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les nouveaux réalistes: Mirco Salvadori

Alzo Zero: racconto di Caccia e di Montagna

di

Mirco Salvadori

 

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Ciapa qua, bevi!

Fatico non poco a comprendere lo stretto dialetto dell’Alpago che mi viene sparato addosso a folle velocità. Senti Cencio, dico con fare vissuto mentre sorseggio il vino rosso che continua a sgorgare da bottiglie nude, senza quell’etichetta che solitamente mi aiuta a fingere erudita cultura enogastronomica e mi permette di interpretare al meglio la ridicola parte del buongustaio elittario che sa abbinare il buon bere all’ottimo cibo stellato. ‘Scolta, dico cercando di mantenermi con difficoltà in bilico, all’altezza di questa inaspettata situazione da veri spartani di montagna; senti ma quell’enorme teschio di cervo che hai appeso al muro è finto o che?

Sono entrato per caso in questo posto, l’unico bar aperto in un paese che sembra abbandonato. Qui se ne sono andati tutti, quasi tutti. Lungo la strada che porta nella piazza del paese si affacciano case chiuse, abbandonate o abitate nel silenzio assoluto di una crisi che dura da troppo tempo, un disagio del vivere che si è conficcato a fondo sotto la dura pelle di chi insiste nel rimanere o non può più andarsene. Pensare che un tempo ci venivo in vacanza qui, ero molto piccolo ma i ricordi annebbiati che ancora vivono nei miei occhi sono quelli di un paese vivo, abitato. Lungo la stessa strada appena percorsa scorreva vita e noi ne facevamo parte, eravamo i malvisti intrusi veneziani in vacanza, i foresti che venivano ad invadere un territorio di cui nulla sapevamo, a parte forse che l’erba era verde e l’aria più sana. Ero tornato per cercare dei ricordi famigliari confusi, annientati dal tempo. Mia madre che mi raccontava quando a tre anni ero scomparso da casa per andare in piazza a comperarmi le gomme americane, quando a cinque avevo riempito la mia fidata pistola ad acqua nell’abbeveratoio delle mucche per poi spararmi in bocca il suo contenuto, provando il mio primo viaggio psichedelico, tra delirio e visioni provocate dalla febbre a 40. Stranamente avevo ancora ben presente spezzoni di ricordi, la pistoletta marziana con gli ingranaggi interni che si scorgevano nella trasparenza della plastica, il suo colore giallo, l’aia della casa dove c’era l’abbeveratoio. Ma erano semplici indizi, non bastavano a farmi ritrovare quei luoghi.

Buongiorno mi scusi, potrei avere un toast e una Coca Cola per cortesia, dissi all’unica persona presente in quel bar.

Un luogo altro, un grande stanzone in mezzo al quale troneggiava il bancone del bar che faceva a gara, per pesantezza di stile, con un enorme camino acceso sulla parete opposta. Quel luogo si lasciava vivere e non faceva nulla per tentare un guizzo di speranza necessario a ridare ossigeno e allontanare la disperazione. Una decina di tavoli di legno impiallacciato facevano compagnia ad altrettante sedie impagliate e sparpagliate in giro. Sul bancone bar erano posizionati un espositore con dei cioccolatini di una marca mai sentita e un vaso enorme colmo di caramelle Rossana. In una vetrinetta a parte faceva bella vista di sé un tagliere con un salame e un sacchetto di carta pieno di pane. Su tutto incombeva la mole enorme di una macchina per il caffè che risaliva agli anni ’70.

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Un toast e una Cocacola?

La domanda imperativa mi giunse improvvisa, quasi fossi io il barista e non quel personaggio dietro al banco che sfoggiava un floscio cappello da alpino con la sua bella piuma affilata, piantata come una baionetta sul lato sinistro di un copricapo che si capiva esser molto più di un semplice berretto militare. Ciapa qua, bevi che ora te porte pan e salame, qua non se beve cocacola e non se magna tost! Si esprimeva con un dialetto che comprendevo ma parlava in modo ingarbugliato, le parole uscivano trasformando la sua parlata in un affascinante grammelot che ti teneva inchiodato sulla sedia ad ascoltare mentre i bicchieri magicamente diventavano due come le bottiglie sul tavolo.

Il suo nome era Egidio ma tutti lo chiamavano Cencio. Ex istruttore nell’arma degli alpini, tiratore scelto inviato in Alto Adige durante il periodo degli attentati ad opera dei gruppi separatisti sud tirolesi. Gran scalatore e cacciatore. Mi dava queste informazioni guardandomi diritto negli occhi, sapendo di riuscire a sorprendere l’insolito cliente giunto qui per caso, mi avvolgeva dentro storie che emanavano lo stesso calore emesso dal camino acceso da ore, un benessere che andava a sommarsi all’ebbrezza provocata dal vino che, duro e aspro, continuava ad esser versato nel mio bicchiere.

Tu non hai mai preso un’arma in mano eh? Non hai mai sparato in vita tua, ci scommetto altrimenti non mi avresti mai fatto una domanda del genere. Mi chiedi se il cervo sul muro è vero o cosa…il cervo appeso al muro ERA, vivo! Una bestia di un quintale e passa che mi ha fatto dannare per chilometri, su su fino alle pendici del Teveron e poi giù, lungo i boschi verso valle. Fatico a connettermi, non ho mai amato i cacciatori ma l’immagine che Cencio ha appena disegnato davanti ai miei occhi ha un che di primordiale, quasi fosse un duello ad armi pari per la sopravvivenza. Da una parte la bestia che sa come muoversi, dove nascondersi e quanto correre per non essere centrata. Dall’altra il cacciatore che il più delle volte preme il grilletto e fallisce, perché non è poi così semplice centrare un animale a 500 metri di distanza, per di più senza cannocchiale sul mirino.

Tu lo sai che le lepri riescono a correre sotto la sventagliata dei pallini? Sentono lo sparo e si appiattiscono al suolo continuando a correre velocissime, zigzagando alla ricerca di un nascondiglio sicuro. Quando spari devi tenere il fucile basso, le devi beccare sulle zampe altrimenti le perdi. Ancora più difficile quando corrono diritte davanti a te e poi all’improvviso scartano a destra e poi a sinistra, veloci come satanasse! Per non parlare della piuma, quello si è tiro difficile. Devi mirare al cielo, come volessi sparare a quell’angelo maledetto che non ha saputo mettere ordine nella tua vita. Devi capire esattamente dove si trova, in quale piccolo spazio tra una nuvola e l’altra, tra l’azzurro del cielo e l’ala che da lì a poco lo solcherà. In quei pochi centimetri devi mirare e sparare, credimi non è facile, ci vuole occhio ed esperienza, molta.

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Più si allungavano le ombre della sera più cresceva l’empatia verso questo sconosciuto personaggio che sapevo nascondeva qualcosa, la serbava stretta dentro il cuore. Cencio doveva mantenere la sua immagine di vero uomo di montagna, anche se oramai confinato dietro un vecchio e pesante bancone da bar. Raccontami Cencio dai raccontami del cervo, gli chiesi con reale curiosità, totalmente perso in una dimensione lontana anni luce dalla mia, perduto tra i fumi dell’alcol e le immagini scatenate da quei racconti.

Il gran bastardo, come lo chiamo io? L’ho intravisto quando già ero in alto, sulle malghe. Se ne stava come un re con le sue enormi corna che accarezzavano la punta della montagna, lontano, ancora troppo lontano da me. Fu una marcia di avvicinamento lenta e silenziosa, non potevo far rumore e dovevo camminare cercando di non sollecitare la sua attenzione. Mi nascondevo di masso in masso, avvicinandomi pian piano mentre lui se ne stava a brucare l’erba dei pascoli alti. A tracolla avevo la Magnum acquistata da poco, una bella carabina che tutti al paese mi invidiavano, era già caricata e pronta. Arrivato a circa quattrocento metri mi fermo dietro un grosso masso, imbraccio e inizio lentamente a calcolare l’alzo. Scorge la mia espressione interrogativa e con fare supponente mi spiega. Quando spari a lunga gittata non puoi farlo ad alzo zero, la pallottola cadrebbe prima di arrivare a destinazione. Devi valutare la distanza, il tipo di traiettoria, l’alzo. Inizio a mirare come sempre alla spalla, mai sparare sulla pancia, lo faresti soffrire come un cane e la morte non sarebbe veloce. Scopro che esiste un’etica della caccia e questo mi rende ancor più simpatico questo strano personaggio con la perenne piuma piantata sul cappello. Inizio a mirare, bada bene senza cannocchiale, mai usato! Trattengo il respiro, mentre ogni cosa cessa di respirare assieme a me. Premo il grilletto. Lo sparo sembra un boato che fa esplodere la roccia sulla quale sono disteso. Mi alzo di scatto e lo vedo saltare di lato come imbizzarrito e poi volare giù, verso il bosco. Lo avevo mancato. Ricarico e riprendo il sentiero verso valle con ancora davanti agli occhi l’imponente sagoma del cervo che scarta e parte a razzo verso il folto rassicurante della boscaglia. Non voglio confessarlo a me stesso ma sono felice di averlo mancato, il perché non lo so ma per la prima volta è la serenità che prende il posto della rabbia. Continuo la mia discesa inoltrandomi lungo il sentiero che conosco a memoria, una lingua di terra battuta che fa una curva ad angolo prima di sbucare in una piccola radura e poi scomparire del tutto nella fittissima boscaglia. Cammino accendendomi una sigaretta, aspiro quando all’improvviso me lo ritrovo davanti, sarà stato a cinque metri da me. Mi guardava diritto negli occhi, con un’espressione interrogativa, quasi volesse dirmi qualcosa. Uno sguardo talmente intenso che mi immobilizzò, mi trafisse, tanto che non riuscii ad imbracciare nuovamente la carabina. Durò forse un minuto poi lentamente si girò e scomparve tra gli alberi. La sensazione provata dopo averlo mancato tornò a farsi sentire più forte di prima tramutandosi in felicità. Era la prima volta in tutta la mia vita da cacciatore che incontravo da vicino una preda così maestosa, che riuscivo ad incrociare il suo sguardo. Ti posso assicurare che è come guardare negli occhi un essere diverso da te, un alieno giunto da chissà quale pianeta, una creatura che però sa parlarti usando semplicemente lo sguardo. Ancora imbambolato riprendo a scendere quando noto che i miei scarponi sono macchiati di sangue così come il fogliame attorno. Seguo la scia rossa sempre più visibile nell’intrico di alberi e cespugli. Da prima sento il suo ansimare e poi lo vedo, disteso a terra oramai sconfitto, senza più forze né speranze.

La vedi appesa lì in alto, tra il ritratto di mio nonno e quello dei due angioletti, la vedi la mia carabina? Da quel giorno non ho più sparato.

Pronunciò questa ultima frase ingollando d’un sol colpo l’ultimo bicchiere di vino contenuto nella bottiglia e sbattendo forte il bicchiere vuoto sul tavolo mi si avvicinò sussurrandomi con aria disperata: lo avevo centrato diritto al cuore, il gran bastardo.

 

 

 

 

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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