Bob Dylan non esiste. Tradizione popolare e anonimato dal folk al social network.

di Francesca Palazzi Arduini

Il 13 ottobre Bob Dylan viene eletto Nobel 2016 per la letteratura. Le motivazioni lo descrivono come “un grande poeta nella tradizione della lingua inglese” ed un “artista che ha creato una nuova poetica nella grande tradizione della canzone Americana”
La cerimonia si svolge il 10 dicembre, Patti Smith accetta di essere presente al suo posto. La Smith rimedia al trambusto creato dal diniego di Dylan, con vaghe motivazioni, al ritirare il Nobel di persona.
Scrive Patty Smith circa la sua decisione di esserci e cantare il brano di Dylan “ A hard rain’s a-gonna fall. “: “l’ho scelta perché combina la sua maestria di linguaggio alla Rimbaud con una profonda comprensione delle motivazioni che stanno dietro la sofferenza e la resilienza umana“.
Una canzone da sempre considerata antimilitarista viene quindi presentata all’agiato pubblico di Stoccolma  per volontà dell’inventore della dinamite. Accompagnata da parole che sottolineano il senso della vicinanza di un poeta alla gente comune, quella che pratica la “resilienza”, termine che potremmo definire prosaicamente come l’arte di sopravvivere ai soprusi e alle guerre, e andare avanti.
E’ simbolico che pochi giorni prima del successo di Trump negli Stati Uniti, il Nobel venga assegnato a un artista considerato idolo del movimento pacifista statunitense. Ma cosa è la “vicinanza” tra un artista e un movimento? Nel caso di Dylan non abbiamo, come ad esempio per la Baez o anche per Lennon ed altri, un coinvolgimento palese, bensì la grande corrispondenza delle sue parole con la realtà vissuta in quegli anni, sia da coloro che facevano scelte pacifiste evidenti che da quelli che semplicemente pensavano che ci fosse qualcosa di sbagliato nell’aria…perlomeno se diventava radioattiva. In “A hard rain’s a-gonna fall” Dylan dice di aver riversato l’angoscia per la crisi Usa-Cuba, ma non ha mai affermato che la “dura pioggia” significasse il Fall-out. La pioggia che cade può essere quella del blues, che bagna le schiene dei lavoratori nei campi, “quando piove sui poveri piovono pietre”.
Nella sua lettera indirizzata alla platea del Nobel, attraverso una serie di ripetizioni, quasi fossero il ritornello di una canzone, Dylan fa capire che il suo non è il mestiere dello scrittore, che la sua arte, come quella del teatro elisabettiano, usa “parole scritte per il palco. Destinate ad essere recitate, non lette.”
Poi, mentre esprime modestia mandando a dire che lui non si sente alla pari degli scrittori che hanno ricevuto il Nobel (cita Kipling, Shaw, Thomas Mann, Pearl Buck, Albert Camus, Hemingway), si paragona a Shakespeare ed al suo tempo, scrivendo di avere le sue stesse preoccupazioni, quando sale sul palco, ad esempio le questioni pratiche della messa in scena: “Ci sono abbastanza buoni posti a sedere per i miei finanziatori?” “Dove posso procurarmi un cranio umano?”.
L’insistenza con cui Dylan, nella sua lettera, parla di Shakespeare, mi ha fatto pensare al teatro popolare inglese, quello in cui nobili e popolino assistevano alle stesse storie, e mi ha convinto non solo del valore simbolico dell’assenza di Dylan dal palco del Nobel, per qualsiasi motivo l’abbia scelta. La sua assenza era simbolo di qualcosa di altro, un messaggio inconsapevole, un non detto, ma di cosa?
Leggendo le affermazioni di Dylan, nella lettera al Nobel, sul modo in cui un artista percepisce il pubblico, ho ricordato finalmente un saggio incompiuto di Virginia Woolf, l’ultimo scritto che ha lasciato. Si tratta di “Anon” (1), abbreviazione di Anonymous ma anche avverbio che significa fra poco, subito, qualcosa che mescola l’essere anonimi al senso della fruizione immediata, qualcosa che arriva presto per poi svanire, nella folla, tra il vociare, tra una strada e una piazza.
Scrive la Woolf :”Fu l’invenzione della stampa a uccidere infine Anon. Eppure fu proprio la stampa a salvarlo dall’oblio. Quando, nel 1477, Caxton pubblicò i ventuno libri della Morte D’Arthur, fissò la voce di Anon per sempre. Da là attingiamo la riserva di credenze comuni depositata in profondità nelle menti dei nobili e dei contadini”.
Un sentire comune al di là del ceto sociale, nei canti che si sentivano ovunque “nelle ballate, nelle chiacchere da taverna, alla porta di servizio”, che iniziava a differenziarsi solo allora e che usufruiva di pubblico ristretto, spesso casuale.
Pubblico casuale e dalle diverse identità, così come per Dylan le ballate tradizionali degli Usa sono differenti se cantate al pubblico di un grande concerto o in un pub: “Come artista ho suonato per cinquantamila persone e ho suonato per cinquanta persone, e vi posso dire che è più difficile suonare davanti a cinquanta persone. Cinquantamila persone hanno un’unica identità, a differenza di cinquanta spettatori.”
Anche la Woolf sottolinea come il mestiere di Anon fosse quello di cantore per pochi, perché cantava nei sobborghi, “per i braccianti e le domestiche, nel rozzo gergo della lingua nativa”, o sul retro delle case. Ciò che cantava veniva ricordato, e cantato sua volta, il nome dell’autore originario non era importante. Restava quel modo del canto popolare, per cui “tutti contribuivano alla sua storia”, così come nel blues.
Dylan ripropone, con la sua assenza alla premiazione e forse senza volerlo, l’anonimità e invisibilità del menestrello, o dell’oscuro ideatore di uno standard folk, l’uomo con la fisarmonica a bocca o la chitarra, o ambedue, che sparisce dietro l’angolo del mercato rionale dopo aver dato spettacolo.
La storia del movimento pacifista, beat, studentesco degli anni ’60 e ’70 americani si intesse col successo di Dylan ricordandoci però che “tradizione musicale” significa musica fornita solo della capacità di replicarsi nella fantasia della gente per i propri bisogni espressivi.
La tradizione musicale popolare si rompe quindi col successo pop, inteso come popolarità, perché si separa dal racconto di una storia reale: altrimenti la gente ricorderebbe, ad esempio, il nome di Bill Haley & His Comets, autori della famosa “Rock Around the clock”, nel 1954. Vendettero 30 milioni di copie…ben più di quelle di Dylan, ma il loro successo musicale e commerciale non si basava sul racconto di una “storia” ma sulla comunicazione e vendita di un ritmo, è sensazionale ciò che resta una sensazione.
Joan Baez ha cantato durante le presidenziali 2016, a un comizio per Bernie Sanders a San Jose, la canzone di Bob Dylan “The Times They Are A-Changing”, riaffermando ciò che Peter Dreier scrive sull’Huffington Post nel suo “The Political Bob Dylan”: “L’impegno politico off-and-on di Dylan con la politica è intrigante. Ma le sue canzoni di pace e giustizia hanno avuto una loro propria vita. “Blowin ‘in the Wind” e “The Times They Are A-Changin'”, in particolare, saranno sempre legate ai movimenti progressisti degli anni 1960 e utilizzate per radunare la gente a protestare per un mondo migliore.”
Dreier ricorda che già in passato Dylan aveva avuto difficoltà ad accettare premi per il suo lavoro. Nel 1963 al Tom Paine Award, stupì una folla di “1400 tra liberal e radicali nella hall” consigliando loro di togliersi di lì ed andare in spiaggia. Concludendo poi un discorso alticcio contro la politica: “There’s no black and white, left and right, to me anymore. There’s only up and down, and down is very close to the ground. And I’m trying to go up without thinking about anything trivial, such as politics.”
Questo essere “su o giù”, è un’altra intuizione poetica e pragmatica oppure l’ammissione di aver perduto ogni interesse diverso da quello per il benessere personale? E’ una intuizione dello spirito popolare più basico tanto da sembrare populista, quel guardare ai risultati, oppure una chiusura nella sfera personale?
Comunque sia, anche il lavoro seguente di Dylan non smentisce la sua sensibilità per tematiche popolari, operaie, per le storie del proletariato del blues, per l’antirazzismo e tutti gli argomenti sensibili dei movimenti di protesta. Scrive Dreier: “Anche dopo il 1964, Dylan ha rivelato il suo tocco per le canzoni politiche. Il brano del 1965 “Subterranean Homesick Blues” fa riferimento alla violenza della polizia sui manifestanti per i diritti civili ( “Meglio stare lontano da quelli / che portano in giro una manichetta antincendio”), ma riflette anche il suo cinismo crescente (“Non seguire i leader / guarda il parchimetro “). L’ala estrema degli Students for a Democratic Society ha preso nome ,Weatherman, da una frase di quella canzone (“Non hai bisogno di un meteorologo per capire da che parte soffia il vento”). Altre canzoni, sino a “Licenza di uccidere” (1983), e “Clean Cut Kid” (1984) indicano che Dylan aveva ancora capacità di indignazione politica.”
Nel luglio del 1963 la canzone “Blowin ‘in the Wind” ha raggiunto il milione di copie vendute, e in quell’agosto Dylan canta alla marcia su Washington che vede Martin Luther King pronunciare il suo discorso più famoso, “I have a Dream”. Ma la popolarità di Dylan come artista, quella che lo ha condotto, suo malgrado, al Nobel, consiste principalmente nel suo ininterrotto lavoro di interpretazione della poetica popolare americana.
In questo discorso su Anon, sulla voce popolare, scrive Virginia Woolf: “Il drammaturgo anonimo è irresponsabile”, la sua è saggezza pre-politica, al contempo basilare e irriverente verso ogni forma di strutturazione formale, e Dylan ha avuto la fortuna di reinterpretare lo spirito della canzone popolare in un’epoca in cui ancora la frammentazione e distrazione di massa consentiva di convogliare questi contenuti in grandi fruizioni di massa, attraverso il passa-parola, attraverso grandi manifestazioni. Oggi, momento in cui paradossalmente i mezzi di comunicazione sociale consentirebbero maggiore coesione, l’offerta di una miriade di contenuti differenziati per classe sociale e livello di sofisticazione difficilmente potrebbe riproporre la creazione di sintesi artistiche così coinvolgenti, al contempo riprendendo un fraseggio tradizionale.
Certo abbiamo un certo tipo di Rap, anche italiano, che riprende e ricrea strofe popolari, abbiamo giovani tramandatori di canzoni di lotta, ricercatori di canti e ripetitori di storie. Ma quanto sofisticati sono, e quanto ci riconosciamo nei loro ritornelli?
Ma se la consapevolezza non aveva ancora levato il suo specchio, quegli uomini e quelle donne siamo noi, visti senza prospettiva; allungati, di scorcio, comunque molto vecchi, consapevoli di tutto il bene e tutto il male possibili. …questo è il mondo che sta al di sotto della nostra coscienza; il mondo anonimo a cui possiamo ritornare ancora”. Sembra quasi che la Woolf voglia tornare indietro nel suo percorso di scrittrice raffinata e pioniera, tornare alla ricerca di qualcosa di comune a tutti. Lei, che ha scritto con “la sottigliezza solitaria di un’unica anima” su tematiche profetiche, scrive “Anon” per cercare di capire come sia possibile, in quegli anni di ascesa del nazismo (che proprio mentre lei scriveva minacciava di invadere anche l’Inghilterra) tornare a far cantare la voce di tutti non i canti di guerra ma le sue rime di resistenza civile, come quelle che  farà rivivere nel suo “V per vendetta” negli anni Ottanta.
Proprio quel “V” che rivive, isolato e anonimo ma capace di ispirare le masse, con la sua maschera disegnata da David Lloyd che diverrà poi un logo nel raffinato network degli hacker di Anonymous.(2)
Anon cerca di riaffiorare tra i fasti della società dell’informazione, quella in cui ciò che è popolare si conta solo, giorno dopo giorno, nelle statistiche, e le individualità umane, abitanti più nei luoghi virtuali che nei luoghi reali, quelli dove si cantava senza un palcoscenico, fluiscono nella scellerata convinzione di poter essere tutte protagoniste.
L’anonimità è quella che ci dà la forza di avere libertà di parola anche in situazioni d’oppressione, è quella che ci consente di unire i nostri sforzi per una causa comune senza volere fama o potere in cambio, ma è anche la perdita della memoria, della conoscenza del percorso che ha fatto un “meme” per giungere a noi ed essere reinterpretato, e la perdita di memoria fa perdere anche la direzione.
Se pensiamo all’oggi, in termini di “meme”, cioè di significato o comportamento tramandabile, potremmo usare, come scrive il suo teorico, il biologo Richard Dawkins, questo metro di giudizio per definirne l’importanza di una canzone, contare quante persone la fischiettano per strada. Oggi invece si usano le visite a Youtube per valutare la popolarità di una canzone, anche nel tempo. Il tormentone “Gangnam Style”, ad esempio, uscito nel luglio 2012 è giunto in 158 giorni ad un miliardo di visualizzazioni: ed oggi è oltre i due miliardi e mezzo. La popolarità però subisce nel tempo uno sgonfiamento, e di certo sono ben poche le persone che oltre alla musica ricordano il ritornello. Passando a quest’ultimo, dubito che il testo, definito dagli estimatori del rapper coreano Psy “satirico”, possa essere considerato più che una descrizione salace, e sessista, del nuovo modello di vita “all’americana” dei giovani coreani ricchi del quartiere di Gangnam: “Ehi, Sexy Lady, Oppa è lo stile di Gangnam Hey Sexy Lady-oh oh oh oh”. Il rapper, nota bene, è lo stesso che cantava “Uccidete quei maledetti yankee che hanno torturato i prigionieri iracheni / Uccidete quei maledetti yankee che hanno ordinato le torture / Uccidete le loro figlie, le loro madri, le loro nuore, i loro patri / Lasciateli morire una morte lenta e dolorosa”. Se questo è linguaggio popolare, diciamo che siamo molto lontani da quello di Anon, dal blues, dal folk e più vicini alle canzonette da branco.
La semplicità delle parole di una canzone infarcita di riferimenti ai movimenti culturali e politici, come “Give Peace a Chance”, ci ricorda che è possibile restare nel tempo e replicare un’idea al di là di tutti gli –ismi, formalismi logorroici dei nuovi idoli popolari.
Mentre tutti “parlano”, qualcuno “chiede”.
Ev’rybody’s talking about /Revolution,/evolution,/masturbation,/flagellation, regulation, integrations,/meditations, United Nations,/Congratulations./All we are saying is give peace a chance”.
Proprio dal fare domande si sviluppa lo standard usato da Dylan in Una dura pioggia cadrà: dove sei stato, cosa hai visto, cosa farai?
La visione “morale” di una umanità fondamentalmente saggia, è quella che è giunta sino alla Smith: “I awakened to the cry /that the people have the power/ to redeem the work of fools/ upon the meek the graces shower/it’s decreed the people rule” (People have the Power, 1988). Una visione satirica ma ambigua, della brama di notorietà e potere è quella che ci martella oggi dai social network, come il testo di Fabio Rovazzi infarcito di non-sense,: “Col trattore in tangenziale /Andiamo a comandare/ Scatto foto col mio cane/ Andiamo a comandare /In ciabatte nel locale /Andiamo a comandare/Sboccio acqua minerale…”, quasi 118 milioni di visualizzazioni ad oggi. Oltre 69 milioni di visualizzazioni su Youtube per lo stesso Rovazzi che canta alla sua fidanzata (ovviamente bionda e carina) “il c***o che me ne frega”, canzonetta dal ritmo accattivante che, con la sua satira sui selfie e sui call center, ammanta di parvenze anticonformiste e anti-mainstream musicale la propria stessa essenza di trastullo. Non è un caso che Rovazzi ci sia poi rimasto male quando il leader della Lega Nord si è esibito in una versione leggermente ritoccata del suo Hit, del resto già la politica ‘mainstream’ aveva già attinto dalla classifica per i suoi riti (3). Forse in futuro qualcuno penserà che Dylan è stato creato in video, e non è mai esistito, magari è per questo che non era a Stoccolma, e la risposta vola nel vento.

*

(1) ANON, Virginia Woolf, saggio incompiuto, 1941. Ultima edizione italiana, Nuova editrice Berti, Piacenza 2015.

(2) “We do not forgive.” Non perdoniamo. Recita il gruppo nella sua presentazione.

(3) Il PD ha invece usato “Canzone popolare” di Fossati, Renzi “Mi fido di te” di Jovanotti, Bersani “Inno” di Gianna Nannini. Il testo di Jovanotti non ha portato bene al leader delle scommesse: “Forse fa male eppure mi va/Di stare collegato/Di vivere di un fiato/Di stendermi sopra al burrone/Di guardare giù/La vertigine non è/Paura di cadere
/Ma voglia di volare”.

*

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