Tredicesimo quaderno italiano
Agostino Cornali
È il respiro del drago Tarantasio Chieve
che fa tremare le persiane
nelle notti di febbraio
e sulle barche che solcano il lago
i nostri antenati longobardi
si alzano in piedi, tremanti sulle prue,
le spade e gli scramasax in mano
guardano la testa crestata del mostro
che emerge lentamente dalle acque,
i suoi occhi accesi nella nebbia
le fauci spalancate
e allora divampa
il fuoco sulle torri
dei castelli di pianura
e il pianto dei bambini risuona sulle coste
da Fara Gera d’Adda ad Acquanegra.
Di quel lago maledetto
che dà il nome alla tua via
è rimasta una piccola pozza
che non riesce ad asciugare
in un campo di frumento.
Ma tu, nel sonno, continui a tossire.
*
Ogni venerdì pomeriggio di vent’anni fa Mozzanica
mio padre guidava sul fondo del lago,
attraversava questi luoghi prosciugati
in ogni paese scendeva dall’auto
ed entrava nei bar
nelle farmacie, negli uffici postali
fermava persino i passanti in bicicletta
chiedeva a tutti del mostro,
voleva la certezza
che il drago fosse morto
un giorno incontrò quest’uomo
mezzo addormentato sotto il campanile
che adesso a ogni ora del giorno
con gli occhi semichiusi
osserva le auto che risalgono la strada
forse gli parlò anche di me
perché quando rallento per fare la curva
quest’uomo che mi aspetta da vent’anni
mi fissa, mi riconosce
un sussulto scuote
il suo torpore d’annegato.
* *
Claudia Crocco
ad A. e a M.
«Ma così uscirà solo il prossimo anno».
Non ci prenderanno. Lo sappiamo
mentre cerchiamo coraggio mentendo
sulle scale bianche della cattedrale – gli occhi di lei
verso la fontana maggiore, la tua sigaretta
aspirata con l’ansia prima di un derby.
Ci guardiamo, e non serve
chiedercelo ancora: qui nessuno di noi
non abbiamo voglia noi di tornare
nei corridoi sporchi, i bagni senza lavandino,
gli altri candidati, i loro dossier in carta lucida.
L’attesa del colloquio ha molti segni
sui pori della pelle e nella saliva acida
sprecata davanti ai distributori del caffè
a parlare di luoghi e libri
che non ci riguardano, ma che ci misurano.
Eppure una tregua armata di tre anni
va difesa con graffi e morsi di righe
sul curriculum.
Cosa farai tu.
Aspetterò i nuovi bandi, il prossimo anno
cercherò di andar via, servono
un certificato di lingua e –
non ha ancora un piano lei, mi chiede
dove vivrò io.
«Dai miei non ci torno».
Non è l’assenza di un destino
non ci preoccupa realmente –
ma è non poter difendere
neanche i pochi attimi di ora, gli incontri
e le vite separate scanditi dai giorni
le offerte Ryanair.
«No, non è questo. È il nome di mio padre sul display
il ventisette di ogni mese. Si è fatto tardi»- schiacci la sigaretta
sul gradino plumbeo dove siamo sedute noi
quasi con violenza. A lungo evitiamo di guardarci.
III.
Sapevamo che non avremmo scelto, ma
ora non sappiamo muoverci, ci manca
un’idea di spazio –
galleggiamo in questa piazza lattea, le strade strette
su ogni lato, senza cartelli e senza
una geografia nota. Non ci sono mappe
né leggi sul quadrato – le caselle impazzite.
Non ci conosciamo mai. Ma resiste
qualcosa nella tua mano tra i miei capelli,
con lenti gesti sgombri le spalle – o nei suoi
piccoli sorsi alla bottiglia di the verde,
me ne lascia metà.
Siamo pedoni impazziti
e per un caso vicini per un attimo.
«Lo so. Voglio soltanto – volevo essere più brava».
«Non cambia niente».
Calpesto una formica, guardo le altre intorno salve
per oggi. Ci muoviamo anche noi,
cerchiamo a lungo un’edicola, poi torniamo indietro,
prendo un altro caffè, raggiungiamo le stanze del colloquio.
Poi il treno, che di nuovo
rende tutto più decente e, allontanandosi, ci allontana.
***
Antonio Lanza
Si diffonde più tardi la notizia
di due rumeni sorpresi a rubare
portati via in manette dai carabinieri
della compagnia di Paternò.
Si passano il racconto gli avventori
al bar, ne discutono a braccia strette
al petto, con gravità, le commesse
davanti ai negozi:
sembrano incresparsi
le acque, irrancidire gli umori, sembra
disperdere Etnapolis l’allegria
nello scolo – ma non insiste più di
tanto la memoria, dura i minuti
esatti di permanenza, e neanche
quelli: poi le pieghe si appianano,
nuovi apporti disperdono i vecchi,
e torna uniforme la tavoletta.
***
Franca Mancinelli
da Pasta madre (Nino Aragno, 2013)
un colpo di fucile
e torni a respirare. Muso a terra,
senza sangue sparso.
Cose guardate con la coda
di un occhio che frana
mentre l’altro è già sommerso, e tutto
si allontana. Gli alberi
si piegano su un fianco
perdono la voce in ogni foglia
che impara dagli uccelli
e per pochi istanti vola.
*
cucchiaio nel sonno, il corpo
raccoglie la notte. Si alzano sciami
sepolti nel petto, stendono
ali. Quanti animali migrano in noi
passandoci il cuore, sostando
nella piega dell’anca, tra i rami
delle costole, quanti
vorrebbero non essere noi,
non restare impigliati tra i nostri
contorni di umani.
*
padre e madre caduti
frutti che non potevano
marcirmi attaccati
mentre nudo imparavo
a reggere il cielo
come un uccello sul dorso, lasciando
campi e case affondare.
L’azzurro torna
a coprire la terra. Trattengo
nel becco il ricordo,
il seme che sono stati.
***
Daniele Orso
Sessant’anni e son sessant’anni di morte
Sulle spalle. Più morte che vita
Addosso. Pensieri impastati alle
Figure di morte portate con orgoglio.
Queste case e questa più di altre
Queste stanze che risuonano di morte
Queste pietre già calpestate in altre
Messe passate, vite, vie, acque spante.
Una frattura, dentro, dentro la casa
Limite alle ombre, linea che percorre
I vetri, i muri, il legno, le ossa, la carne
Si screpola lentamente e crolla la casa
Crollano i muri, le tegole, la gronda che corre
Attorno si decompone, così come ai morti
Si decompone sulle ossa la carne.
I ROMANZI
Rosso è il cuore e in basso
Sta a sinistra, scriveva Saba.
La letteratura è sempre di destra,
Chiosava Pier Paolo.
La verità è che i romanzi
Sono sempre così pietosamente
Ostili alla ragione:
Che succedeva a Dachau, Dachau-paese,
Mentre poco distante l’Essere
Scompariva nei forni del campo
E l’Agnese andava pedalando,
Come fosse niente, a morire?
***
Stefano Pini
Premono i pesi sul petto,
le ore sulla sera e noi a frugare
lavori che non esistono più,
un tempo del tempo per cui siamo
qui tra le cime e i fontanili. Ci sono
camicie e anelli e denti a ciascuna finestra
i ritorni di chi ha stretto un patto
con i corpi e le fabbriche.
Quello per cui restiamo
e rimane dopo di noi.
***
Jacopo Ramonda
Cut-up n. 9
Quando mi hai invitato a passare da te per prendere un caffè e parlare di quello che è successo, ho tirato un sospiro di sollievo, ma ora che siamo seduti al tavolo non riesco a raggiungerti, a scavalcare la tua indifferenza. È una barriera trasparente, velata da un sottile strato di condensa e intuizioni a cui non ho accesso. C’è una calamita che attira la tua attenzione. Per tutta la sera i miei alibi rimbalzano su di te, come se fossi fatta di gomma, e cadono a terra, formando un mucchietto sul pavimento.
Mentre mi accompagni alla porta, alzo lo sguardo: il soffitto è una nuvola nera, carica di pioggia e presagi. Dopo averti salutata con un abbraccio, mi volto e scendo la prima rampa di scale lentamente, sentendo la porta che si richiude alle mie spalle; poi mi siedo su un gradino e ti spio dalla mia immaginazione. Sei tornata in cucina, hai aperto l’anta sotto il lavandino per prendere una paletta. Con la scopa raccogli il mucchietto che si è formato sulle piastrelle e lo versi nella stufa. Poi fai un passo indietro e ti appoggi al tavolo, soffermandoti con lo sguardo su un punto imprecisato davanti a te, prima di spegnere la luce uscendo dalla stanza.
Una distanza relativamente breve (cut-up n. 134)
Nonostante la distanza che la separa da quel periodo sia ancora relativamente breve, i grandi cambiamenti affrontati da L. dilatano il tempo trascorso, dandole l’impressione che quegli eventi appartengano ad un passato remoto, totalmente superato. In quel periodo sentirsi sopraffatta era diventata un’abitudine; il silenzio era l’unica reazione di cui si sentiva capace. Sostanzialmente si stava esercitando a scomparire, in una sorta di prova generale della sua morte. La consapevolezza di indugiare troppo a lungo sulle occasioni sfumate serviva solo ad abbatterla di più, facendogliene sprecare di nuove, e rendendo l’impasse sempre più difficile da superare. Quando ci ripensa, L. si sente davvero grata di essere riuscita a chiudere quel capitolo. Il sollievo non è tuttavia sufficiente a renderla immune alla nostalgia, una nostalgia appena accennata, ma comunque percettibile, nei confronti di quelli che considera gli anni peggiori della sua vita. Di tanto in tanto le manca quel senso di mancanza, e ha il sospetto di essere diventata indifferente. A volte teme che il suo ritrovato benessere provenga da una perdita di sensibilità, come quando ci si addormenta su un braccio.
*
Testi tratti di Poesia contemporanea. Tredicesimo quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni, Marcos Y Marcos, Milano, 2017.