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cinéDIMANCHE #26 FRANCESCO DAL BOSCO Amnesia (I morti ritornano)

 

di Francesco Dal Bosco
(con una intervista al regista curata da Giacomo Sartori)

Cos’hai voluto fare con questo lavoro?

Con questo video, che dovrebbe essere il primo di una serie, ho cercato di riattivare e restituire energia a un’iconografia altamente significativa degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, quando queste figure e queste parole proiettavano nel mondo una volontà di resistenza e cambiamento. Prima che venissero depotenziate, rese innocue dalla rete della comunicazione globale. Immagini diventate in un certo modo intoccabili, svuotate di ogni vitalità, relegate nel territorio proibito degli stereotipi, del “già visto” e dell’ovvio.

Cosa intendi per ridare energia, quando anche il tuo sguardo non è più quello che era quando queste immagini le vedevi la prima volta?

Restituire energia significa per me, in primo luogo, ricordare. Ho letto qualche giorno fa un’intervista a Hans Ulrich Obrist a proposito della pratica quotidiana della pittura che mi ha molto colpito, anche perchè utilizzava il termine “amnesia”, che è il titolo che ho voluto dare al ciclo di film a cui sto lavorando.

Tra le altre cose, diceva questo: nel cuore del sistema di comunicazione digitale, con la sua sovraproduzione di informazione, c’è l’amnesia, la cancellazione della memoria. Può sembrare un paradosso, visto che una delle caratteristiche principali della comunicazione oggi è l’accumulo e la diffusione di un’enorme quantità di oggetti indifferenziati, che provengono da ogni luogo e da ogni epoca. Ma la memoria che questa massa di oggetti porta con sé è una memoria statica, inerte, una memoria senza ricordi. Al contrario, io credo che dovremmo sforzarci di riattivare una memoria dinamica, selettiva e sentimentale, che crei connessioni e sia in grado di costruire un percorso che ci riguarda davvero personalmente. Ricordare, in questo senso, significa isolare e illuminare uno dopo l’altro i singoli momenti che rischiano di affondare nell’oceano dell’informazione disponibile e tracciare delle linee di congiunzione. Questo video è una specie di filmato di propaganda, una protesta contro la dimenticanza e allo stesso tempo un invito a riaprire le strade che ci connettono al nostro passato e al nostro futuro.

E come hai lavorato?

Ho lavorato in modo istintivo, quasi automatico, cercando di ripensare e ricostruire un’estetica povera, pre-digitale, qualcosa che riemerge dagli schermi morti dei vecchi televisori, nel tentativo (forse disperato) di dare forma a un’esperienza emozionale direttamente collegata con le tensioni di un altro tempo, che per me non è mai passato.

Avevi in mente esempi ai quali ti riferivi, per questo modo di procedere? Ci sono riferimenti impliciti o espliciti?

Avevo in mente delle pratiche artistiche e di comunicazione le cui modalità operative sono quasi scomparse. Le azioni del Living Theatre, gli articoli di Pasolini sul Corriere, le lezioni di Deleuze a Vincennes, John Cage al teatro Lirico di Milano, Alberto Grifi che filma il festival di Parco Lambro, le performance di Vito Acconci, la vita nelle strade…

Conosciamo benissimo tutte queste cose e molte altre, ma abbiamo perso la capacità di usarle come dispositivi per creare nuove forme e nuovi discorsi. Si sono perlopiù ridotte ad argomenti di conversazione, occasioni di spettacolo. Questa è esattamente la “memoria statica”, la memoria senza ricordi di cui parlavo prima. 

Credo d’altra parte che uno dei problemi più seri che dobbiamo affrontare di questi tempi in occidente è la quasi totale mancanza di  una contro-informazione efficace (mi riferisco anche a quel particolare genere di contro-informazione che è sempre connaturato all’arte) in grado di restituire vitalità allo spazio pubblico, allo spazio reale e concreto delle città, che assomigliano sempre più a centri commerciali a cielo aperto. Per noi, che almeno per adesso non dobbiamo fare i conti con i bombardamenti, le carestie eccetera, è una questione cruciale. Stiamo accettando qualsiasi cosa: nuove forme di schiavismo e di controllo sociale, il dominio assoluto del potere economico su ogni aspetto della vita, le guerre come spettacolo. La resistenza a questo stato di cose mi sembra si faccia di giorno in giorno più debole. Tutto o quasi tutto, passa attraverso iniziative istituzionali, pubbliche o private, rigidamente organizzate, festival, concerti, biennali, fiere, notti bianche che non a caso si sono moltiplicate negli ultimi anni. Oppure è confinato nel mondo virtuale della rete dove, come si sa, tutto è permesso ma niente è vero. In questo modo la cosiddetta cultura si trasforma rapidamente in intrattenimento. E quando qualcuno cerca di mettere in discussione questa logica (un buon esempio in Italia può essere il movimento noTAV) viene immediatamente criminalizzato.

Come hai scelto i materiali che hai utilizzato? Li avevi già in mente o li trovavi via via?

Quando lavoro a un video non preparo mai uno schema o una scaletta. Ho in mente uno spazio, un luogo. Dentro questo spazio costruisco la prima immagine, che a sua volta genera la successiva e così via. In questo caso ho cominciato con  lo schermo nero e la registrazione audio della repressione dello sciopero dei minatori a Marikana, in Sudafrica, il 16 agosto del 2012, dove vennero ammazzati dalla polizia 34 manifestanti. Il resto del film, in un certo senso, si è fatto da sé: le immagini hanno cominciato a correre all’indietro dal passato per ricongiungersi a quel momento, per ricongiungersi a noi. Come è detto esplicitamente nel sottotitolo, c’era un’intenzione deliberata, il desiderio e la volontà di fare qualcosa per tentare di “ risvegliare i morti”.

 

“Ciò che chiamiamo “arte” – pittura, scultura, scrittura, danza, musica – ha origini magiche. Vale a dire, era in origine usata per scopi magici, per produrre effetti molto precisi. Nel mondo della magia niente accade a meno che qualcuno voglia che accada, usi la volontà per farlo accadere, e ci sono certe formule magiche per incanalare e dirigere la volontà. L’artista sta cercando di far accadere qualcosa nella mente dello spettatore o del lettore. Mucche morte nell’erba. Cani che saltano fuori dal quadro. Vernissage preso a manganellate da poliziotti di un quadro. I quadri di animali pericolosi, sedie elettriche, disordini, incendi ee esplosioni hanno la galleria tutta per loro.”

William S. Burroughs, L’ultimo Potlach, 1975

 

(NdR: la citazione che chiude l’intervista è stata chiesta da Francesco Dal Bosco; una precedente intervista al regista si trova qui); la biografia dell’autore è questa:
Francesco Dal Bosco (Trento, 1955) dal 1979 scrive, produce e dirige film e video. È tra i fondatori della cooperativa “Missione Impossibile”, che a Roma ha organizzato nel 1982 la rassegna “Ladri di Cinema”. Ha scritto e diretto:
– i film: “La notte che vola”, 1982, Festival di Salsomaggiore 1982, Film Maker Milano 1982, Festival di Rotterdam 1983; “La camera da letto” (con Stefano Consiglio), 1992, Festival di Venezia 1992, Prix Italia 1992; “23 songs from the home”, 1994, Festival di Venezia 1994; “Commesso Viaggiatore”, 2000, Festival di Berlino 2001, Festival di Edinburgo 2001, Festival di Brisbane 2001, Festival di Manila 2002, Festival di Singapore 2002; “Niente è vero, tutto è permesso”, 2005, Festival Nuovo Cinema Pesaro 2006;
– i documentari: “Francis Bacon”, 1993; “Il Coro”, 1997, “Jackson Song, un ricordo di Jackson Pollock”, 2002 “Fragile”, 2002, “Corrente Continua”, 2005, “L’ora azzurra dell’ombra”, 2007; “Il lavoro dell’artista”, 2011;
– i video: “Fantasma”, 1997; “Light of the dead”, 2002;  “Toledo”, 2004; “Doppia natura morta”, 2005; “Apocalisse”, 2010.)

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2 Commenti

  1. Approvo quanto dichiarato dall’autore nell’intervista , è innegabile che la sovrainformazione visiva di oggi, soprattutto quella della rete , non faccia che banalizzare la realtà , svuotare di significato ciò che vediamo , provocare amnesia , indifferenza, mancanza di spirito critico. Ma siamo sicuri che ritrovare moduli espressivi che appartengono al passato sia il modo migliore per superare questa impasse? Naturalmente mi è piaciuto il video, ma perché anch’io appartengo a quella generazione , perché ho amato la letteratura di Burroughs, la musica degli Amon Duul II scelta come eccellente colonna sonora, l’arte psichedelica, il bianco e nero sfocato delle vecchie televisioni , quelle immagini frammentarie in parte visibilmente censurate, che per questo maggiormente ci coinvolgono emotivamente. Ma non si diceva allora che già la stessa televisione , rispetto alla radio, provocava acriticità e assuefazione? Non per niente lo stesso autore ha iniziato con un pezzo di solo audio.
    Ecco, se mi fossi limitato al video l’avrei giudicato un ottimo prodotto artistico , un riuscito omaggio a quel fervido momento culturale che erano gli anni 60 e 70. Ma avrei colto il messaggio quale si evince dall’intervista ? Ricordare il passato, ricordare come eravamo per risvegliare i morti dell’asservimento globale? Ricoprire tutto di nebbia colorata per invogliarci a riflettere?
    Può essere condivisibile che dopo gli anni 60- 70 i canali della comunicazione artistica non abbiano più saputo trovare nuove formule efficaci di controcultura ( o più probabilmente le hanno trovate ma sono state inevitabilmente inglobate nella spirale del mercato globale oppure rimaste un prodotto di nicchia) , ma la risposta è davvero ripartire da lì , dalla psichedelia di immagini confuse, cercare il nuovo riesumando ciò che ormai è definitivamente legato ad un determinato periodo storico? La mia non è una critica , solo una perplessità, lo spunto per una discussione. Ciao

  2. Grazie per il commento, mi ha fatto molto piacere. Ma ti invito a rileggere l’intervista. Non c’è nulla che, come dici tu, è “legato definitivamente a un determinato periodo storico”. Tutto è sempre presente. Anche ciò che non conosciamo o di cui ignoriamo l’esistenza. Il passato, come giustamente ha detto una volta Faulkner, non esiste. Esiste la dimenticanza, l’amnesia, l’incapacità (spesso indotta) di creare connessioni, di vedere il tempo come uno spazio, come un campo aperto dove tutto continua a vivere.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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