Jean Baudrillard e il delitto imperfetto
di Davide Gatto
(seconda parte)
Il delitto non è mai perfetto, ovvero “l’illusione indistruttibile”[1]
Il processo è irreversibile? Abbiamo perduto per sempre il desiderio, la passione, la curiosità per l’Altro/altro, per il misterioso mondo reale delle apparenze? Tanto è lontano Baudrillard dal credere questo – coerentemente con quel nichilismo “creativo” cui si faceva cenno all’inizio – che arriva a considerare il trionfo attuale della scienza e della tecnologia una sorta di inspiegabile strategia del mondo e delle cose per tenere in vita l’illusione, per trattenere l’uomo sulla soglia della sua scomparsa (come sempre metaforica: di lui resterebbe l’immagine o, futuribilmente, l’ologramma).
L’argomentazione è come sempre ricca e complessa, ma muove essenzialmente dalla considerazione che le cose continuano a sfuggire davanti alla scienza che le bracca, come l’elettrone che talvolta interagisce con i rivelatori come corpuscolo, talaltra come onda, o di cui secondo il principio di indeterminazione formulato da Heisenberg non è possibile stabilire contemporaneamente, per esempio, la velocità e la posizione. Se il mondo e le cose sanno sempre svincolarsi dall’abbraccio mortale – per noi uomini mortale – del pensiero produttore di senso e di perfezione, allora l’illusione è salva e la realtà continua ad apparirci misteriosa ed attraente.
Il ragionamento più interessante però è quello per cui secondo Baudrillard l’impiego della nostra intelligenza per costruire un mondo virtuale e ipertecnologico in sé perfetto, dotato del senso che ab origine cerchiamo, deve essere interpretato come un “acting out”, locuzione con cui la psicanalisi indica la proiezione all’esterno in comportamenti e atteggiamenti del materiale inconscio responsabile della nevrosi, a scopo terapeutico.
Insomma la nostra realtà virtuale sarebbe il tentativo terapeutico definitivo per guarire dal disagio esistenziale che ci è connaturato: l’Altro che tanto ci angoscia con la sua indecifrabilità scomparirebbe, il mondo trasformato in un congegno compatto e automatico ci esimerebbe dal prendere decisioni e dall’assumerci responsabilità, la marginalità così ottenuta – la “scomparsa”, usando le parole di Baudrillard – risolverebbe anche le incertezze tutte novecentesche circa la nostra effettiva esistenza, dato che “in nessun luogo possiamo dar prova della nostra esistenza e della sua autenticità”[2] se non nel mondo virtuale che ha “ucciso” la nostra presenza, perché solo ciò che esiste può essere ucciso.[3]
Se questo però è il progetto inconscio di un uomo fiaccato dalla nevrosi, è certo che la sua realizzazione risulta ancora una volta fallimentare. Paradossalmente e misteriosamente, infatti, la tecnica riproporrebbe inalterato il mistero del mondo, nel contempo però affrancandosi completamente dal controllo dell’uomo e divenendo strumento delle cose che continuano a restare sfuggenti: “Attraverso le finissime procedure che dispieghiamo per captarlo (scil. “l’oggetto della scienza”), non è forse esso a prendersi gioco di noi e a ridersela della nostra pretesa oggettiva di analizzarlo? Gli stessi scienziati non sarebbero lungi dall’ammetterlo.”[4]
Abbiamo affidato alla tecnica il compito di rendere del tutto trasparente il mondo, di cancellare la sua ombra segreta, ma tutto quello che abbiamo ottenuto è la nostra marginalità, la nostra scomparsa (non alienazione, che ancora presupponeva una presa di posizione dialettica, critica rispetto al reale non ancora assoluto come il nostro virtuale), mentre le cose stesse, la tecnica stessa ci ripresentano intatto lo stesso mistero di sempre: “Alla funzione critica del soggetto è succeduta la funzione ironica dell’oggetto”[5], quasi come se l’oggetto stesso se la ridesse della nostra ingenua pretesa di cancellare “la parte maledetta”, l’imprevedibilità, il destino e con essi l’insopprimibile “gioco” dell’illusione.
Lo spazio residuo di intervento dell’uomo
L’avvento del Virtuale, la nuova realtà artificiale a cui la scienza e la tecnica lavorano indefessamente, ha segnato un vero spartiacque nella storia del pensiero: se prima le ipotesi di spiegazione del mondo ingaggiavano scontri quotidiani con il pensiero critico in un agone propriamente dialettico, oggi la realtà, compiuta e dispiegata, non ammette alcun pensiero critico semplicemente perché la certificazione tecnico-scientifica l’ha resa totale, indiscutibile, senza ombre.[6]
Sembrerebbe quindi raggiunto l’obiettivo a cui l’umanità ha mirato fin dalle sue origini, quello di un mondo trasparente, pienamente comprensibile e governabile; eppure – osserva Baudrillard – “siamo arrivati a un tale grado di realtà e di oggettività da poter addirittura parlare di un eccesso di realtà che ci lascia molto più ansiosi e sconcertati della mancanza di realtà, la quale poteva per lo meno essere compensata con l’utopia e con l’immaginario.”[7]
Venuto meno quindi il pensiero critico, e con esso la stessa esistenza del tipico procedimento con cui l’intelligenza si confrontava con il mistero del mondo, ovvero la dialettica, all’uomo secondo il filosofo francese non resta che portare all’eccesso con il pensiero questa presunta positività compiuta, “moltiplicare il positivo con il positivo”, perché “Niente ha lo stesso senso appena è confrontato non con la sua forma incompiuta, ma con la sua forma compiuta, o addirittura eccessiva.”[8]
Il ragionamento filosofico trova la sua chiara e piena esplicazione in un capitolo[9],dedicato all’arte e alla figura di Andy Warhol, che potrebbe essere a pieno titolo considerato un piccolo saggio storico-artistico nella più ampia cornice del saggio filosofico.
A differenza di “Duchamp, Dada, i surrealisti”, intenti a isolare e a destrutturare criticamente l’oggetto della loro rappresentazione “per esaltare la soggettività creatrice dell’artista”[10], il suo punto di vista altro rispetto al reale ritratto, Warhol sceglie di sopprimere la sua interpretazione e di riprodurre come una vera e propria macchina solo l’immagine di un oggetto, senza alcun collegamento con il suo referente naturale: l’immagine pura, tecnica ed eventualmente seriale.
Al di là delle polemiche e delle incomprensioni che alcune sue opere suscitarono per la loro apparente celebrazione di alcuni miti della società capitalista e consumista, basta guardare la serie dei barattoli della “Campbell’s tomato soup”, o la riproduzione del manifesto pubblicitario della Coca Cola, o ancora la moltiplicazione di volti e pose di Marilyn Monroe – modulate secondo variazioni cromatiche che fanno pensare più alle prove di un laboratorio di grafica che non alla raffigurazione realistica della persona – per comprendere che centro dell’opera di Warhol non sono le cose reali e sempre problematiche che ci circondano, ma i loro “simulacri” semplificati, artificiali, piatti e insignificanti che la tecnica ha reso possibili e che ha presto diffuso e globalizzato: il mondo vero ed enigmatico è scomparso, soppiantato da vuote immagini senza senso, riproducibili all’infinito.[11]
Ecco dunque che Warhol, in questo mondo totalmente “positivo” a cui non è più possibile opporre una critica, data la scomparsa di ogni polarità dialettica, non fa che potenziare “macchinalmente” questo nostro nuovo mondo virtuale, in cui persone e cose si moltiplicano senza anima nella forma dei cartelloni pubblicitari, delle icone alla moda o delle elaborazioni grafiche di foto di riconoscimento.
E se da una parte – e coerentemente – questa operazione ha comportato la scomparsa dell’artista come soggetto interpretante del mondo, e con esso dell’arte stessa come suo strumento privilegiato[12], dall’altra essa rivela con la massima intensità possibile il vuoto e l’assenza di significato della nostra realtà fatta di immagini e di rappresentazioni, non più di cose e di persone.
A ben vedere questo modo di combattere il positivo con il positivo, questo disvelamento del vuoto che traspare dietro il pieno delle immagini riaprirebbe lo spazio perduto dell’illusione, che anzi diverrebbe finalmente radicale, perché il simulacro del mondo (nichilisticamente il mondo non può che essere simulacro, dato che non esiste se non in quanto apparenza) sarebbe nuovamente “incondizionato” come ai tempi delle “fantasmagorie inumane di tutte le culture precedenti la nostra”[13]: ognuno può vedere nel vuoto delle cose ciò che vuole, anche oltre la dialettica condizionante della religione, della ideologia o della morale, può “prendere il mondo per il mondo, e non per il suo modello”[14].
Paradossalmente – e significativamente – questo straordinario risultato di “rendere il mondo ancora più illusorio di prima” sarebbe decretato proprio dal trionfo delle tecniche, come Baudrillard afferma esplicitamente: “È proprio questo (…) il destino di tutte le nostre tecniche: rendere il mondo ancora più illusorio”.[15]
“L’altro versante”, ovvero gli effetti della scomparsa dell’Altro nel nostro quotidiano
L’affermazione di questo nostro mondo totale e indiscutibile costruito a tavolino dalla scienza e dalla tecnica ha determinato – come Baudrillard si è speso a spiegare nella prima parte del libro – l’annullamento degli spazi vuoti della distanza, e quindi della pre-condizione necessaria per l’esercizio dell’intelligenza speculativa, della critica, da ultimo dell’arte intesa come estetica dell’interpretazione: in una parola è scomparso l’Altro/altro, in tutte le sue forme.[16]
La prima forma fattuale di alterità annullata su cui il filosofo francese si sofferma è quella a suo giudizio incomparabile tra il maschile e il femminile.[17] Se caratteristica fondamentale del Virtuale è la costruzione razionale, misurabile, totale di un mondo senza mistero e senza imprevisti (senza destino), è inevitabile che tutte le cose – anche quelle che appartengono a categorie tra loro incomparabili come, appunto, il Femminile e il Maschile – debbano essere ricondotte ad un unico paradigma, a una matrice comune che permetta di metterle a confronto e di rivelarne semmai le differenze. Quale che sia la ragione dello sterminio dell’alterità – semplicemente la temiamo, o la nostra individualità è diventata così preponderante da pretendere di vedersi specchiata nelle cose? -, “Fatto sta che l’alterità viene a mancare, e che bisogna assolutamente produrre l’Altro come differenza, al posto di vivere l’alterità come destino.”[18]
Mentre però la percezione del sesso opposto come incomparabilmente Altro suscita il desiderio, la passione, l’ebbrezza vitale e un po’ spericolata della seduzione, la riduzione di uomo e donna a un catalogo di differenze anatomiche, biologiche, psicologiche etc. finisce per rendere i due sessi sostanzialmente uguali e quindi indifferenti l’uno all’altro. Anzi, spiega Baudrillard, i connotati superficialmente distintivi di uomo e donna, una volta cancellato il fondo oscuro e inafferrabile dell’alterità, possono facilmente passare dall’uno all’altro, facendo dei giorni nostri “l’era del Transessuale”.[19]
“L’utopia della differenza sessuale” – ragiona ancora il filosofo francese –, subentrata allo sterminio dell’Altro, opera attraverso un meccanismo di proiezione, per cui l’uomo non desidera più la donna reale, ma quella ideale modellata a immagine e somiglianza della sua propria parte femminile, e così, viceversa, la donna: di fatto non si desidera più l’Altro, che al contrario si teme, ma in un certo senso il Medesimo, in un corto circuito che porta inesorabilmente ad una società asessuata.
Nel frattempo, però, questa sessualità proiettiva e ideale sarebbe la causa dei fenomeni attualmente sempre più diffusi della pornografia, approdo della sessualità maschile malata di differenza e di idealizzazione proiettiva, e della “molestia sessuale: caricatura fobica di ogni approccio sessuale, rifiuto incondizionato di sedurre e di essere sedotti.”[20]
Baudrillard non offre proposte concretamente operative per uscire da questa situazione. La soluzione, generale, è però un filo rosso che continuamente si immerge e riemerge tra le righe del libro: “Occorre tenere aperte l’alterità delle forme e la disparità dei termini, occorre tenere vive le forme dell’irriducibile.”[21]
La perlustrazione ragionata del nostro mondo attuale prosegue serrata nelle pagine successive. Se l’eliminazione dell’Altro come mistero e come destino si è compiuta negli ultimi decenni sotto i colpi della scienza e della tecnica e per l’avvento decisivo del Virtuale – di un reale cioè razionale e perfetto a coprire il Reale sempre sfuggente sottotraccia -, è un fatto però che noi senza l’Altro non sappiamo vivere. Ecco dunque che esso viene resuscitato nelle forme della differenza: la donna non è più altra, ma solo differente, lo straniero non è più altro, ma differente, in fondo anche l’individuo per me non è più altro, ma differente. Mentre però la dimensione dell’alterità, con la sua stranezza, genera passione e pienezza vitale[22], la differenziazione superficiale surrogata ci rende “indifferenti” “E segretamente disperati per questa indifferenza, e gelosi di ogni forma di passione, di originalità, di destino.”[23]
È a questo punto che il filosofo inserisce una sua riflessione – pertinente e assai convincente – sulla drammatica situazione balcanica di quegli anni (il 1994 è l’anno dell’assedio serbo di Sarajevo).[24]
L’annullamento dell’Altro e il conseguente paradigma assoluto della differenziazione sono forieri di “Tutte le forme di discriminazione maschilistica, razzistica, etnica o culturale”[25], così come di una fondamentale indifferenza. Questa indifferenza però può sfociare tanto nel razzismo (cerco l’Altro scomparso come diverso da odiare), quanto nella solidarietà umanitaria (cerco l’Altro scomparso come vittima di un destino che temo ma di cui ho una insopprimibile nostalgia).
Ribalta così Baudrillard la logica umanitaria che correva in quegli anni su tutti gli organi di informazione e in tutte le sedi della politica: non gli abitanti di Sarajevo, o i bosniaci in generale sarebbero state le vittime bisognose dell’intervento dell’Occidente, ma noi occidentali le vittime di un ordine ormai antropologico che avrebbe reso asettiche le nostre vite: sottratti all’imprevedibilità della “parte maledetta”, senza un destino, noi uomini della realtà patinata e assoluta del Virtuale avremmo la necessità assoluta di immergerci – davvero per interposta persona – nella realtà vera, drammatica, fatale di chi un destino ancora lo vive quotidianamente.[26]
Ma il passo dalla riflessione filosofica all’analisi storico-politica è breve. In fin dei conti se è logicamente fondato affermare che il nostro bisogno dell’Altro che abbiamo sterminato si traduce nello sforzo – conscio o inconscio – di determinare o cristallizzare situazioni in cui la parte maledetta imperversi senza che noi ne siamo direttamente toccati[27], è d’altra parte indubbio che chi è politicamente deputato a deliberare in conformità a questo assunto ne è anche pienamente responsabile: è “l’Europa reale, l’Europa bianca, imbiancata, integrata e pulita, moralmente come economicamente ed etnicamente.”[28]
Tirate le somme, la società del suo tempo (e profeticamente del nostro) che Baudrillard ritrae è caratterizzata da “passioni senza oggetto, passioni negative, nate tutte dall’indifferenza (…) e dunque destinate a cristallizzare preferibilmente su qualsiasi cosa.”[29]
Questa indifferenza, “che risponde all’indifferenza tecnica delle immagini” dell’informazione globale, d’altra parte, sfocia inevitabilmente nel “nervosismo”, che il filosofo francese definisce efficacemente come “una forma allergica senza un oggetto definito”, a sua volta destinato a trasformarsi in un odio senza oggetto definito, estremamente volubile: “All’odio nato dalla rivalità e dal conflitto si oppone quello nato dall’indifferenza accumulata, che può cristallizzare bruscamente, in un passaggio all’estremo.”[30]
Eppure – conclude Baudrillard – forse quest’odio è paradossalmente il segno auspicato di una reazione a un ordine (mentale, culturale, politico etc.) universale che pretende di “estirpare il male” – inteso al solito come la parte maledetta, misteriosa, irriducibile – dall’uomo “per farne un essere razionale”: “In questo senso l’odio, passione virale, è anche una passione vitale.”[31]
Sotto la patina di una realtà che ci sforziamo di costruire come un congegno integrale, razionale e interamente governabile, dunque, Qualcosa/qualcosa ancora si muove. Abbiamo fatto e facciamo di tutto per fare dell’Altro l’immagine specchiata di noi stessi, per spingere il mondo e le cose dentro lo specchio che ci riflette, che rimanda sempre l’immagine del Medesimo, ma – preconizza Baudrillard – “Questa schiavitù del medesimo e della somiglianza sarà un giorno spezzata dal riapparire violento dell’alterità”[32], senza peraltro che sia dato sapere con quali esiti concreti.
[1] J. Baudrillard, op. cit., pag. 67
[2] Ivi, pag. 44
[3] Cfr. ibidem: “Il delitto è all’origine di tutte le culture, come l’acting out per eccellenza. E in questo senso la stessa impresa tecnologica può passare per una proiezione criminale, per un acting out sacrificale, per un esorcismo, una di quelle forme eccentriche che eludono la gravità dell’esistenza.”
[4] J. Baudrillard, op. cit., pag. 78
[5] J. Baudrillard, op. cit., pag. 79
[6] Cfr. ivi, pag. 70: “Finora abbiamo pensato una realtà incompiuta, travagliata dal negativo; abbiamo pensato quel che mancava alla realtà. Oggi si tratta di pensare una realtà alla quale non manca niente, degli individui ai quali non manca potenzialmente niente, e che dunque non possono più sognare un’elevazione dialettica.”
[7] ivi, pag. 69
[8] ivi, p. 71, passim
[9] Il capitolo, intitolato Lo snobismo macchinale, è compreso nella prima sezione dell’opera (pp. 81-90).
[10] J. Baudrillard, op. cit., pp. 82-83, passim
[11]J. Baudrillard, op. cit., pag. 82: “Questo è Warhol e la sua ipostasi seriale dell’immagine, della forma pura e vuota dell’immagine, la sua serie di icone estatica e insignificante”
[12] Cfr. ivi, p. 86: “L’estetica restituisce un dominio del soggetto sull’ordine del mondo (…)”
[13] Ivi, p. 86
[14] Ivi, p. 94
[15] Ivi, pag. 89
[16] Cfr. J. Baudrillard, op. cit., p. 117 per una rapida sintesi di queste forme dell’altro: “(…) l’altro in tutte le sue forme (malattia, morte, negatività, violenza, stranezza), senza contare le differenze di razza e di lingua, (…) tutte le singolarità (…)”. Un elenco ancora più esaustivo, corredato di una bruciante spiegazione della sua scomparsa ad opera del Virtuale, è nella pagina introduttiva di questa seconda sezione (p. 113). Cito ad esempio l’alterità “della morte, che si scongiura con l’accanimento terapeutico”, o “Quella del volto e del corpo, che si perseguita con la chirurgia estetica”. La serie si conclude significativamente con l’attestazione che “Non vi è più destino”.
[17] Cfr. ivi, p. 126: “Il Femminile e il Maschile sono (…) due termini incomparabili.”
[18] Ivi, pag. 119
[19] Ivi, p. 121. Cfr. anche più sotto (pp. 121-122): “L’utopia della differenza sessuale termina nella commutazione dei poli sessuali e nello scambio interattivo. Al posto di una relazione duale, il sesso diventa una funzione reversibile.”
[20] J. Baudrillard, op. cit., p. 125
[21] Ivi, pag. 127. Cfr. anche p. 134:” Possiamo soltanto ricordarci che la seduzione consiste nella salvaguardia della stranezza, nella non riconciliazione. Non bisogna riconciliarsi con il proprio corpo, né con sé stessi, non bisogna riconciliarsi con l’altro, non bisogna riconciliarsi con la natura, non bisogna riconciliare il maschile e il femminile, né il bene e il male. In ciò risiede il segreto di una strana attrazione.”
[22] Anche nelle forme opposte della attrazione o della repulsione, precisa Baudrillard chiamando in causa i “resoconti antropologici fino al XVIII secolo, e persino (…) la fase del colonialismo” (p. 136)
[23] J. Baudrillard, op. cit., pag. 135
[24] Si tratta di una autocitazione, dato che viene riprodotto l’articolo originale apparso sulle pagine di Libération il 6 gennaio 1994, come spiega l’Autore in una nota (p. 136, nota 1)
[25] Ibidem
[26] Cfr. J. Baudrillard, op. cit., p. 138: “Noi però sappiamo meglio di loro cos’è la realtà, poiché li abbiamo designati a incarnarla. O semplicemente perché si tratta di ciò di cui noi, e tutto l’Occidente, manchiamo maggiormente. Bisogna andare a rifarsi una realtà là dove c’è sangue”
[27] Alla pag 141 Baudrillard definisce la nostra una “società vittimale”, intesa “come la forma più facile e più banale di alterità. Resurrezione dell’Altro come sventura, come vittima, come alibi – e di noi stessi come coscienze infelici che ricavano da questo specchio necrologico un’identità a sua volta miserabile.”
[28] J. Baudrillard, op. cit., pag. 140. Pochi righi sotto, ad allargare il quadro di questa ghettizzazione dell’Altro, il filosofo spiega l’immobilismo europeo del tempo come “una fase logica e ascendente del Nuovo Ordine Europeo, filiale del Nuovo Ordine Mondiale, che è ovunque caratterizzato dall’integralismo bianco, dal protezionismo, dalla discriminazione e dal controllo.”
[29] Ivi, pag. 148
[30] Ivi, pagg. 150-151, passim
[31] Ivi, pag. 152. Acuta e lungimirante, poco sotto, l’estensione dell’analisi al campo della geopolitica: “È lo stesso sentimento che nutre, in tutti i popoli non occidentali, questa denegazione viscerale, profonda, di ciò che rappresentiamo e di ciò che siamo. Come se anche questi popoli avessero l’odio. Per quanto si prodighi loro tutta la carità universale di cui siamo capaci, vi è in essi una specie di alterità che non vuole essere compresa (…).”
[32] J. Baudrillard, op. cit., pag. 154
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Discorso quanto mai attuale, e ricchissimo di implicazioni (d’ogni tipo).
L’ineducazione delle coscienze si riflette in una sorta di infantilismo del pensiero (a sua volta connaturato a una forma irriducibile di protesta del proprio sé, in quanto atavismo animale-gruppo-identità vs altro, per quanto simile-mondo restante a sé stante-falso doppio necessario e perturbante), che evidentemente non può che indulgere al buio del proprio mistero (poiché infinitamente potenziale e critico!), nonostante qualsivoglia conquista tecnico-scientifica o, persino, acquisizione logico-psicologica.
Tuttavia, ogni possibile indifferenza “cattiva e sorniona” e livellatrice ci minaccia sempre dall’esterno, mai dall’interno. Io credo che sia l’inadeguatezza del singolo (o piuttosto la sua percezione), sempre più plurale e massificato, nella sua (in)capacità di analisi e risposta alla trasmutazione dell’alterità (che dunque mai svanisce, ma sempre si trasforma) a ingenerare nevrosi e scismi dell’invidia. E ciò, oltre al rischio di una “società vittimale”, porrebbe l’attenzione anche su quello di una società del disprezzo, che all’occorrenza è disposta con troppa facilità a denegare e rigettare i frutti (e il prezzo da pagare) di una democrazia fallibile ma pur sempre auspicabile ed emendabile.
Vi è una forma di resistenza davvero eroica nell’uomo, e disperatamente giusta, ma essa non può prescindere dall’amore (nel senso ampio e nobile che lo rende ineffabile, eppure intuibile, interrogabile).
Alla fine, non è tanto un problema di apparenze, ma sempre di Realtà (una e trina e altra).
L’uomo ha fatto tutto il giro, è tornato all’inizio, ma con uno sgomento in più di consapevolezza (e diversa rabbia)… inaccettabile! Davvero Lui/Lei/Loro non è/sono poi tanto diversi da quello/-a/quelli di un po’ di tempo fa? Chi non vuol soffrire, chi non deve a tutti i costi capire (tutto e tutti), chi non può morire.
Davvero l’uomo non è mai cambiato, davvero la questione è antropologica: desideriamo conoscere quanto ci circonda (conoscere, cioè riportare alla nostra dimensione individua anche ciò che è irriducibile alla nostra dimensione), ma nello stesso tempo solo ciò che ci sfugge ci affascina e ci fa bruciare di vita. Siamo gli esseri più inafferrabili e contraddittori che si possa immaginare (vedi Sofocle, che nell’Antigone definiva “deinoteron” l’uomo: la sapevano lunga i tragici greci…). Il punto chiave posto da Baudrillard è però la svolta impressa a questa caratteristica tipicamente umana dalla affermazione totalizzante della scienza e della tecnologia. L’Altro si è perso (apparentemente) perché non ci sono più gli spazi (mentali, concettuali) per pensarlo, tanto il sapere scientifico ha “occupato” con le sue presunte certezze tutto il pensabile. In fin dei conti ci tocca sempre – e sempre paradossalmente – cercare di non “guarire” completamente, alla perfezione avrebbe detto Baudrillard.
“Apparentemente”, esatto.
Non c’è pericolo finché potremo e sapremo dirci (anche) animali.
[…] Jean Baudrillard e il delitto imperfetto da Nazione Indiana […]
Il problema fondamentale di Baudrillard è naturalmente che lui era un filosofo dilettante, e la sua ignoranza in materia filosofica, specialmente in epistemologia, è quasi imbarazzante. Essendo però venuto a rappresentare l’archetipo di guru intellettuale nei salotti d’oltralpe, temo che ce lo dovremo portare dietro per qualche decennio ancora.