Il respiro della laguna

ongarodi Edoardo Zambelli

Alberto Ongaro, Il respiro della laguna, Piemme, 2016, 204 pagine.

A volte aveva l’impressione che non esistesse e che i morti, i suoi e quelli altrui, finissero in ciò che vi era di invisibile nel mondo, una immensa dimensione contigua a quella visibile e talvolta con questa comunicante.

Un narratore, alla fine, potrebbe scegliere di salutare il mondo che lo ha abitato per tutta la durata della sua carriera. Questo, io credo, ha fatto Alberto Ongaro con il suo ultimo romanzo.

Ongaro non scriverà più, questo è l’ultimo libro finora inedito. Ne verranno altri, Piemme sta pian piano ripubblicando tutto, ma saranno riedizioni, storie già raccontate, anche se qualcuno (si spera) ancora non le ha lette.

Ecco, io Ongaro me lo immagino così: che sorride, mentre i nomi dei personaggi gli passano veloci nella testa, i viaggi che insieme hanno fatto si compiono e si risolvono nel giro di pochi istanti. E lui, Ongaro, sorride. Non c’è bisogno di fare ciao con la mano, basta pensarlo. O forse, ecco, Il respiro della laguna è l’equivalente di quel ciao con la mano.

Di cosa parla il libro?

Innanzitutto c’è da dire che è un giallo. Un genere che Ongaro non hai mai frequentato in modo esplicito, pur avvicinandosi di tanto in tanto a quei modi di fare, alle strutture della detection (penso a libri come Rumba o Hollywood Boulevard).

Le prime pagine introducono il tema che farà da filo conduttore per tutta la vicenda: la magia. Prima di tutto quella di Venezia, luogo che Ongaro ha sempre ammantato di un alone magico, di cosa viva e misteriosa. E poi la magia in generale, gli eventi impossibili da spiegare, gli invisibili fili che legano destini, tracciano mappe nella vita dei personaggi, e sono in grado (come nel caso di questo libro) di legare un caso irrisolto di parecchi secoli prima con ciò che sta accadendo nel tempo del racconto.

L’esposizione del tema, nelle prime pagine, è affidato a una coppia di anziani signori che dialogano tra di loro (e dialogheranno, esterni alle vicende, per tutto l’arco del racconto). I due, che di volta in volta leggeranno sui giornali o sentiranno alla radio di cosa sta succedendo in città, commenteranno gli accadimenti, esprimendo due posizioni contrastanti e apparentemente inconciliabili. Ovvero, detto in modo sbrigativo: uno attribuisce un significato magico agli eventi, l’altro alla magia non ci crede. In particolare, si fa riferimento a una leggenda secondo la quale la laguna sarebbe in grado di “sentire” quando è in atto un crimine particolarmente cruento o perverso e di reagirvi, gonfiando le proprie acque così da manifestare tutto il proprio sdegno verso le cose che accadono.

Perché l’anima della laguna potesse presentirlo e a suo modo combatterlo, l’evento criminoso, fosse pure nascosto dietro un’apparenza ingannevole, doveva portare i segni di una perversità insolita e profonda. Tutto il resto era folclore.

E la trama prende in effetti il via con un crimine all’apparenza sia cruento che perverso. Una notte, un uomo si introduce in una casa e rapisce un neonato. Non solo, accidentalmente ne uccide anche il padre che era accorso in aiuto del figlio. A indagare sull’accaduto, Damiano Zaguri, capo della squadra Anticrimine di Venezia. Discendente di un altro Zaguri, Signore di Notte nella Venezia del seicento.

Ecco, la vicenda, a sintetizzarla, sta tutta qui: un crimine si compie, qualcuno indaga, alla fine risolve il caso. Ovviamente, c’è molto altro. Ma non mi interessa parlare di questo, perché trovo più giusto che ogni lettore scopra da solo cosa un romanzo racchiude.

Quello che invece è, a mio avviso, più utile e interessante rilevare è come, pur muovendosi nel solco di un genere, Ongaro ne fa una rappresentazione peculiare, per certi versi più “leggera”. Mi spiego. È vero che tutto parte da un crimine orribile, il rapimento di un neonato appunto, ma è anche vero che tutto questo viene rappresentato non con la crudezza che di solito caratterizza questo tipo di narrazioni.

Piuttosto, mi viene da pensare, le vicende e la loro rappresentazione ricordano le stilizzazioni del fumetto (Ongaro è stato per molti anni sceneggiatore di fumetti, sia con Hugo Pratt che per la Bonelli). Ogni personaggio, dal più buono al più cattivo, altro non è che una sorta di caricatura di se stesso. Addirittura, i personaggi arrivano a pensarsi in più occasioni come derivati di un immaginario (che poi è quello dell’autore) che li costringe ad agire in un certo modo.

Puro cinema, pensò come se si vedesse, cinema americano. Cinema dal quale noi delinquenti abbiamo imparato tante cose: il modo di muoversi, i cappelli, le armi, lo stile.

Ma non è solo questo. La minaccia continuamente evocata dalla voce narrante non riesce mai ad essere del tutto credibile per il lettore. Sul testo aleggia continuamente una sensazione quasi confortante. Il dubbio che le cose possano andare storte, che un vero male possa compiersi, non si presenta. Tutto andrà bene. E in questo, forse, si potrebbe trovare anche un difetto del libro. Perché se in parte assolve alla funzione del giallo (crimine, indagine, risoluzione) dall’altra non esercita mai sul lettore una vera e propria tensione. Certo, la trama è ben architettata, Ongaro in questo è un maestro, unico nel suo genere. La prosa è scorrevole, colta, mai pesante, e le transizioni e i cambi di prospettiva sono gestiti sempre con grande equilibrio e senso della narrazione. Insomma, un libro tecnicamente ben fatto. Ma qualcosa gli manca. E quel qualcosa, penso, è la voglia prendersi sul serio.

Secondo me sarebbe più giusto pensarlo come un libro d’avventura, mi verrebbe quasi da dire un libro per ragazzi, sempre che una definizione del genere possa avere un suo senso.

Mi è piaciuto? Non lo so. Anzi lo so: sì, mi è piaciuto. Vi ho trovato tante cose interessanti, un immaginario che mi è caro come mi è caro l’autore, e questa è una cosa che mi impedisce di darne un giudizio obiettivo.

Maghe vere o presunte, prostitute, ladri gentiluomini, vivi e morti che dialogano attraverso un quadro, lagune stregate, due anziani che fanno un po’ il ruolo del coro da tragedia greca. Ecco, c’è tutto questo ne Il respiro della laguna.

Io, come ho detto all’inizio, l’ho letto come il saluto da parte di Ongaro all’immaginario che ha abitato (e dal quale è stato abitato) per diciotto libri. E visto che quell’immaginario è anche il mio, perché proprio nei libri di Ongaro ho trovato quanto di più vicino mi riesca immaginare alla voce di un maestro, a fine lettura ho sorriso, un po’ malinconico, e ho fatto (mentalmente) ciao con la mano.

aggiungo, comunque, che ho sempre amato molto l’immaginazione, la leggenda più della storia, mi piace pensare che la materia pensi, ragioni, rifletta e mandi segnali. Cosa vuole che le dica. Sono fatto così. Se mi sbaglio, tenga bene in mente questo, non me ne importa nulla. Capisce?

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2 Commenti

  1. “Ma qualcosa gli manca. E quel qualcosa, penso, è la voglia prendersi sul serio.” E questa frase sono crollata: devo assolutamente comperare questo libro. Grazie!

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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