Dora Pal e l’inquietudine

di Daniele Barbieri

 

La poesia di Ida Travi mi rende inquieto. Leggendo Dora Pal. La terra, sua raccolta appena uscita, nella quale si continua il discorso iniziato tre libri prima, dando voce ai personaggi di un mondo che non esiste ma nonostante questo esiste, leggendo Dora Pal si ha al tempo stesso la sensazione di capire tutto e di non capire quasi niente, come se un’apparenza di facilità, di semplicità quotidiana, rivelasse in realtà una sorta di abisso di cui non si scorge il fondo. Ho vissuto, nel leggere in sequenza la serie di componimenti che costituisce la raccolta, la singolare esperienza di un etnologo che si trova di fronte a una cultura stranamente familiare e al tempo stesso sconosciuta, come un Ernesto De Martino nella sua terra del rimorso, alla ricerca di configurazioni che fossero in grado di darmi ragione di quei comportamenti così intimamente diversi, però anche stranamente familiari.

Ma il piccolo mondo dei Tolki, il popolo immaginario cui pure la vecchia Dora appartiene, è già all’origine una creazione letteraria, creata apposta per produrre nel suo lettore un’irriducibile sensazione di spaesamento dentro il consueto, dove lo schema esplicativo rassicurante applicabile dall’etnologo in qualsiasi terra del rimorso non può essere davvero applicato. E il lettore è condannato a rimanere lì, appeso a questa identità che è insieme un’alterità, a questa oscillazione tra l’altrove e il qui.

Intanto, dunque, le parole. Le parole di Ida Travi sono semplici, quasi banali, anche nel loro fare riferimento spesso a temi del poetichese più trito: la luna, il cuore, il bambino… Ma il poetichese, il lirismo d’accatto, la banalità delle parole che la poesia non sopporta più perché le ha sopportate troppo in passato, qui è già svanito quando queste parole entrano nel gioco, con un particolare effetto di straniamento che permette incredibilmente di recuperare quello che sembrerebbe irrecuperabile.

Questo mi interessa capire: che cos’è che permette a queste parole consumate di riprendere in maniera quasi spaventosa la loro forza?

Può darsi che la ricerca di una risposta possa partire da un’analisi dell’io lirico. Dora Pal, il nome di donna che costituisce il titolo dell’opera, è anche il soggetto dell’enunciazione di tutto quello che viene detto, poesia dopo poesia. Una strategia di tipo teatrale, indubbiamente, che mette fuori gioco l’io lirico tradizionale, emanazione del poeta, e se non basta di per sé a ridar senso alle parole consunte, tuttavia certamente aiuta: non sono, quelle parole, infatti, emanazione della proiezione dell’autore, ma testimonianza della voce di una persona umile, ingenua, appartenente a una cultura che non ha ancora vissuto la consunzione del linguaggio poetico, e che – lei – non sa nemmeno di stare esprimendo in poesia. La poesia sta piuttosto nel modo in cui le sue parole vengono trascelte tra le tante, fatte uscire per un attimo dall’ombra in cui sembrano vivere, e recuperate a noi. La poesia sta nel senso di familiarità e distanza che questi frammenti di discorso ci evocano.

Non manca molto allo scadere del secolo dagli anni in cui Federico García Lorca cercava di dar voce all’epica popolare con il suo Romancero Gitano. In quelle poesie indimenticabili, García Lorca compiva un’operazione simile, spostando l’io lirico al di fuori di sé, dando voce alla voce del suo popolo mitico. Ma García Lorca, ragione o meno che avesse, poteva davvero pensare che il suo popolo esisteva, e che persino i suoi lettori potessero riconoscersi come sua parte. Si trattava di risvegliare un’identità culturale dimenticata, quella di Góngora e di Lope de Vega, traduttori colti di uno spirito popolare, ma anche, tre secoli prima di loro, quella del Romancero e del Cancionero, le raccolte di versi anonimi medioevali con cui ha origine la poesia spagnola.

Questa pretesa non esiste nella poesia di Ida Travi, e nemmeno avrebbe senso. Della cantabilità straordinaria, del duende dei versi di García Lorca, qui rimane solo una sfarfallante incertezza, un baluginare di inquietudini. Mentre quello di García Lorca è un nuovo Romancero, in cui il poeta si fa voce di un canto che è comunque sin dall’inizio corale, e come tale continua a presentarsi, qui la voce di Dora Pal non canta affatto, limitandosi a parlare a chi le sta intorno (non direttamente a noi), esprimendo i suoi crucci e implicitamente la sua visione delle cose – però implicitamente, cioè come si fa con chi già la condivide, e non esplicitamente, come va fatto con chi non la conosce.

Da qui l’effetto dominante di un discorso che ci arriva come colto dal buco della serratura, quasi spiato da fuori, proprio come – appunto – potrebbe arrivare a un etnologo, che non è parte della comunità che sta studiando (che sta spiando). E anche l’effetto poetico sembra sortire quasi di nascosto, quasi di sorpresa, come fosse non voluto dalla voce di chi parla. È probabilmente anche questo a renderci così facilmente tollerabili, a renderci – nonostante tutto – così veri quei termini tanto consunti: è che la poesia, qui, non si fa attraverso di loro. Essi appartengono all’eloquio quotidiano di Dora, al suo rivolgersi a Zet, a Kiv. La poesia è come se venisse fuori, ancora implicitamente, dalla sorpresa per la coincidenza tra questa piccola retorica del quotidiano (le ripetizioni, gli anacoluti, gli accostamenti analogici…) e la retorica alta della poesia, due dimensioni differenti che i versi di Travi ci fanno scoprire perfettamente sovrapponibili – così che ciascuna fornisce all’altra una dimensione diversa, e il quotidiano diventa poetico, e il poetico si immerge nel quotidiano. Ma al tempo stesso questo quotidiano così poetico non è esattamente il nostro, e neanche quello dei nostri nonni (che pure, qua e là, sembra poter essere), bensì un’ordinarietà che non smette di essere aliena, magari proprio per il suo essere implicitamente così poetica.

Del resto, lo straniamento dell’io è un fenomeno che abita la poesia di Ida Travi già da prima dei quattro (sino ad ora) libri che costituiscono la saga dei Tolki. Magari la voce esterna che parla nelle poesie, per esempio, de La corsa dei fuochi non ha un nome preciso come qui, e nemmeno un contesto così definito, con degli interlocutori precisi, anche loro dotati di nome; però è già una voce altra, che parla da fuori, la voce di personaggi – personaggi che, peraltro, non hanno che quella voce, che sono definiti solo da quello che dicono, però esterni all’io del poeta, proiezioni quasi teatrali, estraniazioni.

Ma, a sentire la stessa Travi, la prospettiva di estraniazione si troverebbe già nell’essenza della poesia. Ne L’aspetto orale della poesia l’origine della vocalità poetica veniva tentativamente individuata nelle sonorità del rapporto tra il neonato e la madre, cioè nel rapporto tra qualcosa che non è ancora un soggetto e qualcosa che ha momentaneamente (e parzialmente) rinunciato a esserlo per entrare in sintonia col bambino. La voce della poesia è quindi fuori dal soggetto, gli preesiste. Non ne deriva; semmai contribuisce a formarlo.

Forse è proprio perché abita questa dimensione conturbantemente pre-soggettuale, che la poesia di Ida Travi non smette di inquietarmi, di proiettarmi in un altrove che non capisco bene dove sia, sebbene evidentemente non lontano.

 

***

 

Da Ida Travi, Dora Pal. La terra, Bergamo, Moretti & Vitali, 2017

 

 

Chi sono i Tolki? I parlanti. Per slittamento sonoro e di senso dell’antico verbo all’infinito ‘to talk’.

Esseri sacri e miserabili, misteriosi e semplici.

Penso a un Tolki come a un parlêtre, un essere marchiato dal linguaggio. Parlêtre è un neologismo di Lacan che fonde l’essere al linguaggio, nell’atto della pronuncia. Vedo i Tolki come lavoranti o non lavoranti, esseri che nello scontro con la poesia assumono su se stessi il peso d’un linguaggio povero, duro come una colpa, leggero come una liberazione.

 

Ida Travi, Il mio nome è Inna

 

*

 

Lo vedi se sollevi il piatto
è sotto la tovaglia, sotto lo zerbino

 

Ma tu non alzi lo zerbino, Zet
hai paura?

 

Cosa ti spaventa di più
la tempesta o lo zerbino?

 

– Zet, dillo! –

 

Scalpita il cavallo, sotto l’insegna
polverosa, rotta.

 

*

 

Presto crescerà l’insalata e tu potrai mangiarla
non c’è bisogno di chiedere il permesso

 

– è tua –

 

È pazza l’insalata, non sa niente
butta fuori le foglie per niente
spinge fuori la testa per niente…

 

Nessuno le ha detto niente
nessuno le voleva bene

 

*

 

Cosa volete da me?
Non sono la maestra, io
il fuoco ce l’avete
che volete ancora?

 

Sull’immobile terra
roteava l’anello
roteava la pietra
e il mattone, il mattone
anche lui roteava
come un bambino

 

Povero anello
povero bambino
solo.

 

*

 

Hai sentito la mandria? Trottava verso noi
era tutto un tempestare sopra il vetro – sicuro! –
trottava contro il cerchio della luna

 

– quale luna? –

 

Basterebbe una preghiera detta bene
detta con la punta delle dita, basterebbe
martellare appena. Appena, appena…
anche contro la nostra volontà

 

come fa il picchio nero, sopra la barriera rossa.

 

*

 

Ha perso la parola là
dove è caduta la goccia

 

Scende fino al giaciglio rosso

 

Fino al lumino rosso
dove sospira e soffia
– ah! –

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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