Sulle tracce di Belgrano in Liguria

di Marino Magliani

9788898657810.MAINTanto tempo fa, con una certa regolarità, mi capitava di frequentare un bar alla Spianata di Borgo Peri che assomigliava a quei locali della California, anche se io in California non c’ero mai stato. La vetrata dava sulle palme, e là sotto c’era il mare che faceva rabbrividire l’aria e le cose della riva.
Erano gli anni Settanta, di Calvino avevo letto La formica argentina, di Giuseppe Conte L’ultimo aprile bianco, Biamonti non aveva ancora pubblicato nulla, e quanto all’aria del bar, quella non mi pare sapesse di mare, ma odorava piuttosto di un’ottima pizza al taglio e al resto ci pensavano le nuvole di fumo.
A volte salivamo al piano di sopra, dove in mezzo al salone c’erano un tavolo da ping pong e alcune sedie. Facevo qualche partita con un compagno di classe che non c’è più da anni, caduto nel solco di un secolo per aver voluto conoscere i sentieri degli eserciti ai cancelli di Orione. E quando ora, d’estate, ma raramente, torno al bar, è come se in quella palma che cresce nella sala, con la sua corteccia paziente e spugnosa – la cui parte aerea sbuca dal tetto e guarda il mare –, rivedessi quegli anni.
Anche dalla sala da ping pong si poteva vedere il mare. Noi, sulle sedie che durante i nostri giochi non ospitavano nessuno spettatore (di rado l’amica che ci guardava mordendosi il labbro, e non sapevamo mai chi guardava, ma guardava lui), gettavamo i nostri giubbotti e a volte ci fermavamo all’improvviso a dare occhiate affamate a quel vuoto sfavillante. Era come se su quelle onde ci stesse cavalcando il futuro o ci stesse scappando già di mano. Oppure uscivamo sulla Spianata, davanti alla chiesetta con la cupola di campanile a scaglie lucenti e colorate, e se tra di noi c’era il poeta (che poi però non ha mai scritto nulla), gli chiedevamo di recitare quella poesia delle campane di Novaro…

oh come tutto sarebbe felice

se potesse vanire

nel blando suono

delle campane

…che ci piaceva molto. Andavamo a mettere le mani in avanti, sulla pietra bianca e porosa, le spalle a Oneglia. E dopo un po’, quando all’ultima ora di latino o filosofia restavo solo, mi incamminavo verso Diano. Tra le panche della stessa pietra bianca e porosa della balaustra, non c’era ancora il monumento a Manuel Belgrano. Io almeno non lo ricordo. In quel tempo di lui non sapevo nulla. Borgo Peri era per me una striscia sconosciuta di case scrostate, seccate e rose dal salino, erano uffici, alberghi dove non ho mai dormito, magazzini di pescatori, stabilimenti balneari dove non ho mai fatto il bagno. E Belgrano? Era come se non fosse ancora di moda? Eppure c’erano targhe d’ottone sui portoni della città, con quel nome, Belgrano, notai forse, avvocati, dottori. Non un cognome scaduto, dunque, ma niente di più: un generale comunque no, quel Belgrano, il Belgrano generale, apparteneva a una storia che stava ancora di là della Pozzanghera e attendeva, paziente, di essere traghettata nell’immaginario di uno studente pigro e distratto. Del resto, passando sotto le mura che in quegli anni ospitavano la biblioteca, chi racconta ignorava persino che quella strada corta, con le gru del porto al fondo, si chiamasse così. Via Belgrano.

Ero nato in un ricovero per anziani, a Dolcedo, roccaforte genovese, mentre la Oneglia e la Costa d’Oneglia di belgraniana memoria stavano nella vallata accanto ed erano appartenute alla corona sabauda. Casa mia, tuttavia, era a Prelà, un luogo ancora più interno, in fondo al sacco, dove la Val Prino si nasconde da tutto, anche dalla storia. E a metà strada tra Dolcedo e Prelà esisteva un piccolo beudo, il condotto di scoli piovani proveniente dal crinale delle Ciaze, un condotto che ai tempi del padre di Belgrano aveva fatto da frontiera tra due terre: di là la Dolcedo dei genovesi, di qua la Pietralata sabauda. Ecco, come tutto ciò che stava attorno a piazza Dante, la piazza geometrica e nuda e in miniatura simile alle piazze di Torino e Cuneo, ben si associava al fondovalle buio di Prelà da cui io muovevo i primi passi verso il mondo.
Appurato dunque che in un certo qual modo un astratto e furioso legame con Manuel Belgrano esiste, proviamo a capire, partendo da lontano, come si è giunti a questo libro.

. . .
. . .

 

NdR: questo testo è l’incipit dell’introduzione di Marino Magliani, intitolata “Mare del Nord, inverno 2016”, al suo “Il creolo e la costa”, edito recentemente da Fusta Editore (Cuneo)

 

Manuel_Belgrano

 

 

 

 

 

 

 

ritratto di Manuel Belgrano, di François Casimir

 

 

 

 

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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