Salon de coiffure
di Kika Bohr
A volte di sabato mattina mia zia Monique andava al “Salon de coiffure” e mi piaceva accompagnarla.
C’erano due negozi, negli anni 60, a Ginevra, che formavano un angolo arrotondato in una piazza alberata chiamata “Plateau de Champel”, a circa 400 m da dove abitava il nonno, Grand-Papa Paul. Il più frequentato era la Boulangerie, ci si andava quasi tutti i giorni. La domenica, uscendo dalla messa, se il nonno era di buon umore, oltre al pane dalla crosta dorata e croccante si comprava anche o una “treccia” o qualche tarte. (Queste erano talmente buone che Grand-Papa Paul affermava a voce alta che per un’altra di quelle “sarebbe andato fino là in ginocchio!”) La boulangerie aveva un campanello sulla porta e si scendevano un paio di gradini per entrarvi.
Per entrare nel Salon de coiffure invece, si salivano tre gradini.
Non c’era un campanello per entrare ma un forte profumo di lacca e di colonia. Mia zia Monique (lei era la mia madrina di battesimo e per questo veniva chiamata da noi bambini “Manine”, un incrocio tra “marraine” e per l’appunto Monique) Manine dunque ci andava sempre di sabato mattina perché durante la settimana lavorava o andava a scuola (scuola di fisioterapia). Non al sabato pomeriggio perché ci sarebbe stato troppo affollamento e lei detestava la calca. Quindi si aspettava poco e il parrucchiere si metteva all’opera. Shampoo, taglio e grande casco per asciugare. Io piccola ero libera di girarle attorno e ammirare questa cerimonia alla bellezza. Quando usciva i suoi capelli neri corvini e riccioli naturali erano proprio corti ma lei sprizzava energia e allegria. La sua testa mi faceva automaticamente pensare al Bogà lo splendido barbone gigante dell’altro nonno ginevrino, il Cache. Mi è difficile ora ritrovare un’analogia, ma forse allora era lei stessa che mi aveva detto un giorno “je suis frisée comme un caniche!”. E poi ricordo come appunto i “caniches” del Cache uscivano eccitatissimi e vanitosi dal toilettatore
Mia madre Christiane non aveva bisogno di andare da un parrucchiere per essere bella. Portava sempre i suoi ricchi e lunghi capelli castani raccolti in un elegante chignon. Unico vezzo una frangetta, a volte più lunga a volte più corta, secondo la moda (o la sua moda personale? O il suo umore?).
Io avevo i capelli fini e biondo chiaro di mio padre, non assomigliavo in questo né a mia madre né a Manine.
Un sabato però (avrò avuto quasi tre anni), pur non avendo i capelli ricci, ho rischiato di assomigliare di più a un barboncino anch’io. Manine mi ha portato dal coiffeur e mi ha fatto tagliare i capelli: corti. Mi hanno issato su un seggiolino speciale. Tutti molto sorridenti. Una sorpresa per Christiane. Ella invece era furibonda. Non gliene importava nulla che fosse “moderno”. Mi sono vergognata di essermi lasciata convincere così facilmente.
Il secondo taglio all’età di 8 anni. Ogni volta che ero a Ginevra continuavo ad accompagnare Manine dal parrucchiere. Nel frattempo non andavamo più fino al Plateau de Champel perché ne era venuto uno nel palazzo che avevano appena finito di costruire di fronte al nostro. Tutti deprecavano questa enorme costruzione di otto piani, bianchissima che ci aveva privato della vista sul parco di un villino fine secolo: alberi secolari, cedri del libano, scoiattoli e uccellini di ogni genere.
Però sotto avevano messo una Coop e un coiffeur. Noi bambini attraversavamo con un po’ di timore la strada (la mamma ci guardava dal balcone del quarto piano) e andavamo a prendere il pane o il latte alla Coop. Mia zia andava dal nuovo parrucchiere, molto più chic. Il coiffeur, italiano, era caricaturale: basso, olivastro, capelli nerissimi tirati all’indietro e brillantinati, strette basette e il bianco dei suoi grandi occhi scuri completamente giallo. Col camice a doppiopetto impeccabile a volte azzurro-turchese, a volte bruno-bordò era seducente e ripugnante allo stesso tempo. Mia zia lo adorava e lo riempiva di lusinghe sulla sua bravura. Voleva sempre che parlassi con lui in italiano. Io naturalmente mi vergognavo di essere esibita come bambina prodigio ma allo stesso tempo ero stupita che anche lui non ne provasse alcun piacere. “Facciamo un’altra sorpresa a Christiane?” Mi rifaccio tagliare i capelli. Mi fanno una treccia molto alta e ben legata poi me la tagliano e ricordo benissimo come subito la portano nel retrobottega. (Mi rubano la treccia!) Finito il taglio alla Giovanna d’Arco mi spruzzano un po’ di profumo e già comincio a pentirmi di essermi prestata. Arrivate a casa, ricordo solo che mia madre si è precipitata dal coiffeur. Voleva recuperare la mia treccia ma non c’è stato niente da fare, lui ha stragiurato che non l’aveva più, che l’aveva buttata via. Non ci potevamo credere. Manine non capiva perché eravamo così tristi e furibonde allo stesso tempo. In fondo non stavo male con quel nuovo taglio!
Il cerchietto . A scuola invidiavo le bambine col cerchietto, le prime della classe. Cerchietto e capelli non molto lunghi, non corti però, ondulati, a volte boccolosi e comunque di un bel castano. Queste ragazze avevano anche nomi italiani che suonavano bene in bocca, Paola, Elda, Lucia. Non che non tenessi alle mie treccine tanto che avevo pianto e strillato quando un giorno, in seconda elementare, un compagno scherzoso me ne aveva intinta una in un calamaio. Però quei cerchietti! Un giorno un’amica di famiglia, la Elia Morandotti, me ne regalò uno suo. Era di un bel velluto marrone. Ma non si adattava bene alla forma della mia testa, stringeva da un lato ed era largo dall’altro. Come mi sarebbe piaciuto avere una testa più tonda come le altre ragazze della mia classe! A furia di tentare di adattarlo l’ho rotto: dentro era di plastica e non si poteva riparare.
La parrucca Ero già alla scuola media quando pensai di comprarmi una parrucca da bagno. Era la fine degli anni ’60, le parrucche erano molto di moda: la nostra vicina Elide ne aveva una più vari toupet, e noi avevamo indossato parrucche di carnevale travestendoci ora da giapponese (parrucca di carta velina) ora da selvaggia africana (parrucca di lana) riscuotendo un gran successo nel vicinato . Giugno, la scuola appena finita, e il salvadanaio non del tutto vuoto. Facendo una commissione alla Standa vedo tra gli articoli da spiaggia, una cuffia da bagno che è come una parrucca, ricci di un bel color castano impiantati nello strato superiore della gomma, come i capelli di una bambola. Non esito ad investire tutti i miei risparmi per questa ingegnosa trovata. Appena fuori dal grande magazzino calzo la parrucca e mi godo l’incognito. La portinaia mi riconosce e distrattamente, (credendo che mi fossi tagliata i capelli) mi dice “come stai bene!” Me ne vado gongolante al parco alla ricerca di mia madre che doveva essere lì con il fratellino Olaf ancora bebè. Vedo Christiane che mi viene incontro con passo veloce: “che cosa ti succede? Ti ho visto da lontano e ho pensato chi è quell’idrocefala? Andiamo subito a restituire quell’orrore!” Così abbiamo dovuto comprare un costume da bagno perché eravamo obbligati a prendere una cosa nello stesso reparto. Il mio primo due pezzi: rosso. Mia madre ha dovuto fare una cucitura per ridurre il seno. La stoffa era un jersey che pizzicava, e ancor più sulla cucitura. Non pensavo più alla parrucca – la decisione di mia madre mi aveva convinta subito, non volevo certo essere un’idrocefala!- ma ero furibonda che il mio salvadanaio si fosse svuotato per un affare così poco pratico. Beati i maschi che non dovevano mettere il bikini.