Il caso Meursault
di Gianni Biondillo
Kamel Daoud, Il caso Meursault, Bompiani, 130 pag, 2015, traduzione Yasmina Melaouah
C’è un uomo, un algerino, che parla, in una bisca di Oran. E c’è un ragazzo che lo ascolta. Probabilmente uno studente francese, che ha nella sua borsa Lo straniero di Albert Camus. L’uomo ha voglia di raccontargli una storia. Lui è il fratello del morto. Sì, proprio “l’arabo” che muore nel romanzo di Camus. Romanzo geniale – secondo l’autore di questo contro-romanzo, Kamel Daoud – ma anche romanzo crudele, che non si degna neppure di dare un nome e una identità alla vittima. “L’arabo”, viene chiamato da Camus. Una funzione narrativa, non una persona.
Sta in questa idea semplice e geniale il fulcro de Il caso Meursault. Un romanzo che vuole essere come un risarcimento per tutte le vittime dimenticate. Rileggere la storia dal loro punto di vista. Dare loro un nome, una identità, un passato.
Il romanzo è una lunga e confusa confessione dove non si segue un preciso ordine cronologico. Molte delle riflessioni, politiche, filosofiche, religiose, della voce narrante sono evidentemente riflessioni dello stesso autore, cosicché personaggio e scrittore sembrano sovrapporsi. E, per aumentare la confusione dei piani narrativi, spesso, si cade nel paradosso di sapere che il morto di cui si parla è un personaggio letterario, morto solo sulla carta, ma che la voce narrante (personaggio tanto quanto) tratta come avesse vissuto e incontrato per davvero la morte su una spiaggia algerina per mano di un francese che ha fatto la sua fortuna letteraria grazie a quell’omicidio.
L’idea potente che regge tutto il romanzo è però anche il suo limite. Senza conoscere il romanzo di Camus si perde molto del continuo dialogo filosofico che Daoud intesse idealmente con il collega francese. Il caso Meursault, essendo una controinchiesta, dà per scontata la lettura del romanzo a cui si ispira, perdendo così una autonomia che ogni opera dovrebbe pretendere per sé.
(pubblicato su Cooperazione n° 48 del 24 novembre 2015)