mater (# 8)

di Giacomo Sartori

 

Portavi i fiori

portavi i fiori

sulla tomba di famiglia

brullo muro

nel cupo del colonnato

(neoclassicismo malmesso

dei cimiteri)

dov’è il dandy

che tanto t’è mancato

(presenza immateriale)

tua mamma cosmopolita

dalla lingua tagliente

suo fratello incisore

quello erudito

professore e libraio

più giù nella lista

lo scienziato mazziniano

poliomielitico bigamo

tuo cugino narciso

figlio d’una scopata militare

nei Balcani in fiamme

(la madre l’ha portato

in un involto

e s’è riavviata)

superbo e permaloso

(fino alla fine

bisticci e paci

d’indomiti vecchini)

due tue sorelle

ben più belle

(e sposate ben meglio)

e altri nevrotici

(mica si nasce

sotto una zucca

questo vale anche

per me)

ti lamentavi

ch’eri l’unica

a venire a pulire

e curare le piante

senza più patente

era una spedizione

ma c’arrivavi

passetto dopo passetto

 

poi venuto il momento

hai abiurato

il muro dei boriosi

(la quintessenza)

hai scelto il cimiterino

nella conca di conifere

(tripudio di resine

e oli essenziali)

dove s’è rintanato

tuo marito

(tanto detestato)

spiegami com’è possibile

forse n’avevi abbastanza

dei menti impennati

i guizzi di scherno

le frasi assassine

le liti interminate

dimmi come mai

 

ma non rispondi

te ne stai zitta

nella vasca verde

a fissare i rapaci

stampati sull’azzurro

nella corona di rocce

coabiti col papà

seppure all’altro lato

(separati in casa

anche da inceneriti)

nella tomba di sua mamma

tra morti che manco conosci

(l’ultima tua stranezza)

 

dimmi come mai

sei scappata di casa

così vecchina

 

 

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Se mi fossi messa

 

se mi fossi messa

avrei scritto gran bei libri

proclamavi

guardando il vuoto

(migliori dei miei

sottintendeva la pausa)

 

 

A chi li porto adesso

 

a chi li porto adesso

i dolci della boulangerie

dell’avenue Parmentier

le tortine caramellate

le millefoglie leggere

ti piacevano tanto

(salivazioni ghiotte

mimetizzate nelle parole)

ti facevano viaggiare

sciamando tra le vetrine

e i tavolini dei caffè

(almeno con la testa)

nella scatola lucida

con corsivi dorati

(eleganza parigina

ormai feticizzata)

acciaccata dal viaggio

per chi potrei comprarli

prima di partire

 

 

Cammina più piano

 

cammina più piano

ho ottantanove anni

eri sbottata

l’ultima visita

sulla salita

verso casa

 

 

Quella ragazza

 

quella ragazza

è giovane e molto bella

sarebbe perfetta per te

mi dicevi

fingendo d’ignorare

ch’avevo da anni e anni

una compagna

(che mal sopportavi)

liscia e splendida

rincaravi con gorgheggi

di mezzana

 

 

Quando partivo

 

quando partivo

non t’abbracciavo

non volevo che

una guancia dura

(indispettita

dai convenevoli)

mi sfiorasse

come congedando

un conoscente

 

capitava che baciassi

una tua amica

o uno sconosciuto

e non te

poi però i nostri occhi

s’incontravano

come vergognosi

di noi

 

eri un uccellino

ingordo di trilli

e compagni

attento a non farsi

toccare

(aborrivi i contatti fisici)

 

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Passavo a trovarti

 

passavo a trovarti

dopo aver rimandato

e ancora rimandato

(non era prioritario)

fatte le mie cose

in lungo e in largo

sbarcavo a notte fonda

m’accoglievi sul tuo divano

in posa come una diva

(quasi fosse l’ora del tè)

contenta di vedermi

pronta a discutere

di questo e di quello

senza farmi pesare

(o solo capire)

ch’avevi atteso

chissà quante ore

 

 

Diciamo la verità

 

diciamo la verità

è anche una liberazione:

niente più costrizioni

o sforzi d’adeguamento

una dismissione dei pretesti

la vertigine d’un panorama

solo aperto

(al disfacimento?)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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3 Commenti

  1. Quando potremo stringere assieme carta e parole, che per quelli come me è ancora il connubio preferito? Un saluto Andrea

  2. Portatori tutti, quanto é ovvio, di storie personali, cioé biografia…..Il confine tra l’impersonale e il personale a volte molto tenue….altra ovvietá. QUESTA madre, vista nell’ottica del figlio, assurge, permi l’écriture, al personaleimpersonale. Il figlio scriptor
    via via scoprendo la sorpresa, é banalmente il caso dirlo, di quanto viva riappare la figura dalla madre (non piú solamente SUA).

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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