Miti Moderni/19: ritorni

di Francesca Fiorletta

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Il mare era calmissimo, agitato.
Le nuvole alte nel cielo, pesanti, si aprivano su un pomeriggio assolato di fine estate.
Nelle orecchie il mugolio delle cicale, l’abbaiare dei gatti in calore dentro i vicoli deserti del centro storico, le terrazze di vetro, abbandonate, coi panni stesi ad asciugare, le tovaglie del giorno prima. Fare l’amore sotto le stelle, la via lattea in lontananza, l’abat-jour ben salda, appoggiata sul tavolino del salotto. Una villa in stile umbertino, il tetto basso, la fila rossa di mattoncini ordinati per cancello, un pozzo riarso da cui abbeverarsi, preparare il caffè con l’acqua piovana.
Quanto dura il sentimento d’empietà. Quanti manici possono avere le valigie per l’imbarco. Quanti braccialetti dorati tintinnano giù, alle caviglie. Quanti calici alzati, ricolmi di gelato, per festeggiare. Una sorpresa.
Nella sala d’aspetto un finto infarto, un medico tutto boccoli e niente carisma, ha dimenticato il camice da stirare, in garage. Una nuova fidanzata è in sovrappeso, porta ciocche colorate sulle tempie, tinte male, scarpe col tacco e brillantini, pantaloni dozzinali da mercato rionale, bianchi da capirne anche il rovescio, un abbigliamento non adatto al rito funebre, anticipato.
Pericolo scongiurato, tuttavia, si può tornare a friggere l’alloro; rassettare i teli per la spiaggia, uno scoglio piatto al centro della prospettiva, un faro in lontananza, tutto curve e smalti accesi, il tintinnio dei vagoni dell’epoca, i vapori che s’inalano dalla cabina per l’imbarco, l’ovvietà.
Diventerà un ristorante a cinque stelle, un resort con tanto di vista sull’oceano, un albergo a ore, itinerante, un bad&breakfast nel cuore vivo degli scavi normanni, la feroce civiltà dei greci, l’orologio che spunta squadrato da sotto il polsino, e ti numera quanti passi hai fatto oggi, quanti sceglierai di non farne più, domani.
Una carovana di bambini urlanti, giovani donne e non ancora uomini, col baffetto spelacchiato, le ginocchia sbucciate e molli, i calzini bianchi come quel documentario alla tv, al rientro dalla gita del liceo, salgono in massa festanti, bevono Fanta e Spritz, maneggiano un involucro di pasticcini e fagotti ripieni di sugo alle mandorle, odore di lillà sulle pareti.
I viaggi non sono i viaggi, un divertimento colossale, l’imperituro incedere del tempo, le necessarie contromisure per l’urgenza: inverti il gate, compara l’annata precedente, medita l’arredamento del prossimo ufficio di periferia.
Mandi un messaggio vocale dopo aver dormito troppo, prova e riprova, senza convinzione, l’allaccio isterico a una connessione inesistente: l’eritema solare stringe i polsi di diniego, per la prima volta dopo tanto tempo sei felice, non c’avevi fatto ancora il callo.
Bevi un sorso d’acqua, il frigorifero è vuoto e ghiacciato, rientrare in città non era mai stato un problema, anzi, una fortuna inconcludente; confondi le luci dei lampioni con le luminarie del Santo Patrono, il clacson dell’autobus col concertino jazz davanti al porto, la pineta di metallo blu cobalto, come specchietto per le allodole da marito.
Attraccano le navi come se fosse un mistero sempre nuovo, quattro piani per ogni tipo di lusso, balli da discoteca e cene a tema svizzero, di formaggio; i cappelli illuminati dalla furia dei gironi, la spuma negli occhi di petrolio sembra plastica da riuso per l’aria condizionata sul Ponte numero 3.
Anche le donne anziane di allora, struccate, ben vestite, compravano gli anelli al supermercato, le pietre veneziane dietro le sale del tabacco, si scambiavano tra loro audaci sguardi di sfida, meditavano in cuor loro una rivalsa senza via di scampo, e poi venivano senz’altro a passeggiare qui, dove comincia tutto, dove agosto finisce.

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