I don’t, honey. James Baldwin/Audre Lorde
di Jamila Mascat
A dicembre del 1983 James Baldwin (JB) e Audre Lorde (AL) si ritrovano all’Hampshire College di Amherst (Massachussetts), dove Baldwin insegnava all’epoca. Discutono di cosa significa essere uomo e donna in quel “territorio occupato” che è la vita quotidiana degli afroamericani negli Stati Uniti (JB: That is really what the Black situation is in this country). Parlano di colpe e responsabilità (AL: Jimmy, we don’t have an argument. JB: I know we don’t). Non sono esattamente d’accordo su tutto, anzi: si interrompono (soprattutto Lorde), si contraddicono (soprattutto Lorde), ma convengono della necessità di riconoscere quel che li unisce e quel che li separa (JB: Differences and samenesses. AL: Differences and samenesses […] When we deal with sameness only, we develop weapons that we use against each other when the differences become apparent).
La conversazione, che dura cinque ore, viene registrata e poi trascritta. Un estratto (delle oltre settanta pagine) del testo dattiloscritto sarebbe stato pubblicato un anno dopo (dicembre 1984) sulla rivista Essence (un fashion magazine creato nel 1968 e destinato al pubblico femminile afroamericano).
L’articolo si intitola Revolutionary Hope: A Conversation Between James Baldwin and Audre Lorde.
Qui sotto la traduzione di un estratto. Il resto si può leggere qui.
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JB: Uno dei rischi che corri a essere un Americano nero è quello di diventare schizofrenico, e dico proprio “schizofrenico” nel senso più letterale del termine. Essere nero in America significa per certi versi venire al mondo desiderando di essere bianco. E’ parte del prezzo che si paga a nascere qua, e riguarda qualsiasi persona di colore. Ripensiamo al Vietnam. Ripensiamo alla Corea. Ripensiamo, per questo, anche alla Prima Guerra Mondiale. E ricordiamoci di W.E. B. Dubois – uomo magnifico e di tutto rispetto – che si era impegnato a convincere i neri a combattere durante la Prima Guerra Mondiale, dicendo che se avessimo combattuto questa Guerra per salvare il paese, il nostro diritto alla cittadinanza non sarebbe più stato rimesso in discussione. E chi può biasimarlo. Ci credeva davvero e probabilmente se fossi stato al suo posto, all’epoca, forse avrei detto la stessa cosa. Du Bois credeva al sogno americano. Come Martin [Luther King]. Come Malcom [X]. Come me e come te. Ecco perché siamo seduti qui.
AL: Io non ci ho mai creduto, tesoro, mi dispiace. Non posso fare finta di niente. In fondo lo so che quel sogno non è mai stato il mio. E ho pianto, gridato, lottato, tuonato, ma lo sapevo. Ero nera. Ero donna. Ed ero ovviamente fuori – fuori – da qualunque configurazione di potere. Se volevo andare avanti, dovevo farcela da sola. Nessuno mi aveva incluso nel sogno. Nessuno si interessava a me, se non come a qualcosa da spazzare via.
JB: Vuoi dire che tu non esisti nel sogno americano, se non come incubo.
AL: Esatto. E me ne rendevo conto ogni volta che leggevo Jet [The Weekly Negro News Magazine]. Ogni volta che aprivo una scatola di Kotex [assorbenti interni]. Ogni giorno che andavo a scuola. Ogni volta che sfogliavo un libro di preghiere. Me ne rendevo conto, lo sapevo e basta.