Lo snobismo mi attanaglia
di Francesca Fiorletta
Lo snobismo mi attanaglia.
Entro in libreria meno spesso di quanto si potrebbe pensare, sicuramente meno spesso di quanto facessi dieci o anche venti anni fa.
Non entro spesso nelle librerie, nonostante io lavori tutta la settimana (anche) in una libreria. Forse è proprio per questo, mi racconto; perché quando esco a fare una passeggiata, finito il mio turno doveroso, preferisco prendere un gelato all’aria aperta, anche se siamo in pieno inverno e quest’anno le temperature scendono sotto lo zero pure nella calda-per-antonomasia capitale. Preferisco perdermi nel magnetismo di vetrine altre, quando – seppure raramente – mi decido all’evento traumatico, lo shopping. Smisto maglioni di lana caprina, provo stivali di vera pelle o cuoio, compro giocattoli per i nipoti, profumi per le amiche, sono diventata persino capace di passare mezze giornate dal ferramenta, o davanti al banco della frutta biologica, ma in libreria entro sempre più di rado, e quando capita, ci resto per pochi minuti, poi esco sbuffando, gli occhi molli, il collo infagottato, le mani leste, in tasca. Quasi in fuga, sperando di non essere vista.
Perché?
Lo snobismo mi attanaglia, e non mi piace sentirmi una snob, per questo ciclicamente fingo di dimenticarmi di quel pungente sentimento di disagio, e finisco per varcare il confine avverso, il confine di quello che, teoricamente – ma direi anche tecnicamente – è per paradosso quello che più sento essere il mio stesso mondo, il regno meraviglioso incontaminato e incontrastato della letteratura.
Quindi succede, cedo al richiamo atavico, come il figliol prodigo che torna al banchetto paterno, con lo stesso spirito di verace ottimismo entro in una delle tante librerie belle della mia città. Ce ne sono a bizzeffe, di catena o indipendenti, piccole accoglienti e confortevoli o ben disposte in arieggiati loft o dislocate su vari piani accesi di luci galattiche, con l’angolo bar, con la poltrona massaggiante, con le tende di broccato, coi gadget in bella mostra vicino la cassa, la colonnina delle ultime uscite, i best seller coronati da fascette allegre e coloratissime, il misero e ovviamente rincattucciato angoletto della poesia. Ahhh, mi dico, sono a casa. L’odore della carta, e tutto il resto appresso.
Poi passano due minuti d’orologio, forse tre, e m’assale la noia. Ma proprio una noia, che non avete idea.
D’accordo, è evidente, è un problema mio. Mio perché conosco di persona i tre quarti degli autori indicizzati sugli scaffali, e quei pochi che non conosco di persona ce li ho amici su Facebook, Twitter, Instagram, e posso ammirare ogni giorno le foto orribili che pubblicano, e gli status finto divertenti che condividono, e le rispostacce acidule che si scambiano, e di chi sono amici e nemici a loro volta, so che cosa prevede la loro dieta quotidiana, se hanno figli fidanzate e cani, di quanti metri quadrati è casa loro e chi l’ha arredata, cos’hanno messo in valigia e la destinazione del prossimo weekend fuori porta; pur non sapendone niente, davvero, mi sembra di conoscerli da sempre, pur non avendone mai letta nemmeno la metà, mi pare di poter recitare a memoria ogni pagina della loro opera omnia, per osmosi tratto i loro personaggi come i miei vecchi compagni delle medie. Ossia, li dimentico.
È un problema mio, palesemente, se mi annoio, perché ho già controllato la rassegna stampa sei volte prima di uscire di casa, e so perfettamente quale giornalista ha recensito quale titolo, e so anche e soprattutto il perché, e quale critico ha scritto la prefazione a quale testo, e che cosa ne hanno detto durante quella trasmissione in radio, e se è stato stroncato a sufficienza in quella certa rubrica in tv. Peggio ancora, so quando nessuna attenzione è stata concessa all’autorino piccino picciò che viene dalla provincia, e lì magari una punta di interesse mi risale, trepidante e sulle spine mi accingo a sfogliare il così presto dimenticato tomo, mi bastano due righe di quarta di copertina, ho capito tutto, a posto così.
È un problema mio, non c’è ombra di dubbio, se da quando lavoro nell’editoria leggo molto meno di prima, o meglio, leggo molti meno autori di prima, che stanno sul palmo di una mano, e continuo a comprare libri sempre uguali, stessi nomi e cognomi, piccole variazioni sul tema grafica e titolo, più o meno stesse trame – ma è facile, visto che prediligo le prose quasi del tutto senza trama – stesso piacere nella lettura, questa volta sì, il riconoscimento, la banalità del bene, una parafrasi ardita.
Ho perso di curiosità, probabilmente. Ma, astraendo dal mero quanto ingenuo dato biografico, trovo abbastanza grave che questa perdita di curiosità colga proprio chi, coi libri, con gli autori, con i giornali le riviste le librerie e gli enti deputati alla diffusione della cultura, quotidianamente, vive si nutre e lavora. Come immaginiamo di far crescere e proliferare, col nostro seppur modestissimo contributo, la fondamentale e fondativa sfera del sapere letterario, come intendiamo proteggere il miracoloso incedere del fare letteratura?
O forse che, invece, la letteratura non ha davvero proprio niente di miracoloso e di ingenuo?
Trovo quasi commuoventi le dichiarazioni di certi giovani spigliati e rampanti, che con gli occhi gonfi d’ardore stanno sempre lì a decantare la bellezza dei “libri”. I libri, proprio, i parallelepipedi cartacei in generale. “Mi piace leggere”, è il nuovo status symbol della noia para-editoriale. Sì, va benissimo, ma nello specifico, che cosa? Possibile che abbiano tutti gli stessi gusti? Possibile che questo gusto dominante e ormai sviscerato in più di una salsa, incontri fondamentalmente tutto quello che sta in vetrina? (E non direi viceversa.)
Mi ricordo, da bambina, quando passavo le ore, colma di meraviglia, davanti agli scaffali rossi, rosa, azzurri e gialli, su cui erano allineati tutti i volumi delle collane del Battello a Vapore. Libri d’avventura, horror, sentimentali, piccole microscopiche narrazioni ben articolate, chiare e godibilissime, non trascendentali ma stupefacenti nella loro limpida funzione: far appassionare i ragazzi alla letteratura, far leggere loro storie incredibili di mondi lontanissimi, far immaginare loro un futuro diverso, nuovo, incantato, o semplicemente possibile.
Mi vergogno un po’ per quella bambina così naif, per l’adolescente che scopriva Joyce e Woolf, per l’universitaria che contestava Benjamin e Lacan, che piangeva con Baudelaire e Leopardi, e che adesso, al quarto minuto passato dentro a una libreria, non sa più nemmeno far scoppiare la rivolta.
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Francesca, è un po’ come il cibo, le grandi abbuffate ci sono venute a noia? quei piatti pesanti e troppo “pensati” non ci vanno più giù? Secondo te perché abbiamo inventato l’happy hour? Forse la letteratura sta cambiando allo stesso modo. Leggiamo i “pensierini” pubblicati alla voce racconti sui blog letterari (o pseudo tali) e speriamo di ritrovare un po’freschezza, un pizzico di genialità e,soprattutto, menti indipendenti..
Lasciamo i vecchi monumenti (dei quali possiamo sapere tutto cercando su Google) concediamoci la vacanza di strada! Tra vicoletti sconosciuti potremo incontrare persone molto interessanti.
Chissà che non sia la salvezza dalla noia.
Adelaide, che bella immagine la tua :-)
Hai ragione, certamente.
Non e` incoraggiante ritrovarsi circondati di best seller nati e cresciuti dai bombardamenti mediatici o libri minori, ugualmente quasi noiosi, finiti sugli scaffali grazie a battaglie vinte nelle eterne guerre editoriali. Non passa giorno che non ringrazi gli dei per i libri nascosti nei granai che splendono di luce propria o riconoscerei anche al buio
Evviva i granai!
Ho amato leggere questo brano. In libreria ho passato tempo di sogno,di oblio. Mi sono sempre sentita per un momento lista e protteta da un mondo violente.
Amo guardare libri di poesia. Leggere una pagina a caso. Lasciare una parola fare strada nel mio cuore.
Per il romanzi ho il miei scrittori: la lingua devo sentire la lingua magica.
Il libri troppo colorati profumo di publicità mi lasciano un gusto amaro.
Un libro non ha bisogno di publicità,ma di voci per fare ascoltare la musica di una scrittura e l’anima del racconto.
Lieta
Ho i miei romanzi preferiti
Mi dispiace il mio smartphone è in lingua francese automatique.
Tranquilla, Veronique! Il tuo pensiero è chiarissimo. Grazie per il commento!
Ci sono sempre i classici.
amen
C.P., ma certo, infatti! :-)
agghiacciante questo tuo personaggio, Francesca (ti auguro proprio di non essere nella sua condizione!); che poi parlerei di condizione “blasé”, più che di snobismo; lo snobismo ha le sue aperture, le sue generosità, i suoi eroismi … è anche bello);
g.
ma infatti, le aperture le generosità e soprattutto – concedimi – gli eroismi io li vedo eccome! :-)