Overbooking: Flavio Ermini
Esperienza poetica, memoria del principio
che non ha fine
Nota su Il giardino conteso di Flavio Ermini
di
Lucio Saviani
Questa nota intende essere un tentativo di corrispondere all’invito di Flavio Ermini ad una esperienza. Un’esperienza di verità che, in quanto vera esperienza, è sempre “negativa”, ossia trasforma ad ogni passo colui che la compie. Come un viaggio, in cui chi ritorna non è mai lo stesso che era alla partenza e in cui si coappartengono l’arrivo e il ritorno: “il cammino non serve a fornire una conoscenza dei luoghi, ma un nome a chi è in cammino” (100). L’approdo raggiunto è vissuto, nell’invito di Ermini, come esperienza dell’inizio, del punto ortivo.
L’origine è l’ombra che accompagna ogni passo nel viaggio del Giardino conteso di Flavio Ermini. Il viaticum è la provvista che il peregrinus, colui che va per agros, porta con sé. Proprio come un viaticum, questa scrittura è àncora e vele, transito e passeur, viaggio e libro di bordo, diario (‘diarum’, dei giorni, diurnale, giornale) e notturnale, viaggio nel dies della vita che risplende e nella nox che rimanda alla ‘nex’, alla morte.
Il viaggio, in origine, è un nome dell’esperienza. Ex-per-ientia, ex-perire: andare attraverso (le cose) provenendo da. Ma si è sempre in cammino e, sempre, chi va proviene da un’altra parte, da altrove. Se dunque l’ex può essere taciuto come ovvio e naturale, resta il per-ire, l’attraversare, il divenire esperti o periti, che è aumentare la provvista del peregrinus ma anche tra-passare e decedere, in quel trapasso che è l’esperienza aporetica per eccellenza. L’empeiria greca del ‘provare’ si arricchisce del perior latino, e del pericolo. “Nel venire al mondo, l’essere umano è già esposto al pericolo di non entrarvi” (47).
Ma come pensare quell’ex del per-ire lasciato cadere nell’ovvio? In quale linguaggio può prendere parola quell’origine (provenienza, scaturigine, derivazione, principio) taciuta? È la domanda che dà inizio, sostegno e senso del cammino al Giardino conteso. Ed è l’appello di Flavio Ermini a cui queste note stanno cercando di corrispondere.
Ho letto Il giardino conteso durante un mio lavoro di scrittura e in un viaggio in due terre lontane, in cui Giardino si dice ‘zahrada’ (dal verbo ceco ‘zahradit’: delimitare, chiudere, anche per prendersi cura), come delimitazione per impedire il cammino alla natura circostante e sylvatica, e si dice ‘kepos’, come recinto protetto. Ma la parola greca Kepos ha il duplice significato di giardino e di grembo materno. Un significato che rimanda al germinare e al fiorire.
Queste due parole, che arrivano da terre così distanti, condividono il significato del Giardino di cui parla il libro di Ermini. Questo giardino è il luogo di una contesa sempre in atto: tra l’essere e l’ingannevole apparire.
“Quali sono le vie che portano l’essere ad apparire? Come si manifesta l’essere? Dove si cela? Ogni sua manifestazione è davvero illusoria? Ce ne parla questo libro, indicandoci quali conseguenze comporta fare esperienza del mondo e del suo incessante scaturire” (13).
L’appello dell’incessante scaturire del mondo è la questione che attraversa come un fulmine, da cima a fondo, il libro di Ermini. È la domanda intorno alla parola che possa dire quell’origine taciuta proprio mentre si pronuncia “l’esperienza del mondo”.
La parola originaria, come parola dell’origine, unisce le parti che solo apparentemente, ma necessariamente, dividono il viaggio attraverso luci e ombre, tenebre e bagliori della contesa: la natura dell’apparire, il fuoriuscire delle cose dall’illimitato, “il mistero della notte albale”; la natura come continuo nascimento e declinare nel nascondimento, la caducità delle cose e l’immutabilità dell’essere; il risalire dalla molteplicità delle apparenze all’unità della sostanza che le compone (“Dobbiamo tornare là dove il divenire si è scollato dall’essere e ha preso a vivere sulla terra. Ma il nostro sguardo non può accontentarsi di seguire ciò che è vicino e si muove e muore. Noi dobbiamo guardare a ciò che non tramonta”, 121); lo smarrimento e il risveglio dalle illusioni; la parola poetica che, spogliatasi della hybris umana si fa esperienza poetica e apre il linguaggio all’accadere dell’essere, nel suo esito più alto consiste nel cedere la parola all’essere: “In questo senso mi sento autorizzato a parlare di ricerca della verità: trovare nomi nuovi per consentire all’inespresso di risuonare e in pari tempo di essere custodito come inviolabile segreto, irriducibile alla rappresentazione” (173). È in questa verità che ritorna dunque quell’ex del per-ire taciuto e silenziosamente dimenticato. Il linguaggio poetico segnala allora che “è ancora viva la memoria di quella lingua originaria, una lingua che viene alla luce da parole che ancora non nominano, parole che ancora non sono il corrispettivo della cosa, parole, dunque, da ascoltare come una remota ingiunzione rivolta al pensiero” (176). In questo senso, “la scrittura che si espone al dire vuole rimanere irriconoscibile. È la madre il cui grembo appare come un leggero mantello che racchiude e germina il principio del nascituro. La scrittura è uno spogliatore: uno che toglie. Toglie l’inessenziale, ciò che sta tra noi e le cose nella loro apparenza” (184). È proprio in questo “grembo” evocato d a Ermini che sembra venire alla luce quel significato di Kepos, giardino, come grembo materno.
Nelle pagine del Giardino conteso, l’origine è detta alla luce aurorale del pensiero greco arcaico, premetafisico: “Ogni origine si affaccia sull’incertissimo che ne costiuisce l’arché. Insomma, ogni elemento noto contiene in sé costitutivamente l’ignoto. Come avanzare la pretesa di riconoscerlo? Come giungere all’inizio essenziale? “ Eppure: “Grande è la difficoltà che si incontra nel cammino verso l’origine, per poterla veramente attingere; perché forse non c’è vera origine, ovvero un fatto, un essere, un dato ultimo cui sia possibile riferirci come fondamento del tutto” (114).
La realtà principiale, l’albale groviglio della physis, “l’apeiron nominato da Anassimandro, l’informe indefinito e indefinibile”, (144) è pensata ascoltando le parole fondamentali del pensiero delle origini: Physis, Arché, Kosmos.
Ciò che dà origine a tutte le cose, proprio in quanto origine, non può essere tra le cose originate. È incipienza continua, origine che rigermina di continuo, inesauribile riserva. Di nuovo, il duplice significato del Kepos: “L’infanzia del mondo è energia inesauribile dell’inizio primo. Ciò detto, non significa che il principio sia innocuo. L’infantile principiale è altra cosa rispetto al puramente recintato, al circondato da una siepe” (25).
Physis è la dimensione del continuo nascimento, del fiorire e poi dileguare delle cose. È il regno da sempre in fieri, del divenire, del doloroso transito (panta rhei) di tutte le cose (res), dolore sopportabile proprio perché sempre mobile, come un reuma. L’arché è principio, non solo come inizio ma anche come legge (universale) che dà senso, elemento che sostiene, fondamento che regge, potere che governa e tiene insieme. È ciò che garantisce alla physis di diventare Kosmos, cioè mondo ordinato e non chaos. Il kosmos è la splendente disposizione delle cose alla luce dell’essere e dell’arché che ne dà ragione; è il mondo ordinato che i latini chiameranno mundus, cioè ordinato e pulito, mondo di misura e proporzione, dunque di bellezza (il mondo della cosmetica).
“Pensare davvero significa andare alla produttiità originaria dell’essere che si dispiega” (41).
La parola originaria non è se non parola ‘dell’’origine, dove l’origine è l’oggetto del genitivo, il detto della parola. Tuttavia, proprio la parola poetica non ‘dice’ se non che l’origine non è una cosa. La cosa, il ‘detto’ dell’origine è la questione “originaria” del disvelamento.
La parola poetica dice e cor-risponde all’appello oscuro dello svelamento.
Nel suo svelare, l’origine si sottrae a favore delle cose che lascia-essere. Corrispondere al dono dell’essere non può mai, dunque, “dire” l’origine come presente. Il potere originario della parola poetica è nel suo “ricordare” l’origine, la presenza nella sua provenienza (“Conservare la memoria dell’origine”, 120) ma, necessariamente, senza rap-presentare – presentificandola – la provenienza stessa: una parola che “dice” il proprio oggetto sempre differito. L’essere che si dispensa e si sottrae, nel suo svelare e occultare apre il gioco tra il fatum (il “detto”, la “parola pronunciata”) nel senso di destino allontanante e l’originaria in-fantia del dire dell’essere.
Nel Giardino conteso il pensiero aurorale è evocato ricorrendo a Eraclito, Parmenide, Senofane, Anassimandro, Heidegger, Nietzsche ma, più spesso, in ascolto di Rilke, Musil, Novalis. Su tutti, e sempre nei momenti decisivi del “viaggio”, Hölderlin: “Un enigma è il puro scaturire. Anche/ il canto non può rivelarlo. Più di tutto può il principio”.
È Hölderlin ad annunciare che l’approdo del nostro cammino è un luogo in cui saremo un dialogo: “Dunque c’è un luogo che ci chiama e che ci ingiunge di seguire un cammino: è il cammino che si intraprende affinché, dopo l’esilio cui siamo esposti nascendo, si possa concepire un ritorno. In questo movimento verso il luogo che ci chiama, l’esperienza di ciò che è straniero – ovvero di ciò che avviene fuori dalla vita, e quindi al buio – non è solo una fase del viaggio ma il suo momento decisivo, perché solo allora è possibile assentire alla ricerca di un inizio più originario e non soltanto all’esperienza di un’alterità irriducibile alle consuetudini. La posta in gioco è quel punto ortivo dove possiamo trattenerci come un elemento estraneo. È un approssimarsi che nega ogni idea di appaesamento e di possesso. È un dire-di-no, che non è ascesi, ma pura presa di distanza: è l’occasione di un’attesa, per accogliere il richiamo di una voce e diventare un dialogo” (115).
Questa nota sul Giardino conteso di Flavio Ermini ha preso avvio seguendo il senso della parola “esperienza”, proprio perché intendeva essere un tentativo di corrispondere all’invito di Ermini ad una esperienza di verità. Questa nota allora non può trovare il proprio compimento che in queste parole di Ermini: “Nell’ascolto una lingua è ospitata da un’altra lingua; il dialogo prende forma e ritmo: diventa esperienza. L’ascolto è proprio il racconto di questa esperienza” (210).
I commenti a questo post sono chiusi
Sul tardi