Foto di classe. Frances Benjamin Johnston

di Jamila Mascat

flag

David Hammons, African-American Flag, 1990

The Color Line. Les artistes africains-américains et la ségrégation – una mostra in corso al Musée du Quai Branly fino al 15 gennaio –  racconta come un poema epico la storia dell’arte afro-americana dal 1865 ad oggi – dalle ceramiche dello schiavo David Drake soprannominato Dave the Potter ai black nudes di Mickalene Thomas passando per la Harlem Renaissance degli anni 1920, David Hammons e la discreta presenza di Jean-Michel Basquiat.  Arte  dai tanti volti   – arte contro la segregazione, arte per la ribellione, arte della rivisitazione, arte di contestazione, arte celebrativa, euforica, imprevista o conformista – dedita, a seconda delle circostanze, a rimarcare, attraversare e confondere quella “linea del colore” in cui W.E.B. Du Bois, l’autore di The Souls of Black Folk (1903), individuava precisamente “il problema del XX secolo”.

Non è solo il titolo della mostra a rendere omaggio alla figura di questo “gigante intellettuale” – così lo definì Martin Luther King Jr.  in un discorso di commemorazione pronunciato in occasione del centenario della nascita du Du Bois  (1968)–  che nel 1909 fu tra i fondatori della National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) e dal 1910 caporedattore della rivista ufficiale dell’organizzazione The Crisis: A Record of The Darker Race(numerose, tra l’altro, le copertine esibite nello spazio espositivo del Quai Branly). L’allestimento, infatti, dedica un’intera sezione alla Exposition des Nègres d’Amerique  ospitata all’interno dell’Expo di Parigi del 1900, che fu co-curata da Du Bois.

exhibit_of_the_american_negroes_at_the_paris_exposition

American Negro Exhibit, Paris, Expo Universelle, 1900

I materiali raccolti nel pavillon dell’American Negro Exhibit – tuttora conservati alla Library of Congress (Washington D.C.) – si prefiggevano lo scopo di raccontare una storia diversa rispetto alla triste e ben nota vicenda della segregazione razziale. In occasione dell’Expo, Du Bois, che allora insegnava sociologia presso l’Università di Atlanta, raccolse 363 fotografie in due album: Types of American Negroes, Georgia, USA and Negro Life in Georgia, USA. La quantità e la varietà delle immagini selezionate, secondo Du Bois, avrebbero contribuito a contrastare il pregiudizio “scientifico” diffuso relativo alla presunta inferiorità biologica della “razza nera”,  di cui le caricature dei coons in voga all’epoca rappresentano una testimonianza significativa.  A Parigi i visitatori della mostra avrebbero apprezzato un  ventaglio considerevole di “volti negri tipici” a dimostrazione dell’impossibilità di teorizzare l’esistenza di “tipologie razziali” generalizzabili. Il lavoro condotto per l’Expo valse a Du Bois una medaglia d’oro, sebbene la sua impresa curatoriale sia tuttora poco conosciuta. L’autore la riassume in un resoconto breve (W.E.B. Du Bois, “The American Negro at Paris”, American Review of Reviews, November 1900, pp. 577-579) dove la definisce “sociologica in senso lato” per il tentativo di restituire in forma “sistematica e compatta” la descrizione delle condizioni di vita passate e presenti della popolazione afro-americana: “In this exhibit there are, of course, the usual paraphernalia for catching the eye– photographs, models, industrial work, and pictures. But it does not stop here; beneath all this is a carefully thought-out plan, according to which the exhibitors have tried to show:  (a) The history of the American Negro  (b) His present condition (c) His education. (d) His literature”.

mick

Mickalene Thomas, “Baby I am ready now”, 2007

A fianco della vocazione militante e combattiva di Du Bois, il pavillon dedicato all’American Negro Exhibit rifletteva la presenza di sensibilità antirazziste diverse. Non si trattava solo di denunciare il razzismo istituzionale e i suoi fondamenti teorici e culturali, ma di  mostrare come a dispetto dell’apartheid imposta dalle leggi Jim Crow, la popolazione afroamericana continuasse a coltivare il desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita, imparando e lavorando. Pionieristico in questo senso fu l’esempio della Tuskegee Normal School for Colored Teachers (Tuskegee, Alabama) fondata nel 1881 da Booker T. Washington. Oggi la Tuskegee University figura tra le più prestigiose istituzioni HBCUs (Historically Black Colleges and Universities), ma quando Washington fu chiamato a Tuskegee per avviare l’impresa trovò ad aspettarlo un edificio fatiscente e centinaia di giovani afro-americani desiderosi di sedersi sui banchi di scuola. Sembra che il tetto dell’istituto fosse così mal ridotto che nei giorni di pioggia gli studenti a turno proteggevano Washington con un ombrello durante le lezioni. Spazi disastrati, trenta studenti per cominciare – per lo più già maestri, un solo insegnante – Washington, per l’appunto– che aveva anche il compito di racimolare fondi presso la comunità bianca locale per poter rilanciare il progetto con nuove ambizioni. Raccolti i finanziamenti, Washington fece ricostruire l’edificio della scuola impiegando la manodopera dei suoi studenti che in questo modo avrebbero imparato il mestiere dell’edilizia. Sul modello dell’Hampton Normal and Agricultural Institute (Virginia) che aveva frequentato dal 1872, Washington, concepì una scuola a 360 gradi che insegnasse a leggere e a scrivere e a far di conto, a conoscere la storia e la geografia, ma anche a coltivare, cucire, cucinare, fabbricare mattoni, stampare, lavorare il legno. I maestri formati alla scuola di Washington sarebbero stati poi inviati a insegnare nelle aree rurali per trasmettere a loro volta agli studenti la passione per l’apprendimento e la disciplina al lavoro. Innovativi, sebbene non rivoluzionari, gli esempi di Hampton e Tuskegee furono immortalati e valorizzati in occasione della American Negro Exhibit.

Nel 1899 l’Hampton Institute affidò a una talentuosa fotogiornalista l’incarico di ritrarre gli studenti e la vita di classe. I suoi scatti (più di 150) furono selezionati per l’Expo parigina dove riscossero un gran successo di pubblico e di critica.  Lei si chiamava Frances Benjamin Johnston (1864- 1952) e nel 1893 era giù sufficientemente affermata per essere citata in un articolo pubblicato da Clarence Bloomfield Moore su Cosmopolitan intitolato “Women Experts in Photography”. Nel 1894 FBJ aveva aperto uno studio fotografico a Washington – l’anno successivo il Washington Times ne parlava  come “the only lady in the business of photography in the city”.

 

fbj_1

FBJ, Autoritratto, 1890 c.a.

 

Alcune delle immagini catturate da FBJ sarebbero state pubblicate postume nell’ Hampton Album. 44 photographs by Frances B. Johnston from an album of Hampton Institute (New York: The Museum of Modern Art, 1966). Nell’introduzione il curatore del catalogo, Lincoln Kirstein, richiama  la natura controversa e criticabile del reportage di FBJ, rimarcandone il carattere assimilazionista –“the white Victorian ideal as criterion towards which all darker tribes and nations must perforce aspire” (p.10) – che ben rifletteva le ambizioni dell’Hampton Institute, ambizioni che poi sarebbero state anche quelle del suo studente più famoso, Booker T. Washington, talvolta contestate da Du Bois e da altri attivisti antisegregazionisti.

Le foto di classe scattate da FBJ, al di là dalla polemica tutt’altro che infondata sulla natura del sottotesto normativo  dei ritratti e dei soggetti  (i neri per bene – volenterosi, laboriosi e desiderosi di contribuire alla costruzione dell’American dream) meritano più di un’occhiata.

Eccone alcune (e poi qui altre):

 

fj_3

Geography class, Hampton Institute 

fj_4

Stairway of the Treasurer’s Residence: Students at Work, Hampton Institute 

fj_5

Biology class, Hampton Institute 

Sewing Class, Hampton Institute 

fj_8

fj_1

Cooking class

fj_7History Class at the Tuskegee Institute

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

Vacanze hegeliane. Magritte, Lenin e Zetkin persi in un bicchiere d’acqua

di Jamila Mascat
René Magritte, a quanto pare, amava chiamare a raccolta i suoi amici per ricevere suggerimenti su come battezzare le sue opere. In realtà, stando a quanto riportato da sua moglie Georgette, "spesso accadeva che, il giorno dopo, non fosse più soddisfatto delle loro invenzioni...

Dalle fiamme (a volte) nascono libri: Contenuto Rimosso. Il fuoco nel Quadrato

di Alice Ongaro Sartori
Contenuto Rimosso di Chiara Trivelli è caso-studio fondamentale nello sviluppo dell’arte pubblica e partecipata in Italia (e non solo)

Oh my bike! Ruote, caucciù e colonie

Come per incanto le ruote delle biciclette dischiudono il sipario degli imperi coloniali.

Per una critica delle evidenze: il femminismo materialista di Christine Delphy

di Marcella Farioli È stato tradotto di recente da Deborah Ardilli il volume di Christine Delphy, L'ennemi principal. 1. Économie...

Belfast città divisa

di Jamila Mascat
Li chiamano muri della pace (peace walls o peace lines), perché quando vennero eretti dall’esercito britannico dopo gli scontri dell’agosto 1969 che inaugurarono i troubles tra unionisti protestanti filo-britannici e repubblicani...

Un corpo che si chiama desiderio. Wittig ritradotta

di Jamila Mascat
VandA ha recentemente ripubblicato Il corpo lesbico di Monique Wittig nella traduzione di Deborah Ardilli, che ne ha anche curato l'introduzione. Qui di seguito l'incipit dell'introduzione e del libro.
jamila mascat
jamila mascat
Jamila M.H. Mascat vive a Parigi e insegna presso il dipartimento di Cultural Studies dell'Università di Utrecht, in Olanda. Si occupa di filosofia politica e teoretica, marxismo contemporaneo, critica postcoloniale e teorie femministe. Nel 2011 ha pubblicato Hegel a Jena. La critica dell'astrazione. Ha co-curato Femministe a parole (2012); G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia. 1801-1804 (2014); M. Tronti, Il demone della politica (2017); Hegel & Sons. Filosofie del riconoscimento (2019); The Object of Comedy. Philosophies and Performances (2020); A. Kuliscioff, The Monopoly of Man (2021).
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: