Phyla – invertebrati
di Mariasole Ariot
Sono nata da un’assenza. I volti appesi alle pareti grondano sulle cose, spargono dolore sui movimenti, zittiscono. Di questo silenzio non ci diciamo che millenni, piccoli rimasugli di terra nelle bocche che occludono il passaggio : chinàti a raccoglierci non facciamo ombra, siamo come mantidi dello stesso sesso che sputano i resti nello spazio.
Eppure a volte, nella congiuntura immobile delle gambe, responsabilizziamo un futuro per accogliere il passato : anni di non dire, del non fare dimenticanza né vuoto, di paesi che immensano cascate, un cerchio imperfetto del reale.
Quanto non sentito, quanto non finito : l’intervento dell’irremediabile è combustione.
Poi arriva il sonno delle cause, il debole chiudersi di una corolla poco prima del risveglio : se non siamo che questo indicibile svenire, origliamo il rumore della parola e della pietra, annusiamo i ricordi e ci fermiamo.
Il tempo è chiuso, la cinta delle rocce ci contiene.
***
Ma nei primi giorni di caldo, le nostre facce si mettono a seccare, ci piantiamo ulivi per non piangere vergogna. Di questo esperimento della fine, del fine che fa uno col finire, resta un buco nel costato, una debole cavità della parola. Nella stanza ha un luogo l’ombelico – e sotto lo sterno, che brilla di postura e di selciato, si aprono contesti matricidi : un occhio dentro l’occhio che non cade, sospeso al terrore minaccioso, un incubo pensato nel mattino.
Urla : lo spazio del silenzio. Preme : un luogo di materia, un sasso fosforoso come il niente.
Quando arriva il sonno districhiamo gli arti : braccia a braccia con il vuoto accade il germinare : di quanta indegnità circondo, di quanto non valere è il mio stupore? Resto accovacciata sul bordo della vita, scardino una mensola di libri, m’intossico di Indegno.
I giochi dei bambini sono nudi, la testa si fa fossa e si pronuncia.
***
Nelle ore più fredde ci asciughiamo il viso, il pianto forestale di una cavità terrestre. La mia paura è la nostra paura, cieca come un cane disperato dalla luce, un comodo abbassarsi e ritornare, un fuoco che scolpisce la mia parte, che porta in seno una miseria : il resto di uno scarto di frattaglie.
La cura è cominciare l’inatteso.
Ma : madre di costola e di fiume, dove si arresta il termine comincia il tuo lamento : un falso brulicare della mente. L’angoscia è questo cadere dal basso, le pupille dilatate, il non stormire. Muovi un passo, fraseggia i miei conati.
***
Poi ci sediamo. Mescoliamo le parole per vendetta [umida figura dell’udire]. Se non siamo sguardo, se non siamo ombra, se l’ombra ricade come oggetto, se il gettito di cosa non annuncia : pietrifica.
A tratti separiamo, dividiamo il fogliame dalla morte, da questo incunerasi del tentare. L’esistere è già caduto, un pallido imitare l’esistenza, un gatto imbalsamato per il lutto. Di quanto mondo è un mondo? , di quanto non finisce il non finire?
I torturati hanno addosso un Assoluto, vestono i vestiti della nebbia, si chinano sul bordo delle cose.
Se il vero è il già parlato, di cosa è materia il non vissuto?
***
Sulla scena del mondo piangono le donne, detriti derisi dall’umore – e io mi affaccio, striscio come un verme sugli oggetti, mi cibo della terra, il particolato sottile in sospensione. Lui scrive : intestini del suolo.
***
Dico – dici che sia un peccato
Perdere questa casa, quantificare
la perdita, durare.
Dici che sia
Quando non è dire ma adornare
Di piccoli gesti i giudizi, i falsi giochi
Le giunture.
Dico – dici che sia peccato
Piovere sulle cose
Quando è un come, il derivato, la deriva
Dici che sia, di gesti ingiusti, vittima.
Dici – Dico che sia vita.
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Intenso e oscuro, onirico e sofferto. Non facili da districare certe immagini, ma si percepisce che le parole sono incise tutte sulla carne dell’autrice.