Notte umbra
di Giorgio Mascitelli
Nella raccolta poetica di Paul Celan Di soglia in soglia ( von Schwelle zu Schwelle, 1955) si trova una poesia dedicata al mito di San Francesco, intitolata appunto Assisi. Frutto di un’esperienza autobiografica, quale un soggiorno nella città umbra con la moglie dopo la morte del figlio neonato, potrebbe essere definita come la poesia dell’inconsolabilità, sia nel senso di un suo rifiuto sia nel senso di un’impossibilità.
Lo scontro con il senso di pace francescano non potrebbe essere più forte, ma per comprendere tale scontro non bisogna pensare a una critica ideologica o filosofica della figura del santo, che non si trova nella poesia. Se Celan critica l’irenismo francescano e il senso d’armonia che nasce da quell’esperienza, è perché innanzi tutto li sente e li coglie nella loro importanza culturale e umana che travalica i caratteri specifici religiosi e storici del santo di Assisi, nella consapevolezza di trovarsi di fronte ad una delle esperienze più profonde dell’animo umano (” Notte umbra/notte umbra con l’argento delle campane e del ramoscello d’ulivo/ Notte umbra con la pietra, che portasti qui”) . Per Celan in qualche modo la notte umbra su Assisi è la possibilità stessa di armonia con il mondo. Ma per lui questa armonia è irraggiungibile: innanzi tutto per ragioni private ( “Muto, ciò che pervenne alla vita, muto: travasa le brocche”), ma questo dolore privato si collega alla tragedia generale dell’umanità che per Celan, e ovviamente non solo per lui, è l’orrore dei campi di concentramento. Così la brocca con le ceneri del figlio rientra nelle brocche con le ceneri di tutte le vittime e lo stesso poeta vuole che sia così ( “ brocca di terra con il sigillo dell’ombra”): ciò si capisce meglio nell’originale tedesco perché in italiano si può scambiare quel travasa, seconda persona dell’imperativo, per una terza dell’indicativo presente. Ma il tentativo di seppellire i morti ( ovviamente i morti di morte ingiusta e innaturale) e di superarli, di riconciliarsi con il mondo è impossibile, perché il poeta vede solo pietra intorno a sé, la stessa pietra che portava con sé quando arrivò ad Assisi. Anche il tentativo di far entrare l’asinello dello spirito francescano si risolve in irriducibilità del conflitto perché alla fine l’asino bruca il sonno dalla mano e quindi non dà riposo (“ Bestia trotterellante davanti alla parola che si chiuse da sé./ Bestia trotterellante, che bruca il sonno dalla mano”). Il riposo e dunque la conciliazione non sono possibili perché, nonostante lo splendore della vicenda francescana, i morti continuano a implorare ( “Splendore, che non vuole confortare, splendore./ I morti- loro implorano ancora, Francesco”).
Certamente si tratta di una poesia di un ateo che non crede alla salvezza, ma in qualche modo questo è un problema secondario, perché la profondità della proposta di san Francesco è quella di una conciliazione anche nell’esperienza terrena e nella consapevolezza della potenzialità di gioia della vita, così almeno il Francesco del Cantico, nel quale la morte prima ancora che passaggio in senso cristiano, è prospettiva del tutto naturale della vita. Piuttosto ciò che conta è quella sorta di spirito guerriero che pervade tutta l’opera di Celan, come ha messo in luce il suo più profondo lettore, Jean Bollack, che lo porta addirittura a scegliere come lingua il tedesco, lui ebreo nativo delle zone più orientali di quello che era stato l’impero asburgico e dunque formalmente cittadino rumeno e poi sovietico e infine per tutta la sua maturità parigino, per far scontare ai carnefici della shoah la loro colpa nella loro lingua.
In realtà ciò che Celan vuole è di restare ai morti, la sua polemica antifrancescana non è determinata dal fatto che ci siano conciliazione e pace e perdono, perché se anche ci fossero vendetta o punizione, la quale in qualche misura c’è stata quando Celan scrive, ciò non cambierebbe il movimento della vita, a cui anche Francesco appartenne, verso il superamento dei morti. Il fatto per Celan inconciliabile è che i morti sono morti e Celan vorrebbe restare a questo, non partecipare al fluire della vita. Anche chi chiede giustizia per i morti lo fa in nome di una prospettiva futura che vuole archiviare lo scandalo dei morti ( archiviarlo in maniera seria e giusta, ma pur sempre archiviarlo). Ciò che Celan rimprovera allo splendore francescano non è la conciliazione con i carnefici, ma la conciliazione con se stessi: qualsiasi forma di rielaborazione del lutto, anche la più alta come in questo caso, è per Celan inaccettabile, una prova dell’inconsistenza della società umana. E del resto c’è nel processo di civilizzazione la pretesa di conferire a ciò che è tendenzialmente mutevole e istantaneo istituzioni uniformi e durature, che però non possono discostarsi troppo dalla natura di partenza, ed è qui che il conflitto di Celan assume aspetti inconciliabili. Infatti i monumenti alla propria memoria che una civiltà edifica restano estranei al fluire della vita, che cancella impietosamente il loro significato, accadimento intollerabile per il poeta. E’ lo stesso tradimento di cui parla lo Zanzotto di Verso il 25 aprile, allorché descrive il tema del tempo fisico e sentimentale che cancella le “friabili forme” dei cippi dei partigiani morti. Una contraddizione più estrema percorre Assisi: ciò che è morto è muto all’inizio della poesia e alla fine implora però, letteralmente mendica, dunque in qualche modo parla. E’ una contraddizione irrisolvibile per chi vuole restare in vita e contemporaneamente restare ai morti, è una contraddizione che presa frontalmente, come fa Celan, distrugge. Francesco conosce il dolore della vita, compreso lo scandalo delle morti ingiuste, ma non si vuole fermare a questo. Celan sì, perché lui non vuole ricordare i morti, vuole che essi parlino ancora.
Si tratta di una poesia postprofetica, a patto di ricordare che l’accezione originaria, veterotestamentaria, del termine profeta non è quella, oggi corrente, di colui che prevede il futuro, ma di colui che contesta il potere dominante a partire dalla comprensione del vero significato, negletto dai più, dell’esperienza del proprio tempo. In questo senso il restare ai morti è l’unica forma di radicale attaccamento alla giustizia quando è tramontata la fiducia, che il profeta deve avere, nella parola di Dio o di qualche suo equivalente secolare. Questo restare ai morti, tutt’altra cosa che ricordarli, è nel contempo un falso movimento perché contrasta i fondamenti della vita stessa. Sarebbe bello poter collocare questa temperie etica nei lutti che stentavano a rimarginarsi nel secondo dopoguerra e nella figura, fragile e forte in una sola volta, di un poeta atipico come Celan, ma in realtà questa situazione postprofetica riguarda lo spirito del nostro tempo.
Grazie per questo articolo, Giorgio. Sempre bello leggere di Celan, sempre bello entrare negli interstizi che ha aperto (e che possono essere riaperti)
La posizione di Celan “restare ai morti” come la sua “coazione a ripetere” dentro di sé l’esperienza dolorosa sono insostenibili: dal punto di vista esistenziale e da quello intellettuale. Ma sarà proprio l’absurdum di queste due immagini (l’implorazione dei morti e lo splendore che non vuole confortare) a fare splendere questo testo. Grazie della tua analisi
“… vuole che essi parlino ancora”
stare su quel confine in attesa, farsi carico di quella fragilità che tiene insieme il mondo, tiene i vivi e i morti.
I morti e la loro presenza nei vivi; è questo forse anche ciò che Celan vuole preservare, che non è il “ricordare”, ma lo stare insieme.
Grazie Giorgio, interessante la tua analisi che muove pensieri.
Grazie a tutti per le vostre riflessioni e per l’attenta lettura.
E’ personale….ma in ogni frammento, in ogni poesia Celan ha testimoniato quanto profetizzava Etty Hillesum….ma dopo, se ci sará un dopo…bisognerá riscrivere tutti i libri….dopo Auschwitz si potrá piú scrivere poesie?…di chiedeva Adorno…..l’Europa fu rigata oltre che dalla guerra da quei treni di morte sui quali l’Europa tutta vedeva ma non illazionava….
Fu a partire dal nulla assoluto, dall’afasia assoluta, dalla semantica zero, dalla sintassi rasa al suolo che Celan si provó a creare, a balbutire qualcosa di inespresso mai prima d’allora…Forse solo Un coup de des mallarmeiano….Celan via via acquista una statura proporzionata a quanto lui tentó di dar voce….E dietro lui l’amico Gherasim Luca…I perseguitati…ma non per rinvangare il trascorso orrore oramai – altro orrore – quasi retorica dell’Olocausto…Due amici, due poeti accomunati dal non linguaggio, dalla non poesia che stava alle loro spalle. Lo sforzo erculeo cui Celan si sottopose lo schiantó. Meno di un quarto di secolo piú tardi, sempre nel panta rei della Senna, scomparve Luca.