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Minchia di mare – Arturo Belluardo

  Anteprima del secondo romanzo di Arturo Belluardo

MINCHIA DI MARE_Layout 1

 

MIO CUGINO

(in cui Buscemi Davide ha prima anni otto e mesi due, poi anni quattordici e mesi cinque e, per finire, anni diciannove e mesi sei)

C’erano tre motivi per cui mi scassavo la minchia ad andare d’estate in campagna dai miei zii.

In primisi, perché non c’era nenti che fare, solo un gran cauru e zanzare e mi annoiavo come mai nella vita. In secundisi, perché ogni volta, al ritorno a casa nella 600 bianca, mio padre e mia madre si sciarriavano: mio padre diceva a mia madre che gli aveva rovinato la vita, l’aveva fatto finire nelle case popolari della Borgata, che sa suoru sì che aveva fatto fortuna maritandosi un questore pieno di picciuli.

Una volta che la 600 si fermò in mezzo alla campagna di Avola, con il fumo che le nisceva dal radiatore, mio padre aveva fatto scendere mia madre ad ammuttare, dicendo che era tutta colpa sua.

Infine e soprattutto, mio cugino Uccio. Mio cugino era più grande di me di un anno e si chiamava Davide com’ammìa, epperò mentre ammìa mi chiamavano intero, per lui usavano il diminutivo. Forse perché era babbu, scimunito, ma scimunito vero. D’estate in campagna dai miei zii, con i miei genitori che non si parlavano, con quel gran cauru, l’unica cosa da fare era andarsene a caccia di grilli per i campi di grano con quel babbu di mio cugino Uccio.

Giravamo sotto il sole, armati di paletta e secchiello, tra le spighe appena mietute che ci fiddiavano i piedi, lasciandoci vesciche e papole a tinchitè. Camminando, sbattevamo forte i sandali del dottore Sciolt, raccussì i grilli si scantavano e saltavano via. Il gioco era di schiacciarli con la paletta non appena atterravano, prima che saltassero un’altra volta. Poi li mettevamo nel secchiello per darli da mangiare ai pesci russi nella gebbia di pietra.

I grilli avevano le ali di colore diverso, russe e verdi di solito, raramente viola. «Chiddi viola sono i più buoni» mi disse un giorno mio cugino Uccio, portandosene uno alla bocca. «Tiè ccà, assaggia» bofonchiò, con una zampina che gli nisceva dalle labbra. E mi spinse un grillo verso la faccia.

«Mangia! Mangia, ti ho detto» iniziò a schigghiare Uccio vista la mia riluttanza. «Non sei masculu se non mangi!». Nuddu doveva dubitare della mia virilità e mi infilai l’insetto in bocca; il grillo, però, era ancora vivo e mi abbastò sentirmelo muovere sulla lingua per mettermi a sputare e a rovesciare.

«Sei proprio una minchia di mare» commentò Uccio. Il papà di Uccio fu trasferito a Genova e raccussì per alcuni anni li vedemmo picca e nenti. Poi suo padre fu nominato questore e ci ritrovammo insieme al liceo. Uccio, crescendo, era diventato ancora più babbu. Ora arrinisceva a pigghiare al volo pure le mosche e a mangiarsele con gran piacere. Abbastò poco e Uccio diventò il protagonista passivo di tutte le pigghiate

pu’ culu, di tutti gli sgherzi, di tutti i gavettoni di pisciazza del liceo Gargallo. Io, che mi vergognavo ad avercelo come cugino, ero tra i suoi aguzzini più feroci.

Ma a Uccio sembrava non importare, gli piaceva essere al centro dell’attenzione dei compagni, quasi fosse un eroe; a ogni scherzo, anche violento, rideva: «Amicu! Amicu mio!».

Accadde che i poliziotti pestarono a sangue rinnanzi a scuola Ciancio Carmelo, uno di Lotta Continua, perché dicevano che si fumava gli spinelli.

Il giorno dopo scioperammo e andammo a manifestare alla questura contro i poliziotti assassini, agitando le mani nel segno della P38. Uccio pareva ’mpazzuto.

 


 

ARTURO BELLUARDO
È nato e cresciuto a Siracusa, ma vive a Roma con due donne e due gatti. Il suo romanzo Il ballo del debuttante è stato segnalato al Premio Calvino 2016. Le sue storie sono state pubblicate su «Lo Straniero», «Buduàr», «Succedeoggi» e «Mag O» e in antologie edite da Nottetempo e dal Goethe Institut.

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