La coda di Ferragosto
di Luca Ricci
L’uomo, mettendosi in macchina a Ferragosto- benché avesse programmato con largo anticipo una partenza a un orario cosiddetto “intelligente”-, sapeva che sarebbe stato vittima di un evento ineluttabile: la coda per raggiungere il mare. Gli era già capitato un migliaio di volte di restare imbottigliato, eppure sul suo volto si dipinse uno stupore infantile mentre scalava le marce dalla quarta alla prima. Subito dette la colpa a tutta una serie di circostanze nefaste: la seconda colazione al bar, il rifornimento superfluo di giornali all’edicola, il lavavetri che si era avventato sul parabrezza con il semaforo verde…
A ogni modo ormai c’era poco da fare: sulla famigerata SS1, meglio conosciuta come Aurelia, già all’altezza della discarica di Malagrotta, si era ritrovato a procedere a passo di tartaruga, le macchine incolonnate una dietro l’altra come un torpedone gigante di cui non riusciva a vedere la fine. All’inizio aumentò l’aria condizionata e ascoltò alla radio la certificazione dell’incubo in cui era precipitato: “Rallentamenti e code lungo l’Aurelia, in direzione di Ladispoli, Fregene, Santa Marinella, verso Civitavecchia e l’imbocco per l’autostrada A12”.
Dopo qualche imprecazione, abbassò il finestrino per scambiare una parola con i suoi vicini di supplizio.
“Scorre la fila?” chiese stupidamente.
“Non esiste una coda più lenta di questa,” gli risposero, sconsolati.
Dopo un paio d’ore, inaspettatamente, l’uomo invece di spazientirsi cominciò a provare una sensazione quasi piacevole. Come se fare la coda fosse una peculiarità dei romani, addirittura un privilegio.
Qualcuno aprì la portiera della macchina e scese sull’asfalto bollente: “L’altra settimana ho fatto tre ore di coda”.
Un altro ribatté vanaglorioso: “Io sono arrivato a farne cinque di seguito”.
Sarebbe parsa un’ostentazione incomprensibile, ma per chi viveva nella capitale la coda- alle poste, dal medico, al supermercato- era un segno di riconoscimento e di appartenenza.
Verso le due o le tre del pomeriggio avevano fatto sì e no un paio di chilometri, e in diversi avevano deciso di stendere i teli di spugna direttamente sui tetti delle macchine, o aprire le sedie pieghevoli, o gonfiare i canotti dei bambini. Insomma, venne improvvisato uno stabilimento balneare lungo la strada. Al tramonto quella baraonda non era ancora finita, ma qualcuno decise di allietare la serata accendendo un falò e suonando la chitarra.
Verso il secondo o terzo giorno d’ingorgo- le macchine si muovevano di qualche centimetro all’ora- l’uomo perse i sensi. Non era tanto il caldo (aveva pur sempre l’aria condizionata di serie) quanto l’aver cominciato a riflettere sulla lunghezza teorica della coda: chi aveva provato a risalirla a piedi non era più tornato.
“Possibile che non arrivino i soccorsi, che non si sia ancora vista una volante della polizia o sentita una sirena di un’ambulanza?” si domandò nel silenzio del suo abitacolo, e quello fu l’ultimo tentativo di razionalizzare la situazione nella quale era venuto a trovarsi.
L’uomo cominciò a vivere come un automa- a volte dando un piccolo colpo di acceleratore col piede destro, quel tanto che bastava per colmare il poco spazio che si liberava davanti a lui-, mentre lungo la strada si era formata una vera e propria comunità. La gente cercava di darsi una mano come poteva, quando non era impegnata a inveire contro la coda. Così un’ostetrica offrì la sua esperienza per fare partorire la donna di una macchina situata qualche chilometro più su rispetto al punto dove si trovava lei. In genere per le emergenze partiva una sorta di rapidissimo passaparola tra le macchine, favorito dal fatto che già si trovassero in una posizione ottimale per il tam-tam, incatenate l’una all’altra com’erano. Erano molto impegnati fisioterapisti e osteopati (la guida protratta aveva procurato ai cittadini della coda una sfilza di acciacchi posturali, colpi della strega e via dicendo) e, purtroppo, cardiologi (vista la situazione, gli attacchi di cuore si sprecavano). Qualcuno- forse un sociologo col pallino della matematica- tentò di rasserenare la coda diffondendo alcuni calcoli realizzati con significative approssimazioni e arrotondamenti (nessuno conoscendo esattamente la densità del traffico e l’estensione del guaio): sommando il cibo contenuto nella totalità delle borse frigo delle famiglie rimaste imbottigliate, il livello del benessere si sarebbe mantenuto decente ancora per molto tempo.
I ragazzini giocavano insieme, per bande, spesso sul limitare della strada, ogni tanto avvicinandosi pericolosamente ai guard-rail. Una volta due o tre di loro- più per il gusto di commettere una bravata che per la reale volontà di chiedere aiuto- si fecero largo tra la vegetazione bassa del Lazio, tra campi di grano e allevamenti bovini e ovini, fino alle prime fattorie che costeggiavano l’Aurelia.
“Siete quelli della coda?” gli domandarono da laggiù, quasi che la strada e la campagna circostante ormai corressero su piani paralleli ma non più comunicanti.
Ai ragazzini non venne dato neppure il tempo di rispondere, perché dalle finestre delle case partì subito una fitta sassaiola, fatta apposta per ricacciarli indietro, da dove erano venuti. Tutta quella ferocia era assurda, a maggior ragione se messa in contrapposizione allo sguardo bonario della mucche che assistevano indifferenti e con le bocche affondate nelle mangiatoie.
Una sera non troppo afosa l’uomo accostò la macchina e decise di fare una passeggiata per sgranchirsi un po’ le gambe. Sarebbe voluto tornare indietro dopo poco, i suoi intenti non erano avventurosi come quelli di chi abbandonava l’auto per tentare di scoprire la verità, ma a mano a mano che camminava restò affascinato da come cambiavano gli usi e costumi della gente. In realtà la coda era costituita da segmenti diversi, il gruppo di riferimento di ciascuno non si estendeva che per un paio di chilometri, e dopo partivano altre facce e altre storie.
Quanto durò quell’ingorgo epocale e mostruoso? Un giorno qualcuno bussò al finestrino dell’uomo. Era troppo stanco e spossato per camminare da solo, quindi lo aiutarono a scendere e lo accompagnarono fino alla spiaggia. Non si sentiva più le gambe, e in generale gli pareva di essersi incurvato, perfino imbiancato.
Chiese: “Ce l’abbiamo fatta, è finita la coda?”
Annuirono senza troppa convinzione, ma cercando di risultare rassicuranti. Sorrisero proprio come si fa con i vecchi. L’uomo restò lì in piedi sulla sabbia, cercando di osservare la scena. Ed ebbe improvvisamente freddo, si accorse che quello era un mare d’inverno.
*Questo racconto è apparso per la prima volta sul Messaggero, nella rubrica culturale Ricci & Capricci. Si ringraziano testata e autore.