Vita di Alice/ 2
di Francesca Fiorletta
Alice non sentiva mai il suono della sveglia.
A notte fonda, faceva sempre sogni molto intensi, popolati per lo più da regnanti antichi col mantello rosso e feste danzanti in discoteca, api operose e cavalier serventi, lumachine bianche e magia nera; tornavano a trovarla strani volti del passato, amiche d’infanzia trasferite precocemente all’estero, fidanzati nerboruti che le avevano insegnato l’amore a vent’anni.
Talora, le sembrava persino di riuscire a indovinare gli accadimenti che si sarebbero verificati nell’immediato futuro: un cataclisma naturale, l’ascesa al potere di una nuova carica pubblica, la deflazione del prezzo delle derrate alimentari.
Quando iniziava a sorgere il sole, però, le fantasie notturne andavano via via scemando, lasciando il posto finalmente a un riposante sonno asciutto, mite e senza sogni. Alice poteva adagiarsi allora più comodamente fra lenzuola e coperte, e sprofondava i bei capelli morbidi in mezzo ai sette cuscini che le orlavano a pennello il letto.
Proprio a causa di questo suo atavico vizietto, conosceva bene le spire del ritardo. Fin da quando andava ancora a scuola, era sempre stata l’ultima ad entrare trafelata in classe, e se ne restava un poco in piedi vicino la porta, davanti agli occhi invidiosi dei compagni e alle bocche supplichevoli degli insegnanti. All’università non era stata da meno, e addirittura aveva scelto di seguire solo i corsi che si tenevano al pomeriggio, per il timore che potesse perdere qualche lezione importante.
Aveva iniziato poi a lavorare in un’azienda di cosmetici, e benché avesse un orario flessibile, ogni sera preferiva comunque saltare la cena per infilarsi più svelta dentro il letto, e così aspettava con maggior agio e pazienza l’arrivo del suo sonno metafisico.
Un giorno qualunque, senza preavviso, le notificarono il licenziamento; da allora Alice si svegliò ogni mattina alle 6:53.
*
Alice non amava gli animali domestici.
Da sempre aveva avuto paura dei cani, forse perché non era mai riuscita a cavalcarne uno, come fosse un cavallo; i pesci rossi le trasmettevano un atroce senso di vuoto e claustrofobia, così racchiusi in quelle bocce d’acqua da salotto, e i criceti le facevano crescere l’angoscia su dalla bocca dello stomaco. Dei gatti non s’era mai fidata, e infatti faceva bene. Quando andava a casa del suo fidanzato, erano costretti a far l’amore sul divano, perché il gatto di lui le impediva persino di varcare la soglia della camera da letto.
Da ragazza, aveva avuto anche frequentazioni parecchio altolocate. Un pomeriggio d’autunno era stata invitata per un the a casa di un compagno di scuola. Lui proveniva da una famiglia molto facoltosa, il padre lavorava in banca, e forse addirittura ne possedeva una gran parte; la madre gestiva un circolo ricreativo giù in periferia, amministrava conti e piscine, gazebo e aperitivi per i divi del cinema e della tv, e dispensava saune e massaggi ai clienti più affezionati del bel coniuge brizzolato.
Quando Alice era entrata in casa loro, una domestica l’aveva accolta, sfilandole dalle spalle un cappottino troppo stropicciato, e l’aveva indirizzata verso un grande ascensore a vetri, che l’avrebbe condotta nel salotto del the.
Era contenta, Alice, si sentiva la principessa di una favola.
Raggiunto il gruppetto silenzioso degli amici, s’erano messi tutti a sedere su un enorme divano ad angolo in pelle chiara, che raccoglieva ai piedi un variopinto e pregiatissimo tappeto persiano. Il padrone di casa, d’un tratto, mentre inzuppavano educatamente i biscottini, li aveva ammoniti: “non abbiate paura”.
Con un gesto più che teatrale, aveva sollevato il tappeto, scoprendo una teca voluminosa, incassata nel pavimento. All’interno, campeggiava un’iguana.
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