L’ombra del padrino: un’intervista impossibile.
L’ombra del padrino
Un’intervista impossibile
Il 25 settembre 2016 presento il mio ultimo documentario alla Festa Indiana di Torino. Purtroppo non potrò essere presente alla proiezione dunque, come da richiesta, lascio qui alcune riflessioni intorno al film. Intanto ecco una breve sinossi, per darvi un’idea del soggetto.
L’OMBRA DEL PADRINO – Ricerche per un film
di Giuseppe Schillaci (Italia/Francia 2015, 52 min)
La mafia, per chi è nato in Sicilia, è un’ombra, qualcosa che ti accompagna fin dalla nascita e di cui difficilmente hai un’idea chiara. Il film è una ricerca intima intorno a quest’ombra, a partire dalla storia personale dell’autore, per smontare gli stereotipi che hanno identificato la “mafiosità” con la cultura siciliana tout court. Cercando le origini di Cosa Nostra, si trovano le responsabilità di un sistema economico-politico corrotto, e ci si scontra coi tanti miti della mafia, dal cinema all’emigrazione americana, dalle credenze popolari a quelle religiose che hanno contribuito a creare confusione e ambiguità.
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Nel 2011 una produzione francese, venuta a conoscenza del fatto che fossi siciliano, mi ha commissionato la scrittura di un documentario sulla storia della mafia. Dopo diversi anni di ricerche, però, il progetto navigava in brutte acque e stava per naufragare. Poi, a un certo punto, è successo qualcosa che mi ha fatto decidere di fare questo film anche con un budget ridotto. E quel qualcosa è stato un incontro; perché ogni storia nasce da un incontro.
Nel maggio 2015, infatti, sono riuscito a entrare in contatto con Gioacchino Pennino, un boss mafioso del mio quartiere, a Palermo, che aveva pubblicato un libro sulle origini della mafia (« Il Vescovo di Cosa Nostra », edizioni Sovera, 2010). Questo volume, a metà tra un memoriale e un saggio, mi aveva incuriosito per le sue teorie mistico-esoteriche sulle origini della mafia mischiate a verità storiche e giudiziarie.
Con Pennino, ho pensato, avrei avuto nel film un personaggio che nella sua megalomania delirante avrebbe finito per smontare il mito della mafia dal suo interno, dimostrarne l’inconstistenza ideologica e infine rivelare Cosa Nostra per quello che realmente è : una banda di criminali che si è spacciata per secoli come protettrice dei siciliani, o addirittura come emblema di una cosiddetta cultura tradizionale, ma che in realtà pensa solo ad arricchirsi, grazie alla corruzione e alla violenza.
Questo mafioso pentito, medico e politico democristiano arrestato nel 1994, dopo diversi incontri e dopo aver finalmente accettato di partecipare al film, è invece sparito e non si è fatto più trovare. Forse ha avuto problemi di salute o forse ci ha ripensato; fatto sta che ho dovuto finire il documentario senza di lui.
L’ho incontrato diverse volte e la sensazione più forte che mi porto dietro, oltre alla rabbia e all’incredulità di fronte alle sue strampalate dichiarazioni, era il disagio d’essere manipolato dal suo sguardo magnetico e vuoto al tempo stesso. Quegli incontri irritanti, grotteschi e intensi mi hanno trascinato nell’impresa di questo film; a motivarmi è stato il fatto di aver guardato in faccia Medusa e di volerla mostrare agli altri, spogliarla dei suoi serpenti. Ne valeva la pena. La questione era esaltante e spaventosa insieme: affrontare il male, ma anche il fascino del male, sulla mia pelle; fissare il mostro cercando l’umano e cercare nell’uomo le tracce del mostruoso. « L’ombra del padrino » è diventato così un film senza personaggio, l’ombra di un mito, senza la sua incarnazione. Si profilava dunque il fallimento.
E devo ammettere che le ragioni dell’eventuale fallimento di questo film sono interessanti. Innanzitutto la ragione principale: ovvero il fatto che sia venuto a mancare il protagonista e le conseguenze emotive su di me, perché durante le riprese sentivo di girare a vuoto, di aver perso il fuoco del film, l’eccitazione del racconto. Ma il fallimento è forse dovuto anche al fatto che in realtà non si trattava di un film sulla mafia, né sulla Sicilia, ma di un film sull’emigrazione e l’abbandono, il distacco, il tradimento di una terra matrigna. Lo stesso tradimento che si è reiterato nell’inadempienza del padrino, come se ci fosse qualcosa d’inspiegabile e irredimibile in questo amore mancato con la propria terra, una ferita che non si può rimarginare. Infatti il documentario inizia col mio ritorno a casa, nel palazzo della mia infanzia, nello stesso quartiere su cui regnava la famiglia Pennino.
Un film che non nasce dal desiderio, dal piacere del racconto, ma al contrario dalla rabbia del tradimento, dall’impotenza dell’irrappresentabile, è forse votato al fallimento, perché è spinto da una sorta di rabbia auto-distruttiva, d’inconsapevole sabotaggio.
Certo l’ambizione era enorme, un’impresa titanica, donchisciottesca: raccontare con un film documentario il mito della mafia, la questione più scomoda e stereotipica dell’identità siciliana (e italiana in genere), una specie di spettro della coscienza collettiva, a volte rimosso, come potrebbe essere il nazismo per i Tedeschi o la colonizzazione africana per i Francesi. Nel film, si è venuto a creare un cortocircuito tra memoria individuale e collettiva, tono saggistico e intimo, scoperta e mera constatazione, che ha forse imbrigliato il film. Un fallimento: in fondo ogni narrazione tragica è quella di un fallimento; il fallimento dell’eroe, che spesso è il cattivo, come nei film di mafia tipo « The Godfather ». Lo stesso fascino del male che troviamo nelle tragedie greche, e che infatti si dissolveva nella catarsi finale, e soprattutto in quelle shakesperiane, che affrontano il tema del potere e della giustizia, regno di un male antropologico e metafisico insieme.
La maggiore difficoltà è stata quella di voler raccontare l’esperienza intima della mafia in quanto siciliano, di decostruire il mito della mafia senza esserne vittima o senza lottarla, almeno retoricamente, volendo sottrarmi anche al mito dell’antimafia, se non addirittura alla rappresentazione tout court: un paradosso pirandelliano che può risolversi nella follia, o più banalmente nel fallimento appunto, nella solitudine del fallimento, dell’opera incompiuta. Con il compositore delle musiche, Gianluca Cangemi, abbiamo a lungo riflettuto sui temi emotivi del film e Gianluca ha fatto un lavoro profondo e appassionato che infatti darà vita a un album in uscita nella primavera del 2017 con La Banda Siciliano (Almendra Edizioni). Perché un mito come quello della mafia, dell’identità siciliana o degli italiani in America, passa anche e soprattutto dalla musica : l’opera, la Cavalleria Rusticana, le tarantelle e il jazz, il marranzano, i temi bandistici e religiosi. Un mito si nutre di emozioni, e dunque di musica.
Nel film però dovevo anche rendere conto del mio stato d’animo di fronte alla crudeltà, all’ingiustizia, al brutto e al grottesco della mafia (le sue ferite sul paesaggio sia naturale che umano) e dunque ecco temi più cupi e rarefatti, a volte appena stemperati dallo sguardo dell’emigrato che torna, dalla nostalgia per l’infanzia e per il suo mondo fantastico.
Si tratta forse di un film sulle origini. O semmai del tentativo d’indagare il « perturbante » di un’identità collettiva, a partire dalle origini storiche della mafia, ma anche le mie origini in quanto siciliano, a partire dal fatto « perturbante » che la mafia possa essere qualcosa di culturale, o addirittura d’innato. In alcune sequenze del documentario traspare questa sensazione di solitudine e di straniamento, di angoscia a tratti: un sentimento intimo, lo stesso che provo ogni volta che torno in Sicilia, in quella che era casa mia. Una sensazione che è tipica di ogni emigrato, di chiunque non si senta più a casa, perché si rende conto che la propria casa, in fondo, non esiste.
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L’OMBRA DEL PADRINO – Ricerche per un film
di Giuseppe Schillaci (Italia/Francia 2015, 52 min)
Una co-produzione Zenit Arti Audiovisive e Stella Productions.
Con il contributo di Mibact, Programma Sensi Contemporanei per il Cinema e l’Audiovisivo, Regione Siciliana – Assessorato Turismo Sport e Spettacolo – Ufficio Speciale per il Cinema e L’audiovisivo, Sicilia Film Commission, Regione Corsica.
Prodotto da Massimo Arvat e Dominique Tiberi
Fotografia: Irma Vecchio
Montaggio: Massimiliano Minissale
Fonico Presa Diretta: Danilo Romancino
Direttore di Produzione: Francesca Portalupi
Ricerche d’Archivio: Domenico Rizzo
Sound design: Almendra Music
Musiche originali: Gianluca Cangemi
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Berlino/Palermo, ventinove dicembre duemilaquindici.
“L’ombra del Padrino”: il puparo e la marionetta
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Ho sentito l’esigenza di andare via dalla Sicilia, da Palermo, per poter comporre le musiche per “L’ombra del Padrino”, il nuovo film, pre-testo “la Sicilia e la Mafia”, che segna un’altra tappa della collaborazione tra il mio gruppo di musici e artigiani del suono a Palermo, Almendra Music, e Giuseppe Schillaci, scrittore e regista siciliano a Parigi. Sono dovuto andare via, nel Nord Europa, in Germania, un luogo di impianto culturale Protestante, con una lingua, suoni, colori, velocità e tradizioni diverse e complementari a quella cultura mediterranea siciliana, cattolica e con echi orientali, invadente e invasa, di cui sono minuscola parte. Sono andato via non per avere uno sguardo distaccato e lucido sul “tema”: la freddezza razionale non è mai buon servitore di chi compone per condividere umanità e non per agglomerare suoni funzionali a un mercato (o almeno non lo è, buon servitore, se hai alle spalle una qualche cognizione di causa, decentemente interiorizzata, di tecniche e storie delle tue tradizioni musicali. Ma questo è un altro discorso…). Sono andato via dalla Sicilia per poter fare davvero i conti con l’ombra del Padrino; perché le ombre dei troppi Zii, l’ombra del sangue di famiglia e della Roba, l’ombra che il Capitale proietta sulle province a “distanza di sicurezza” dai luccicanti centri delle sue capitali, le ombre dei morti, santi e beati, sono tutte dentro ogni siciliano, e animano il puparo interiore dei siciliani indegni e la marionetta dolorosa danzante in tondo nell’intimo dei siciliani degni, spesso assumendo in uno stesso individuo entrambi i ruoli in diverse dosi letali: il puparo e la marionetta.
Un distacco anche geografico, il disagio virtuoso di non essere più “protetto” dai tuoi cari, e “confortato” dal bel clima e dai sapori della cucina familiare; queste cose, e uno scarto di velocità, erano necessari, affinché l’ombra del Padrino, le implacabili ombre siciliane familiari, mi inseguissero e potessi quindi vederle e riconoscerle fuori di me: per stabilire infine una distanza tra me, uomo e musicista siciliano tra quelli che provano a rifiutare la logica delle maschere, e loro, le ombre “siciliane”. Distanza che ora, conclusa la prima parte dei lavori in corso, è fatta di suoni, di melodie oppresse dalla stasi, carillon infantili salvati all’ultimo minuto sull’orlo di rompersi, e tarantelle cattive, fiabe sommerse, elegie, malinconie.
Berlino, Germania, 29 dicembre 2015: ho appena finito la prima stesura di queste musiche. Palermo, Sicilia, 29 dicembre 2015: speriamo bene, avanti, oltre.
[Gi.]