L’eco di uno sparo
di Gianni Biondillo
Massimo Zamboni, L’eco di uno sparo , Einaudi, 2015, 186 pagine
È il febbraio del 1944, la guerra fratricida nel cuore dell’Emilia sta vivendo forse il suo momento di massima recrudescenza. Ulisse, fascista della prima ora, viene ucciso in una imboscata da un gruppo di partigiani. Nelle stesse terre, pochi mesi prima, erano morti i sette fratelli Cervi, fucilati dai repubblichini. Molti anni appresso, in pieno boom economico, quei fatti troveranno un nuovo epilogo con un altro omicidio. Un regolamento di conti, forse, fra appartenenti dello stesso schieramento.
Nulla di inventato, semplice verità storica. Eppure il racconto di Massimo Zamboni ha il passo e il respiro della migliore letteratura nazionale. Forse proprio perché l’autore ha deciso di non camuffare la storia della sua stirpe in un abito accattivante. Scrive non da storico, essendo coinvolto in prima persona, ma neppure da agiografo familiare. L’eco di uno sparo è un libro inclassificabile, in questo sta la sua forza. Sa avvincere come un romanzo, ma non cade mai nel romanzesco, consapevole di quanto una deriva finzionale possa depotenziare la verità storica.
Zamboni si porta adosso, persino nel primo e secondo nome ereditati dai nonni, l’adesione alla parte sbagliata della storia dell’intera sua famiglia. La sua storia personale si allontanerà da quelle scelte, ma l’affetto per le persone, per i corpi quasi, sa rendere umani e compassionevoli i ricordi. È della terra grassa emiliana che si parla in questo libro. Dei suoi contadini e artigiani, delle bestie e degli animali (cose ben diverse). E lo fa grazie ad una voce che fa fatica a stare compressa in un italiano pacificato, cercando nel parlato dialettale il ritmo necessario per raccontare una autentica epica del territorio.
(pubblicato su Cooperazione n° 20 dell’ 11 maggio 2015)