Città dei porci. La costruzione dell’ignipotens
di Davide Orecchio
– Cosa si fabbrica qui?
– Ignipotens. Puoi definirle anche auto del cielo. O micronuvole. Oppure succhiasole, al modo dei maiali quando ce l’hanno coi normoarto. Perché consumano l’energia della stella. Molta energia. E qualche porco sostiene che in presenza, o incombenza, di troppi ignipotens la temperatura s’abbassa e arriva il freddo. Ehi, guarda Felix, l’operaio surfer, come s’avvia veloce al ridotto! Ha fretta. Il varco riconosce il suo biolasciapassare e s’apre per lui. Nelle tappe dell’ingresso e nel corridoio che l’accoglie non è solo, già trova decine di compagni maiali. Saluta tutti. Fanno le solite chiacchiere e proseguono. Non molte chiacchiere. Non vedono l’ora di mettersi all’opera. Mica vogliono perdere tempo. In corsia la luce Astroeclissi™ li irrora di azzurro. Centinaia di sagome versate sulle pareti di piombo elastico. Profili turchesi in ombre che li raddoppiano. Un esercito goffamente in marcia verso il lavoro sull’aritmia delle zampe. S’avverte l’odore acre di verro. Seppure disciplinati nelle intenzioni, grugniti escoriano il silenzio di questo corteo. Intanto il surfer è arrivato nello spogliatoio (una delle tante nicchie) e inizia a cambiarsi. Afferra la tuta dal gancio e la verifica prima di indossarla. Il serbatoio dell’urina è vuoto. L’involucro delle feci è pulito. L’erogatore di sussistenza è già raccordato all’imboccatura. Prende la tanica dell’acqua potabile da versare nel vaso di plastica sigillato sul dorso della tuta. Quando il recipiente è colmo, aggancia il tubo che lo disseterà durante il turno, introduce la canna nelle asole di metallo che fanno da binario dalla groppa fino al bavero, e all’altezza del colletto applica il boccaglio. Quindi apre coi denti due sacchetti di metallo morbido che rilasciano polvere nera, solo polvere, e la versa nel serbatoio di sussistenza, quella piccola cisterna verde sul fianco destro dell’uniforme.
– La vedo.
– Quando l’ha riempita di polvere, aggiunge anche lì acqua. E mescola con un cucchiaio fino a creare una pappa. Poi chiude con un cocchiume di ghiaccio bollente e la tuta è pronta. Sfila gli abiti civili fino a restare nudo, e la veste. Controlla un’ultima volta che i due tubi dell’alimentazione solida e liquida siano aperti, sigilla ganci e bottoni, stringe i guanti, cala la maschera ed è pronto.
– Quindi berrà e mangerà dalla tuta?
– Esatto.
– Durante il lavoro?
– Lavorare e mangiare. Lavorare e dissetarsi. Senza perdere il ritmo o sbagliare mansione. I maiali ne vanno fieri.
– E cosa dicevi delle urine, delle feci, dei serbatoi?
– In fabbrica non si fanno pause. Devo aggiungere altro?
– Non c’è bisogno. Ho capito. A cosa servono, invece, quelle tavole da surf appese alla parete?
– A levitare. Puoi chiamarle tabulae. Macchine volanti. Tra poco, quando le vedrai accese, capirai come funzionano. Ora Felix il surfer ne stacca una dai ganci e la stringe tra il braccio e l’ascella. Esce dal vestibolo. Si affretta nel corridoio. Altri surfer si aggiungono a lui. Riempiono lo spazio come passeggeri poco prima di entrare in un aereo, in sosta nel condotto. Solo che i maiali operai non aspettano, scalpitano. Avanzano. Si eccitano avanzando. Per fortuna puoi vederli, mansueti e sportivi. Altrimenti i loro cento più cento passi pesanti t’incuterebbero paura. E l’eco di questa marcia eccitata ti metterebbe in fuga. Adesso, però, chiudi gli occhi.
– Scusa?
– Hai capito bene. Chiudi gli occhi.
– Perché?
– Abbiamo un privilegio. Possiamo scartare il tempo inutile dei raccordi. Eliminare tragitti destinati all’oblio. Andare da un punto a un altro senza curarci della durata, senza pensare ai piccoli anelli della catena. Cos’è la durata, se non un ripostiglio dove accumuliamo l’inservibile, le scorie? Ci opprime. Quindi, ora che si presenta l’occasione per liberarcene, cerchiamo di non mancarla. Il nostro è un lusso, una rarità. Quanto lo è imbattersi in una frase pulita da particelle sozze, preposizioni e congiunzioni, interiezioni; una frase trasparente e leggera sulle ali del suo significato, libera dalla zavorra di circonlocuzioni e incisi. Allora chiudi gli occhi. Ecco. Cosa vedi?
– Nulla! Ho gli occhi chiusi!
– Non scorgi le immagini dei tuoi pensieri, le fattezze dei tuoi sogni? Non vedi le persone della tua vita?
– Se mi concentro…
– No! Lasciati andare, al contrario. Lascia che le immagini si associno disordinatamente. E dimentica il tempo.
– Va bene, ci provo. Ecco. Vedo già qualcosa. Sembra una spiaggia. Direi che è la spiaggia della mia infanzia. È da tanto che non ci vado ma quando ho un momento di pace, o poco prima di addormentarmi, spesso la penso. Era un posto incantato. La sabbia nera e ardente, in prossimità del mare, cedeva a ciottoli scuri e grigi. L’acqua era profonda decine di metri al di sopra di un fondale inabissato e vulcanico, eppure non avevo paura di tuffarmi. M’immergevo in cerca di polpi e conchiglie, e pontili affondati. Ero felice. Ma ora sono tornato! Laggiù c’è la barca di un pescatore. Di legno, verniciata di verde e azzurro. Lunga e pesante. L’hanno tirata a riva da poco. La rete arancione è arruffata su un fianco e gronda ancora acqua dai sugheri, e odora di granchio. Una donna è accovacciata accanto alla barca. Ha poggiato il suo pareo sullo scafo e guarda il mare: dev’esserne uscita da poco, perché le gocce le colano sulla schiena e ha i capelli raggomitolati in una sola, pigra ciocca. È mia madre. Accanto a lei, in piedi, vedo anche un uomo alto e dalla nuca brizzolata. Le accarezza il collo. Indossa pantaloncini bianchi e una polo azzurra. Guarda il mare con lei. Quello è mio padre. Poco più sotto, sulla battigia, due bambine si rincorrono fuori e dentro l’acqua. Giocano e gridano. Però non so chi siano. Tu le conosci?
– No e non vedo perché dovrei. È un tuo ricordo. Adesso, comunque, puoi riaprire gli occhi. Abbiamo ingannato a sufficienza la durata. L’abbiamo disinnescata. Aprili e dimmi cosa vedi.
– E cosa ci sarà mai da vedere? Non posso restare ancora un po’ sulla mia spiaggia? D’accordo, obbedisco. Li apro e ti dico cosa vedo… Oh, santo cielo!
– Impressionante, vero?
– È incredibile!
– Lo vedi Felix il surfer?
– Sì!
– Racconta tu cosa fa. Con le tue parole.
– Ma non ne ho per descriverlo! Quella che ho non mi basta. È lunga appena quattro lettere: v – o – l – o. Quanto vedo non ci entra. È come ostinarsi a infilare un uomo alto due metri negli abiti di un bambino. Possiamo accontentarci di dire che il surfer vola? Non saetta anche? Non levita? Non schizza in metri cubi di spazio sommato, verticale, vertiginoso? E poi si butta a capofitto, parallelo agli altri compagni. E poi risalgono tutti insieme portati su da quelle tavole che gettano scintille su onde invisibili, inesistenti. Sono pazzi, questi porci. Sono formidabili. Dunque è così che lavora il surfer?
– Sì. E lo fa senza soste, senza pause, senza una sola, trasognata intermittenza della concentrazione come la tua di poco fa. Per dieci ore di fila si fionda, eppure è un lavoratore di precisione. Cavalca la tabula con una velocità vorticosa. Rotea e sterza nel suo volo industrioso. S’aggira attorno alla carcassa dell’ignipotens sospeso, in costruzione. Vede dove occorre saldare e salda, dove si deve avvitare e avvita. Succhia un po’ d’acqua dalla canna dei liquidi, ingoia l’intruglio dal tubo del cibo e riparte. Quand’è il momento della verniciatura, accende la pompa. Verifica i raccordi tra motore e pannelli solari, saggia il telaio di carborundum, sigilla i vetri, fissa i bulloni di aeternus. Al suo fianco altri compagni badano alle balestre e all’albero a camme, ispezionano il cruscotto, sorvegliano la turbina. Ed è ancora il nostro surfer a valutare le fiancate, il cofano e i fanali. Volteggiando la sua tabula emette bagliori, filamenti di fuoco. Lui continua a spargersi sull’ignipotens come un’ape sul fiore. Sotto, sopra, ai fianchi, svolgendo mille mansioni. Lo edifica e protegge. Sembra una danza improvvisata, la sua, il metodo di lavoro di un artigiano eccentrico, ma non è così. Ogni operazione ha il suo decorso massimo. Dietro ogni compito c’è un calcolo. La metrica del tempo lavorato è una scienza. Cinque secondi per aprire i bocchettoni della vernice. Mezzo secondo per stringere ciascuna vite dei giunti. Sette secondi per incollare i vetri. Applica un manuale sincopato di ritmi che motiva tutto quel roteare sulle tabulae, quel precipitarsi all’insù e all’ingiù. L’ignipotens dev’essere pronto in venti minuti.
– Nel mezzo dell’aria. A metri e metri di altezza?
– Ma non c’è un gran pericolo. Le zampe del surfer sono ancorate alla tabula in guaine di gomma. Succede raramente che i foderi si rompano. Quando capita, e se quando capita il maiale sta molto in alto, allora precipita come un allocco morto. Sotto non ci sono reti che impastoierebbero i macchinari e il movimento degli altri maiali. Un porco si salva solo se un compagno l’afferra al volo. Il che succede quasi sempre. Non sempre.
– Sotto, sopra; non ci capisco nulla. Lavorano a terra, lavorano in aria. Spiegami meglio.
– Basta osservare. Cominciamo dal livello terra. Li vedi i porci su due zampe, privi di tabulae, semplici operai indaffarati alla catena di montaggio?
– Sì, certo.
– Sono aggregatori di bassa qualifica, addetti al nastro di scorrimento. Vigilano sui robot che saldano e assemblano le scocche. Sono i custodi della prima fase, quando l’ignipotens si forma senza definirsi ancora. Al livello terra la costruzione è giusto uno schema. L’auto sembra pronta, ma è fragile. I normoarto non si fidano della catena. Vogliono auto perfette. Vogliono la tecnologia più la sapienza, l’evoluzione più l’artigianato, la macchina più l’organismo pensante. Per questo hanno inventato il livello aria intermedio.
– Dove lavorano i surfer?
– Loro sono gli operai specializzati. I cervelli che stringono l’ultima vite. Sono la cavalleria aerea della fabbrica.
– Ma perché devono lavorare per aria?
– Buona domanda. Una risposta precisa non ce l’ho. Credo dipenda dalla mitomania dei normoarto, dalla loro passione per l’altezza e la verticalità. Ne sono tanto incantati da aver creato la fabbrica cuspide.
– Ora che succede? Il surfer s’è come rallentato. Cosa fa? Fluttua? Nuota?
– È entrato nell’area di galleggiamento, un deposito privo di gravità dove tengono gli arnesi per evitare che cadano. Lì dentro la tabula è inservibile. Infatti oscilla dietro al surfer, allacciata alla sua caviglia. Chissà cosa cerca. Sembra che nuoti sott’acqua. S’aggira tra gli utensili come un’astronave in una corona di meteoriti. Ora il ritmo s’è capovolto dal vortice alla lentezza, mentre fuori dalla bolla prosegue la frenesia degli schizzi. Quando ti tuffi nell’area di galleggiamento diventi una fotografia, il ritratto dell’istante nel quale hai perso la tua velocità. Rimbalzi e graviti in un nascondiglio. Ma il surfer cosa si deve procurare? Tu l’hai capito? No, certo. Tu non sai nulla. Potrebbe aver bisogno di una mola portatile. Oppure di una saldatrice. O forse di un trapano. O anche di viti e spine. Che dici? Ah, ecco. Mistero risolto, guarda: ha impugnato un bullone. Galleggiava davanti al suo muso. Un semplice, singolo bullone. Ora nuota fuori. S’aiuta muovendo gambe e braccia. La tabula lo segue, finché lui l’inforca e parte. Prende velocità. Torna al lavoro.
– Torna a volare!
– Torna a fiondarsi sul cantiere dell’ignipotens. Non ti distrarre. Non perderlo di vista. Lui ha già stretto il bullone e compie tre capriole che disegnano altrettanti cerchi di fumo nei quali si tuffa. Si vede che è un virtuoso della tabula. Usa un movimento continuo e vellutato. Disegna rotondità e archi. Oppure moltiplica microspostamenti. Sale e scende, si volta e raddrizza scompaginando scatti. Crea scenografie acrobatiche dove quel tanto d’improvvisazione concessa s’accosta alla tempistica prescritta dai normoarto. Tanto è agile qui, quanto è goffo quando cammina nella città bassa.
– Avrei una domanda.
– Sentiamo.
– Questa fabbrica non è primitiva? Poche funzioni sono affidate ai robot. Il lavoro dei maiali, se escludiamo il volo sulle tavole, fa pensare a un laboratorio.
– Te l’ho detto, i normoarto non si fidano delle macchine. Vogliono che l’ultima saldatura sia opera di un cervello naturale. L’hanno imparato dalla storia. Le fabbriche robotizzate, affidate a meccanismi e androidi, hanno fallito, ne veniva un lavoro impreciso, ne uscivano prodotti mediocri. Si diffuse il sospetto che le macchine sabotassero apposta, per nichilismo. Si giunse a un punto di lacerazione, perché non si formava una maggioranza che deliberasse se tornare al vecchio sistema di operai in carne e ossa oppure seguitare con i robot sbadati. C’era anche una questione ideologica, visto che ai normoarto non piace l’idea di andare all’indietro, vogliono sempre progredire; perciò nella querelle alcuni già parlavano di ritorno al Medio Evo. Ma era tutta una polemica sterile: chi mai si sarebbe prestato al mestiere dell’operaio? Ci si era ormai rassegnati alla mediocrità industriale quando apparve il miracolo di una creatura intelligente e laboriosa, onesta e produttiva, solidale, nata per la fatica: il maiale di città, l’essere che ti ho mostrato in quest’impianto, sulla strada, dappertutto. Il Grande Salto Biologico consentì di organizzare officine solo in apparenza rudimentali, ma in realtà sofisticate, dove ogni gesto del lavoro non solo è pensato ma desiderato.
– A me sembra che li sfruttino e basta, questi maiali.
– Ti sbagli. Dall’ingranaggio si passò all’organismo, dalla struttura alla comunità. Non credo possa sfuggirti la superiorità di una forma di pensiero organica rispetto alle miserie dell’intelletto artificiale. È la primazia della volontà sull’esecuzione inanimata. Il Grande Salto Biologico è stato anche questo: il ritorno della vita nelle fabbriche. L’esempio incarnato è il surfer, che gioisce del proprio lavoro. Quando stacca dal turno già pensa alla ripresa dell’indomani. Di ogni svolazzo, di ciascun bullone montato e fendivento saldato il surfer avverte la nostalgia già svestendo la tuta. Forse è la potenza del suo volteggiare che lo rende tanto fiero. Le parabole nelle quali si libra. Un meccanismo solido e affidabile è il figlio che ogni venti minuti il surfer concepisce. Se lo potessi vedere rallentato mentre lavora, capiresti cosa intendo se ti dico “beatitudine”, “concentrazione”, “diletto”: la trasparenza dei suoi movimenti come una lastra di cristallo per gli stati d’animo che prova. Ma anche adesso che ha finito ti accorgi che è contento dal sorriso che affiora sulle sue labbra, mentre sgancia tubi, scatole, arnesi del suo equipaggiamento, li deterge e ripone, siede sulla panca dello spogliatoio e riposa, ancora in estasi. Stremato. Invecchiato dalla fatica. Ansimante.
– Non mi convinci. Certo sembra felice. Che strana creatura.
***
Un sogno di Felix nella foresta
– Cos’è questa oscurità? Non vedo più niente.
– Nemmeno io. Poco fa era tutto rosso, poi è diventato viola.
– Ora è buio pesto. Non vedo più la storia. La foresta è scomparsa. Felix è sparito. Riportali indietro.
– Non so come si faccia. Non ho neppure una torcia, né un cerino.
– Non vedo più le tue parole. Dici “torcia” e resto cieco. Dici “cerino” e non ne trovo l’immagine. Che fare?
– Non ci resta che aspettare che passi. Pensa alla tua spiaggia, se vuoi. Quanto a me, cercherò di ricordare perché ho iniziato a raccontare questa storia ingiusta, imprevedibile, inservibile, non necessaria.
– Purtroppo non posso seguire il tuo consiglio. Non riesco a vedere la spiaggia. Ho i pensieri al buio.
– Anch’io. Non so come procedere. Sono preoccupato. Aspetta! Ora ho capito cos’è successo. Felix è svenuto!
– Come fai a saperlo se non vediamo nulla?
– Non è così. L’hai notata quella zampa che sbuca dalle tenebre come dal lenzuolo che avvolga uno che dorme?
– È un po’ sfocata, ma la vedo.
– Se ci concentriamo, forse riusciremo a recuperare l’intera figura e quanto la circonda, la storia e i suoi oggetti.
– Proviamo.
– Come va?
– Ora vedo anche l’altra zampa.
– Io vedo le due gambe fino al bacino.
– Il petto e le braccia inerti.
– Il volto privo di coscienza. L’erba dov’è caduto. Passa un martin pescatore. Nel fiume oltre le canne di Plinio si tuffa qualcuno. Felix punta il niffo contro il cielo, le nuvole e il sole. Sta sognando. È immerso nel verde.
– Il colore della speranza.
– Non in questo sogno dove tutto è livido. Il sogno mostra un prato e un uomo che, su camomilla e centofoglie, viene verso Felix dal bosco. Sale sul sentiero che esce dalla pineta. È minuto, lento, stinto come ovatta usata. Segue le curve della pista. Scompare e quando riappare è più grande, veloce e nitido.
– Dipende dal fatto che s’avvicina.
– Quindi gli occhi del sogno lo vedono meglio e, ora che s’è accostato a Felix, l’uomo siede accanto a lui tra gli asparagi selvatici e gli posa una mano sulla spalla. È qui per rincuorarlo.
– Ma sei tu!
– È vero, sono proprio io.
– Cosa ci fai nel sogno di Felix?
– Non lo so. Forse desideravo esserci, però non l’ho deciso. Non ho di questi poteri.
– Che follia. Lo stai abbracciando, lo conforti.
– Voglio dirgli che mi dispiace di essere soltanto io e non il padre o la madre, sebbene sia arrivato qui per affetto.
– Perché non parli, allora? Il sogno potrebbe finire da un momento all’altro.
– In questo sogno dove sono infiltrato succede che io sia muto e Felix ascolti altre voci. Neppure mi vede. Sono un fantasma inginocchiato accanto a lui nel verde. Persino il ruscello è più sonoro di me. Addirittura il grillo nella cicoria si nota di più. Il maiale pensa, ricorda, scruta l’orizzonte, strappa l’erba, gioca col filo d’erba, artiglia la zolla di terra e sporca le unghie, aspetta, ma non ascolta me, né mi vede. Io non sono nessuno. Neppure in quanto voce, cioè per quello che sono, io esisto.
– Quand’è così, parla con me. Io ti ascolto.
Parte 1: l’appartamento, la città
Parte 2: una gita in campagna
Parte 3: il supermercato
(Foto di copertina: Pig slaves, Doctor Who; fonte: http://tardis.wikia.com/wiki/Pig_slave)