Rovine al tramonto
di Danilo Laccetti
Quando Čechov non sparò. Da Ivanov al Giardino dei ciliegi fa sempre la sua comparsa, autentica primadonna, una rivoltella; quattro volte su cinque spara, incidendo il corpo del racconto, ma, quando spara, non fa mai la sua apparizione in scena prima. L’ultima volta, per l’appunto al secondo atto del Giardino, viene addirittura esibita con ostentazione; il personaggio, Epichodov, dice di portarsela dietro per ogni evenienza (l’evenienza di un suicidio); non la usa e la rivoltella, citata dunque dall’autore con scoperta ironia, s’inabissa.
Proprio come Čechov quando decise di non sparare più, così avrebbero voluto fare anche loro: mostrare la rivoltella, senza usarla.
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Quasi quarant’anni s’erano succeduti; decenni, dove, perse le tracce altrui, ciascuno aveva seguìto il sentiero che gli eventi, e le proprie azioni, avevano anno dopo anno disegnato. Cercandosi si ritrovarono; ritrovatisi, vollero una frequentazione non sporadica, per lo meno una volta a settimana. Ricordare: le lontane stagioni percorse insieme, brevi ma intense, quando l’impenetrabile non è altro che il futuro nel suo farsi quotidiano, nel suo divenire ancora giovane, vivo.
Rievocano, i tre, gli amici morti da un pezzo, altri persi chissà quando, chissà come, quelli diventati bei nomi del teatro, nomi che oggi contavano, molto; così fu che decisero.
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L’età dei tre, sommata, passava di slancio i due secoli, eppure conservavano, non intatto, no, perché ferito e logorato dalle piaghe e dal disincanto, ma comunque ancora genuino, l’entusiasmo di una volta. La “volta” in questione dipanava, all’ingrosso, la metà degli anni ’60 e buona parte del decennio successivo; la compagnia degli ebbri salpò a Roma da una cantinaccia muffita e carica di crepe sotto la pancia antica di Testaccio, in mezzo a baraccati, carcasse d’auto, cani a mordere sporcizia; una navicella teatrale sgangherata e tetra, pare uno sconcio budello, l’antro malsano di Polifemo ma dentro, invece, ha un’anima di nido che accoglie e non condanna, nuova famiglia rivelata non dal sangue, ma dalla passione comune, dal medesimo bisogno; da lì, navigando sempre a vista, interrompendo spettacoloni al Valle come i galà del festival di Spoleto (quante sirene di questura, reumatismi, tutto quell’umido che pure calamitava studentelli e madame d’alto ceto sotto braccio a corpulenti, titolati intellettuali), affilando più di un cartellone assieme a gran copia di applausi a scena aperta, strabilìo di recensioni in mezzo al pruriginoso storcere di molti nasi, camminarono “furenti sopra i crepacci”, amavano dirsi; dietro ogni angolo un naufragio, debiti e denunce pane quotidiano. Gli anni, felici e ardimentosi, li spiumarono di molti compagni di viaggio; chi smarrì la strada e il senso, parecchi passarono presto al caldo di migliori banchetti, qualcuno comprese con naturale anticipo d’essere invecchiato. L’ultima estate, l’estate in cui dissiparono, fu senza rumore, come Roma al suo tramonto; rovinarono già alla terza replica. Spegnersi senza strepito: destino di fuoco acerbo ma accesissimo.
Ignorante, sincera giovinezza, tu che senza sapere fai le cose che vecchio saprai senza poter più fare, tutto ciò che c’era da dire, consacrare, maledire, tu l’hai detto, l’hai fatto, consacrato, maledetto.
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Valeriano, Folco, Patrizio. Capo del gregge, ai tempi, il primo; gli occhi e il respiro, la voce e i gesti carichi ancora di fame, mani enormi a fronte di un corpicino sghembo e asciutto, più degli altri aveva opposto resistenza all’empietà del tempo, ai ripetuti suoi crepuscoli; l’Oriuolo, nemmeno cento posti, un palco stretto dalle arcate di fondazione d’un palazzo aristocratico, glielo espropriarono quattro anni prima. Rese ai capricci dello spirito la sua cera istrionica, Folco; fingere, diceva di continuo, che esercizio sfiancante, beffardo; di più: perverso. In Umbria occupò un casale diroccato, per anni vi costituì la sua comunità di cercatori d’anima; quali e quanti gutturali, ossessivi borbottii, in coro certi lamenti la sera nell’anfratto d’una vecchia stalla, fra lezzi di incenso, acri sentori di tè alla menta. Distante dal conforto di una pensione quale che sia, oggi calcinava le mani, i calli facendole di cuoio, come manovale in cantieri di poca pretesa. Patrizio, timoroso una volta, impacciato, al presente balbettante, tempie, guance, mani a cacciare sudore pure di gennaio fierissimo, dopo aver accomodato bozzetti e schizzi scenici in una soffitta di famiglia (dove, pungendolo certe vaghezze, si rinchiudeva, notti intere spesso, morta l’anziana madre da basso), progettava, con buona soddisfazione di chi ne usava, camerette per bambini, seggioloni votati alla migliore confortabilità, culle così poco usuali.
Furono scelte le “vittime”: quei lontani amici, affetti oggi d’amnesia, alquanto sgarbati con il proprio passato: F.C., G.T., S.M.
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Le lettere andavano, molestavano. Per carità, la minaccia di morte essendo nient’altro che sciocco pretesto, sipario levato per l’acconcia operazione di svelamento: io ricordo, io so, caro ex-amico, e lo dico, lo dico ad alta voce. Già: la medesima lettera finiva per bussare all’uscio di molti conoscenti, colleghi; i più novizi di tanto trascorso; viceversa per comune sodalizio dimentichi.
Rovine al tramonto, la firma che vi apposero.
Chi, allettatosi con l’anziana moglie del suo barone d’università, s’era procacciato un solido feudo da critico teatrale di gran censo ma di scarsa equanimità (per i tamburini giustizia sommaria, senza cuore; alle grancasse cerimonioso, tutto miele); chi, avendo degustato con palato sopraffino contributi elargiti ora dalla generosità democristiana, poi socialista, talvolta puranche comunista, aveva rudemente spintonato amici fraterni, ancora lì a sindacare finanziamenti e progetti, nelle segrete stanze bell’e varati; chi aveva riscontrato come prestare il proprio nome a iniziative mai effettuate, eppure opportunamente dotate di ponderoso vettovagliamento, non fosse poi menzogna così amara (anzi, una volta deglutita, la si poteva di tanto in tanto rimasticare, giacché la verità spesso è più penosa della remissione di un debito assai indigesto).
Con evidente gusto dei tre la cosa procedette; calunnie, le chiamassero pure calunnie, ma quel “veleno” s’era fatto notizia e correva con dignità tale da interpellare la memoria, simulacro assai insidioso se lo si provoca.
Alla fine la sorte; quando si mette a ghignare.
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Mentre in ciabatte, sul ciglio della strada, si relazionava pensoso con cassoni di varia immondizia, l’improvvida corsa di un’autovettura, il cui timoniere pensò bene di preservare l’anonimato a tale sbadataggine, falciò la vita di F.C. È pur vero che un testimone ebbe a notare come la medesima macchina, alla vista del famoso critico e romanziere nell’atto di accasare avanzi di carote, fondi di caffè, cartame e flaconi allegramente colorati, rombando i motori, avesse deciso di marciargli contro a briglia sciolta.
Una manciata di giorni e la suprema falciatrice si prese cura anche di G.T.: cardiopatico di quelli ostinati, lo spavento, che in casa dovette ricevere quando qualcuno gli fece visita, fu tale che una sciabolata elettrica nel petto glielo slogò, il cuore; e il sangue, sfarfallato che ebbe un poco nell’aorte, nell’arterie e per le vene, tacque; freddo, improvviso marmo. Certo è che misteriosa rimase la visita che gli aveva travasato in corpo una gioia così smodata; smodata al punto che da astemio, quale era diventato per virtù dogmatica dei camici bianchi, l’autopsia scandagliò che di Bacco non aveva fatto alcuna penitenza: un’arditissima bisboccia aveva sconsacrato tutti i bei propositi con cui sotterrò la sua pregressa carriera di devoto bevitore.
S.M. depresso? Non pareva proprio a nessuno; fino a quando lo pescarono nel Tevere, livido, turgidotto, un incartoccio rossissimo, purulento, la lingua a penzoloni fin sul mento; con delle coscette tanto rinsecchite, ma tanto; l’otre del suo ventre ancor più strabordante. Depresso, dunque; e i depressi in quanto a volontà, è noto a tutti, fanno difetto. Forse in ragione di ciò, corroborato il suo proposito, vi si legò, a quella decisione, con l’ausilio di cordicelle ben strette attorno ai polsi, e tra le caviglie.
Alla notizia del primo decesso gioirono, le rovine al tramonto. Sopraggiunta la seconda, il sorriso veniva portato in giro da una tormentosa inarcatura delle labbra; labbra che subito dopo appassivano, chiuse; corolla maltrattata da una luce sinistra. La terza morte li ghiacciò: sudori, notti insonni, per i marciapiedi, nelle piazze certi scantonamenti, così celeri. Con gli occhi cercando di sgusciare l’altro, sempre più cacciavano, nei loro incontri ora furtivi, espressioni preoccupate, velate di tristezza; giorno dopo giorno più torve. Denunciare alla questura la loro corrispondenza con i defunti? Scusa non richiesta, accusa manifesta. Ma se uno dei tre, senza dire nulla agli altri, oppure due d’intesa all’insaputa del terzo, per giunta ciascuno singolarmente, per proprio conto, se avessero potuto, avessero deciso…impossibile, impossibile e basta!
Radi, sempre di più, i loro appuntamenti; telefono silente per settimane; domicilio fatto impenetrabile a qualsiasi scampanellata. Come si erano ritrovati, così si smarrirono nuovamente. Stavolta per sempre.
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Mesi dopo, le indagini ancora in corso, a un convegno in Campidoglio sulle sorti del teatro, ove si chiamò a raccolta l’intera “chiesa”, ortodossi e eretici, freschi e stagionati, brillanti e logori, latifondisti e braccianti, patrizi e plebei, si iscrisse a parlare Valeriano. Chiamato al microfono nell’immediata ripresa dei lavori dopo il pranzo, in pochi lo riconobbero, travagliati molti da una frettolosa digestione forse; s’erano persuasi, a dire il vero, d’aver letto, anni e anni prima, da qualche parte, non ricordavano più dove, lo sbrigativo annuncio mortuario che lo riguardava.
L’esordio, le parole sospese, quasi stirate come dettava la sofferenza di una battuta assai poco teatrale, fu questo: «La loro morte mi ha rattristato. Mi spiace che siano morti. Per lo scempio del teatro che hanno fatto, loro come molti altri, meritavano l’ergastolo non la pena capitale. Una vita in galera, non la comodità di una rapida uscita di scena».
Per un’ora, un’intera ora, gli occhi inchiodati addosso, Valeriano parlò, e sceso giù in sala, continuò a parlare, parlare fino a sera, mai fermandosi.