La vita è un corpo
di Alessandro Garigliano
Non mi piace essere sentimentale, per cui mi è difficile recensire Una vita come tante, scritto da Hanya Yanagihara e tradotto da Luca Briasco (Sellerio 2016). Ma è stata una lettura, se non travolgente perché la storia non è incalzante, di certo appassionante, terribilmente appassionante. Sospendere la lettura, anche per poche ore, costava fatica e, mentre facevo altro, i personaggi e le trame del libro non mi abbandonavano mai, continuando a danzare nella mia immaginazione con una sensualità malinconica eppure conturbante. Un gruppo di amici – l’avvocato Jude, l’artista JB, l’attore Willem e l’architetto Malcolm – abita a New York, città nella quale le ambizioni stimolano e stritolano, ma dove, nonostante gli esordi incerti, alla fine tutti riusciranno a ottenere quanto desiderano. Le dinamiche del gruppo vengono scandagliate in profondità. Vengono cantate le sofferenze, i trionfi e le depressioni di ognuno, ma anche le piccole guerre delle loro esistenze stabilizzate, la quotidianità. Quello che potrebbe essere definito il protagonista, Jude (in realtà gli amici, soprattutto nella prima parte, hanno un rilievo solo leggermente minore nella trama), ha una personalità complessa: ho visto battagliare in un unico personaggio, come mi era capitato solo con Cristo, eroismo e vittimismo. Jude è seppellito vivo nel suo passato. Ha subìto traumi che come fossero un cancro accrescono le loro metastasi fino al presente. E mente agli amici, non fa che mentire. Solo al suo grande amore riserva la verità, e una travagliatissima felicità. Contro gli amici, invece, contro tutti gli affetti riesce soltanto a trincerarsi dietro la menzogna più ottusa, divorata in modo cannibalesco dai sensi di colpa. Jude sembra essere rappresentato quasi esclusivamente dal suo corpo, un corpo nel quale, lungo una via crucis scandita negli anni, si straziano le carni e suppurano le piaghe, con una fisicità capace di attrarre un amore generoso fino al sacrificio e una paura devastante.
E mentre il Tempo in tutto il testo si svolge e riavvolge rilasciando una sofferenza senza limiti – e una violenza ferina e una rassegnazione alla quale l’esistenza stessa sembra abbandonarsi –, per altri versi in quel Tempo si stagliano lotte convulse che a volte si sublimano in martirio: dispiegandosi infine in una forma maestosa di resistenza. Ma tra queste trame è sempre il Passato che travolge e domina. Il rimosso ritorna senza concedere tregue, facendo vivere una vita braccata da ricordi che, anziché dissiparsi come ombre durante il passare dei giorni, con una forza demoniaca inarrestabile condizionano tanto la vita da renderla, essa stessa, ombra.
Il narratore (la narratrice!) è onnisciente, con qualche rara apertura e solo per un personaggio, alla prima persona singolare. Ma anche quando narra in terza persona – conoscendo il passato e il presente dei personaggi, le loro vicende esteriori e i pensieri più reconditi – la scrittrice lo fa con una sensibilità tale da far sembrare il suo racconto una prospettiva multipla in soggettiva, donando a ogni personaggio un’intimità e una dignità in grado di non permettere a nessuno di poter distaccarsi.
In tutte le recensioni che ho letto, Una vita come tante viene definito ottocentesco ma moderno; eppure io queste distinzioni di tempo, queste cesure, in letteratura non le ho mai capite: e non finirò mai di trovarle inaccettabili. Capisco che per necessità accademiche e di critica in generale – per questioni di metodo o didattiche – si è costretti a dividere il tempo della cultura in correnti e schemi, ma io la letteratura, e la cultura in generale, l’ho sempre vissuta trapassando le epoche e sfociando in una sincronia assoluta: io non faccio che ritrovare nelle trame dei migliori romanzi di ogni momento storico forme di tempi passati e, nei casi perfetti, di tempi futuri.
Bel pezzo, Sottoscrivo sulle distinzioni di tempo, cesure ecc.