Mariapia Veladiano, “Io sto in alto”

di Antonella Falco

Veladiano

Il libro come oggetto d’arte. Esteticamente bello: da sfogliare, da guardare, non solo da leggere. Curato nella veste editoriale: la finezza della carta, l’eleganza dell’impaginazione, la cura delle rifiniture, la precisione della grafica di copertina, la bellezza delle illustrazioni. E, su tutto, la preziosità di un’edizione unica, limitata e fuori commercio. Un piccolo scrigno di carta, dall’aspetto artigianale, che racchiude un minuscolo prodigio di parole e figure. È tutto questo Io sto in alto di Mariapia Veladiano, «racconto piccolo» – per stessa dichiarazione dell’autrice che tale lo definisce nel sottotitolo – splendidamente illustrato da Edoardo Fontana e pubblicato dall’editore Kellermann di Treviso, nella collana “I quaderni del Panevin” curata da Francesco Permunian.

La prima cosa su cui ci si sofferma sfogliando questa plaquette da collezione è proprio la sezione grafica: fiori, farfalle, figure femminili leggere e sinuose che attraversano impalpabili le pagine nella loro concretezza di sogno. Nell’ammirare il tratteggio minuzioso di un’ala di farfalla o la curva flessuosa che disegna una gamba o la linea che, essenziale e precisa, traccia il profilo di un volto si finisce per avere un sentore del perché l’essere umano, dotato di una simile perizia artistica, stia «in alto»: il «capolavoro della creazione. O dell’evoluzione», come scrive l’autrice nell’incipit del racconto.  Nel breve testo che si alterna alle illustrazioni, infatti, Mariapia Veladiano, ricorrendo alla metafora del volo riflette sulla natura dell’uomo, vertice supremo della creazione, secondo la dottrina cristiano-cattolica, ed elemento più alto della scala evolutiva, secondo una visione più prettamente scientifica. Argomento importante, potenzialmente gravoso, tale da esigere uno sforzo intellettivo e un impegno notevoli: materia buona per un saggio, teologico o scientifico che sia, e invece l’autrice affronta la questione affidandola alla levità di una narrazione letteraria, in cui tuttavia la leggerezza, parafrasando le celebri parole di Italo Calvino, «non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore».

Il racconto di Veladiano è un piccolo apologo di raffinata bellezza. L’essere umano sta in alto, o almeno può starvi, se vuole. Certo, non è provvisto di ali come gli insetti e gli uccelli: per l’uomo «in effetti è più laborioso star su», deve aiutarsi con la tecnica. Ad ogni modo può scegliere, per volare, tra una vasta gamma di «ordigni», velivoli con o senza motore, e può librarsi più in alto di tutti gli altri esseri, quasi fino a «chiamare in causa il trono di Dio», o anche più su, ad esplorare il cosmo: andare sulla Luna, su Marte, spingersi fino ai confini (ve ne sono?) dell’universo. In alto nel cielo. Ma in alto anche nella scala evolutiva: tutti gli altri esseri ai propri piedi. E in alto anche fra i propri simili, in una competizione che può non risparmiare colpi bassi e sgomitate: «E poi c’è sempre qualcuno che vuol andar più su di me e mi tocca prendere la rincorsa, dar calci a destra e a sinistra, far cuore forte perché mica mi posso fermare a veder se stan male, e quando son su mi devo pure guardare intorno, c’è sempre qualcuno che puff mi spilla a tradimento e addio, mi schianto, ecco, e non è che le metafore facciano meno male del duro suolo».

E allora ecco farsi strada un desiderio di quiete, la ricerca di un momento di tregua in tanto battagliare, volersi far pianta, fiore o bestiola, ché il volersene stare in alto ad ogni costo non sempre è motivo d’orgoglio: «Così mi incanto qualche volta, forse solo per riposarmi. Mi incanto a diventare pianta e fiore, immaginarmi tronco con portamento infuso, si può dire infuso? Naturale ecco. E poi uno stelo, sentirmi nell’aria e chiedermi come sto? Bene? Mi dondolo. E poi ancora mi trabocca lo struggimento di voler diventare arvicola e riposare sotto un franare piccolo di pinoli leggeri. Aspettare la neve. Coperta di cristallo, come Biancaneve, che idea bambina viene quando la lotta ci sfianca e non si vuol saper più nulla di sangue e ordigni e artigli. Anche criceto delle nevi, zampette di cristallo sui silenzi, da perderci lo sguardo nel bianco, filo di vita minuta. Perché c’è il silenzio, ecco, il silenzio fino ai quattro punti cardinali. Piegati in orizzonte bianco. E nel silenzio il sorriso di una lama pensante che un poco ci guarda. Ironico anche lui. Forse malinconico. O solo comprensivo».

L’argomento, come si è detto, presenta non poche implicazioni filosofiche. Tanto per citare un pensatore, tra i tanti che si potrebbero menzionare, la questione del ruolo e del posto che l’uomo occupa nel mondo (o, in un’ottica religiosa, nel creato) richiama alla memoria un celebre passo dell’Oratio de hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola che pone l’accento sul libero arbitrio umano il quale consente all’essere più alto della creazione di plasmarsi secondo la propria volontà, tanto nel bene quanto nel male: «Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nelle forme che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine». Un concetto in parte non dissimile viene espresso un paio di secoli dopo da Blaise Pascal che vede nell’uomo un essere mediano fra l’angelo e la bestia, o anche «un qualcosa di mezzo fra nulla e tutto», ossia «un nulla in confronto all’infinito», ma «un tutto in confronto al nulla». Ad ogni modo quella che per Pascal è una forma di mediocrità, per Pico della Mirandola è motivo d’eccellenza: la volontà permette all’uomo di determinarsi in una natura o nell’altra e questo lo rende superiore agli angeli. La superiorità consiste, dunque, nella facoltà di scegliere liberamente, nell’autodeterminarsi.

Questi sono tuttavia i piani alti, e per alcuni ostili, della trattatistica filosofica. Come sempre Mariapia Veladiano, con la sua scrittura delicata, sobria, elegante riesce a trattare temi importanti in una maniera accessibile anche a chi è poco avvezzo alle grandi speculazioni. La sua prosa è esprit de finesse che tiene conto dei moti dell’anima, che osserva con sguardo indulgente le passioni contrastanti e le piccole meschinità umane, e che parte da una conoscenza esistenziale più che sapienziale. C’è un tentativo di sintesi e di semplicità negli scritti di Veladiano, un voler essere spunto di riflessione e confronto più che verità rivelata e imposta senza contraddittorio.

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Una menzione speciale meritano le illustrazioni di Edoardo Fontana, disegnatore e grafico editoriale dedito da anni alla xilografia, arte antiquaria che nelle sue stampe risplende di nuova linfa. E proprio alle opere di un noto xilografo italiano del Novecento, Francesco Nonni, si ispirano i disegni realizzati da Fontana per Io sto in alto. Nella fattispecie, la grande illustrazione che campeggia al centro del libro appare fortemente ispirata a Il volo, una xilografia particolarmente complessa che Nonni realizza tra il 1913 e il 1914 ricorrendo all’impiego di sei matrici lignee diverse per l’applicazione dei vari colori (metodo non di rado usato da Nonni la cui emblematica figura di incisore viene ricordata anche per la capacità di realizzare xilografie di estrema difficoltà tecnica.

 

Edoardo Fontana illustrazione per Io sto in alto
Edoardo Fontana, illustrazione per Io sto in alto

 

Nonni-Volo
Francesco Nonni, Il Volo

nonni vere***

Il medesimo procedimento con sei matrici è usato, ad esempio, anche in un’altra sua celebre incisione, Vele romagnole, realizzata anch’essa tra il 1913 e il 1914). Il volo di Francesco Nonni si compone di tre figure alate: quella al centro fornisce innegabilmente a Fontana lo spunto per il suo disegno, permettendogli inoltre di omaggiare Nonni anche attraverso un altro richiamo stilistico: infatti tanto nelle xilografie quanto nelle ceramiche Nonni era uso tracciare delle spirali per disegnare i capelli, Fontana riprende questo dettaglio nelle piccole volute che decorano le ali delle farfalle collocate intorno ai piedi della figura femminile in posa semidistesa.  Farfalle che a loro volta richiamano una delle tre figure alate de Il volo di Nonni avente per l’appunto ali di lepidottero (le altre due hanno rispettivamente ali piumate e ali reticolate).

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Edoardo Fontana illustrazione per Io sto in alto 2
Anche l’ultima tavola contenuta nella plaquette cita Nonni, questa volta attraverso il riferimento a La rupe, parte di un trittico del 1908 noto col nome di I canti di Faunus, sebbene il motivo della rupe ritorni spesso nelle opere dell’incisore faentino tanto da rendere difficile rintracciare la vera origine dell’ispirazione di Fontana, che potrebbe aver attinto anche – e solo per fare due esempi – a L’olmatello (opera del 1925 che unisce le tecniche dell’incisione e dell’intaglio e che ha comportato l’impiego di quattro matrici) o a Vere, incisione su legno di testa, a due matrici, del 1912.

Ad ogni modo tale ricchezza di rimandi dimostra come i disegni di Fontana, in apparenza molto semplici, siano in realtà costruiti seguendo simmetrie e suggestioni talvolta sfuggenti, per stesso volere dell’artista, e tuttavia molto precise e circostanziate.

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L’illustrazione realizzata da Fontana per la copertina del libretto fa pensare invece a un ikebana, l’arte giapponese della disposizione dei fiori recisi, rinviando in tal modo a una passione dell’illustratore che proprio in Giappone ha affinato la sua arte incisoria e che della cultura e dell’arte nipponica è un fine conoscitore. Nella composizione dell’ikebana i fiori e i rami sono disposti sulla base di un sistema ternario che quasi sempre viene a tracciare la forma di un triangolo: il ramo più lungo – considerato anche il più importante – rappresenta il cielo o qualcosa che tende ad esso, il ramo più corto simboleggia la terra, quello intermedio raffigura l’uomo. L’ikebana, espressione di armonia, rimanda appunto alla necessità che questi tre elementi hanno di armonizzarsi fra loro per dar vita all’universo. L’illustrazione di Fontana rappresenta dei fiori stilizzati disposti per l’appunto secondo il tipico schema ternario della composizione floreale giapponese e sembra compendiare e racchiudere magnificamente in tale immagine, al tempo stesso semplice e potente, il senso del racconto di Mariapia Veladiano, confermando ancora una volta un binomio tipico dell’arte di Fontana, vale a dire la perfetta fusione tra semplicità delle forme e incisività del messaggio.

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