio mi aveva fatto smettere di far versi nella lingua del paese e persino di mettere penna su carta; perché quello che in un giovane non rincresce, un vecchio non se lo può mai permettere, che se lo fa, e orefici e sarti a sentirlo non dicano: oh matto (come) Bidori! [nome di un matto effettivamente vissuto a Rovereto, divenuto poi proverbiale nella cultura cittadina] / Ma come non è colpa dell’infermo quel suo sbatter di polsi, ma del male, così, se non smetto di comporre, il peccato è tutto quanto del naturale, naturale che vi giuro, e vi confermo, è il solo ereditario capitale, che porto dalla mia vecchia stirpe; che chi di gatta nasce prende topi.

 

Questo testo dialettale pressoché inedito[1] viene composto sicuramente negli ultimi anni vita del sacerdote Giuseppe Felice Givanni (Rovereto 1722-1787), ed è dunque attribuibile agli anni ’80 del Settecento. È una appassionata confessione del suo bisogno di scrivere ribadito dalla soglia dell’ultima età, ed una difesa della sua vocazione letteraria dialettale, di quel suo «far versi ‘n la lengua del paes», che l’autore fa risalire al suo «natural», cioè alla sua indole, che afferma – con gran consapevolezza personale e storica – essere «‘l sol ereditari capital, Che porto da la vechia me genia», cioè tutto quanto aveva ricevuto dalla sua storia familiare.

Giuseppe Felice Givanni vive nella fascia centrale del Settecento nella cittadina di Rovereto, geograficamente periferica – a sud di Trento, lungo la “via imperiale” fra Verona ed il Brennero – ma ricca, per il grande sviluppo della “arte della seta” (cioè della produzione serica), che vi fiorisce nel Sei- Settecento. Rovereto è in quest’epoca il principale centro di produzione serica dei possedimenti asburgici, ed esporta i suoi filati in tutta l’Europa centrale. Da questa attività produttiva e commerciale trae origine una locale borghesia, spesso agli inizi di origine immigrata – dalla Germania e dal veronese – che nel Settecento, dopo oltre un secolo di arricchimento, subisce un processo di acculturazione, ed emana dal suo seno un ambiente letterario ispirato ai principi del razionalismo arcadico-erudito, con punte che arriveranno alle soglie di una specie di riformismo illuminato, a cui si può forse arruolare, pur con molta moderazione, anche il Givanni. Lui proviene da una famiglia di piccoli imprenditori trasferitisi nella zona Rovereto (probabilmente dall’alto veronese, dove era molto diffusa la bachicoltura) a metà Seicento, per inserirsi nello sviluppo dell’industria serica che la zona stava conoscendo. La famiglia migliora la sua posizione generazione dopo generazione, fino al notevole successo economico, coronato verso il 1739 dall’acquisizione di un titolo di bassa nobiltà, di Giacomo Givanni (1665-1759), uno zio del poeta.

Giuseppe Felice Givanni è quindi un poeta di origine e cultura boghese (anche se lui personalmente non sarà mai ricco). Ma proviene da una borghesia “ruspante”, che si da un gran da fare: impianta filatoi per la seta, forni e cartiere, inseguendo con le unghie e con i denti la ricchezza e l’affermazione sociale. È una origine borghese che il nostro poeta sente ancora immersa nella vita popolare, e la sua “scelta dialettale” usa il dialetto per fondare una sua identità letteraria solidamente impiantata nella cultura popolare, lontana dalla ambizioni – per lui evidentemente astratte – di quei «siori» che «com pu che i vol parlar en quincis quancis, tant pu i casca ‘n tel bazzom»[2] [quanto più vogliono parlare in quincis quancis – in modo affettatamente raffinato – tanto più cascano nel secchio-pozzanghera]. Nella premessa al manoscritto autografo in cui è raccolta tutta la sua produzione (che viene conservato presso la Biblioteca Capitolare di Verona) afferma, parlando scherzosamente a/di sé stesso «voi se ‘l vero retrat dei vossi antichi Noni, e Barbi, i quai s’ha sempre segnalai co le so bizarie e facecie. Oh! Se quei fus ancora al mondo, che legrezza no avariei a vederve voi, che avè mes en rima pu de una de quele stesse lezarie, che quando ere ‘n fraschet grand come‘n zom, tegnantve tra i zinochi, i ve conteva su, e voi steve lì con na spanda de boca atent a scoltarle?»[3] [voi siete il vero ritratto dei vostri antichi nonni e zii, i quali si sono sempre segnalati con le loro bizzarrie e facezie. Oh! Se fossero ancora al mondo, che allegria ne avrebbero a vedere che voi avete messo in rima più di una di quelle stesse leggiadrie, che quando eravate un ragazzino grande come un birillo, tenendovi tra le ginocchia, vi raccontavano, e voi stavate lì con una spanna di bocca attento ad ascoltarle?]. Givanni si sente erede di quelle «lezarie», cioè della cultura popolare dei suoi avi, ed usa la sua attività letteraria per traghettarle nella cultura scritta nella loro lingua naturale, il dialetto. Anche queste nostre «strofe» terminano con la trascrizione all’interno della poesia di un «proverbio trito», quel «chi de gata nasse sorzi pia» che troviamo drammaticamente documentato nella zona di Rovereto già nel secolo precedente: era servito infatti in un seicentesco processo alle streghe tenuto in un paesetto di fronte a Rovereto (Nogaredo), per incriminare una sventurata diciasettenne, figlia di una madre già precedentemente incriminata e torturata.

 

NdA: Una delle novelle in versi dialettali di Giuseppe Felice Givanni la si può trovare in rete all’indirizzo:

http://www.carloromeo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=215:la-novela-dodese-1752-di-g-f-givanni&catid=9&Itemid=107

 

 

 

 

 

 

il palazzo Pizzini, a Rovereto, dove Givanni ha vissuto negli anni ’50 e ’60 del Settecento

 

[1] È stato pubblicato da me, ma en passant all’interno di un articolo di storia: Roberto Antolini, Origine familiare e condizione sociale del sacerdote roveretano Giuseppe Felice Matteo Givanni, poeta dialettale (1722-1787). In “Studi Trentini. Storia”, A.92 (2013) n.2, p. 432

[2] Roberto Antolini, La ‘Musa Sgrovia’ di Giuseppe Felice Givanni, In “Atti della Accademia Roveretana degli Agiati”, s. 9, vol. 4 (2014), fasc. 1, p. 23

[3]  Idem, p. 23

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3 Commenti

    • a dir la verità bisogna ringraziare Roberto Antolini (che per tanti anni è stato bibliotecario al MART di Rovereto), e lo faccio anch’io!

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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