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les nouveaux réalistes: Francesco Delle Donne

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La consistenza del cane

di

Francesco Delle Donne

Da quando è successo tutto, la casa è diventata un camposanto. Mamma non l’ho mai vista così triste. Vincenzo gira per casa che sembra un leone in una gabbia, e dice che così, a vivere come bestie alla catena, mica si può andare avanti. Senza Ettore e Marilena, poi, ci sta troppo silenzio e se faccio una domanda a papà, lui mi risponde col solito mugugno.

Il silenzio è una cosa strana, perché non lo puoi vedere e non lo puoi toccare, senti solo che si appiccica addosso e sulle cose, come una domanda senza risposta. E poi si sa, a noi napoletani troppo silenzio ci indispone perché ci fa pensare. Se proprio dobbiamo scegliere, preferiamo l’ammuina.

All’inizio, quando ho portato Ettore a casa, a mamma per poco non veniva una crisi. “Ci mancava solo il cane, adesso, non basta lo zoo che teniamo!”
Poi col tempo si è affezionata, pure se Marilena è allergica ai peli.
Anche Ettore, da quando ha capito che a cucinare ci pensa mamma, è diventato un cane devoto e la segue passo passo come se fosse la Madonna dell’Arco. Mamma si commuove e lo ingozza di polpette e frittatine. Infatti, anche se Ettore ha solo quattro anni, sembra già vecchio per l’affanno che tiene. Il signor Michele – un veterinario zoppo che viene a domicilio e si fa pagare con le teglie di pasta al forno – dice sempre “La diagnosi è che… ‘stu cane magna cumme ‘nu puorco” e “Se continuate così, signora, questo vi schiatta sotto gli occhi.”

Ettore è il mio miglior amico perché se qualcosa va storto, e a casa cominciano a strillare, lui si avvicina e mi fissa con gli occhi umidi. Sembra quasi che dica “Chi te muorto, lo so che questa vita è dura, a me mi avete pure tagliato i testicoli. Ma io scodinzolo sempre e vado avanti”. In quei momenti penso che quando morirà io tornerò solo, e quasi mi dispiace di averlo preso quel giorno al canile. Poi dicono che i cani quando muoiono si allontanano e vanno a cercarsi un posto per non essere visti. Ma Ettore non so come si può arrangiare nei quaranta metri quadri di casa nostra. Mio fratello Vincenzo dice che sicuramente si va a mettere sotto al letto mio, perché è l’unico posto quieto.

Mamma ha preso questa abitudine: se le vengono i nervi e le gocce non bastano, si prende il cane in braccio e lo strapazza tutto. A volte lo chiama sarchiapone mio e gli dice anche le cose nell’orecchio. Nemmeno a me che sono il figlio mi dice più le cose nell’orecchio.

“Ormai sei grande, e poi ti ho detto che è scortesia”
“Allora Ettore?”
“Che c’entra! Ettore è cane, non conosce l’etichetta”.
Poi però anche io, ultimamente, se tengo i pensieri, mi stringo forte a Ettore. Affondo le dita nella sua pelliccia morbida, fino a quando non arriva un calore fortissimo e subito mi passano le formiche nelle mani di quando sono arrabbiato. Se poi accosto la testa, sento pure il battito profondo del suo cuore. Allora tutto diventa piccolo e lontano, come dietro a una plastica, le mani di zio Alfredo che frugano tra le cosce di mamma, gli occhi chiusi di papà girato di lato a bersi la birra, gli strilli di Marilena, le bestemmie in tre lingue di mamma…

Poi mia sorella, dopo la seconda crisi anafilattica, è guarita dall’allergia a Ettore. Lei però, quando aveva sei mesi, le è venuta una febbre altissima ed è rimasta ritardata. Così quando l’abbiamo portata al Cardarelli, il dottore era stranito. Ma io l’ho subito informato, “Non vi preoccupate, capo, Marilena è handicappata”.

“Menomale” ha risposto “mi pensavo che era stato il pelo del cane a scemunirla!” Siamo scoppiati tutti a ridere, pure mamma che ha dato un pacchero forte in testa a Marilena per farla smettere di piangere. “Non rompere il cazzo, piccerè, che già stai inguaiata!”

Il dottore si è complimentato con mamma dicendole che è importante saper gestire con ironia la malattia della figlia. Le ha fatto pure l’occhiolino, mentre si allungava per darle la ricetta, e allora mamma ha stretto le labbra, piegando il collo di lato come nella foto sul comodino, quando era giovane e senza i segni sulla faccia.

Ettore è un bravo cane, ma tiene ancora questo vizio di sgarrare sul pavimento con la pipì, se sta nervoso o qualcosa lo emoziona. Prima di queste feste, zio Alfredo stava assai di genio per qualche motivo suo, e allora si è preso una fissa: si doveva vestire da Babbo Natale e presentarsi a mezzanotte del ventiquattro vicino all’albero di Ikea con tanto di barba finta e sacco dei regali.
Io ormai sono grande, e altri bambini in casa non ce ne stanno, ma zio Alfredo stava così preso dal suo piano che quasi subito abbiamo smesso di dirgli “Non ti preoccupare, zio. Grazie ma basta il pensiero”.

Zio Alfredo è uno che quando gli prende la fissa per qualcosa, smette di esistere. Anzi, esiste solo per quello, e tutti gli ostacoli che trova tra lui e la cosa che ha in testa li abbatte con una furia che non ho mai visto in faccia a nessuno. Si era pure convinto che il costume doveva cucirselo da solo, perché aveva cercato e cercato, ma quei mariuoli dei sarti non sapevano fare il loro mestiere e “Quanto è vero che mi chiamo Alfredo Palmisano, non mi metterò mai il costume made in china della Coin”. E allora, visto che non c’era soluzione, perché da mamma stava tutta la roba per cucire, zio Alfredo prima si è messo in aspettativa dal lavoro e poi si è trasferito praticamente a casa nostra, per fare tutte le prove e le misure indispensabili a finire il suo capolavoro.

Io ho subito capito che dovevo tenere Ettore lontano dalla stanza di mamma e papà, dove zio Alfredo si era accampato assieme al manichino di polistirolo e ai rotoloni di tessuto rosso.
Come tutti i cagnolini, a Ettore piace molto pisciare su cose nuove. E il gusto aumenta se sono cose tanto colorate e tengono una forma strana. Allora per evitare tragedie e salvare il Natale, ho fatto un segno bianco con il gesso per terra davanti alla mia porta e sono stato un giorno intero accovacciato di fronte a Ettore, per ficcargli in testa che non doveva superare la striscia.

Visto che non volevo sculacciarlo, ho trovato il modo di punirlo tirandogli piano la punta delle orecchie. Ogni volta che sgarrava, gli dicevo “No Ettore, cattivo!”. E tiratina di orecchie. Ma, alla terza tiratina, Ettore si è capovolto per chiedermi i grattini sulla pancia, e io ho capito che per lui quella non era una punizione, ma solo un gioco molto divertente.

Infatti è stato faticosissimo, e alla fine della giornata, quando è scattata la serratura della porta e papà è rientrato col silenzio, io mi tenevo Ettore tra le braccia e lo scongiuravo nell’orecchio “Hai capito? La striscia è importante. Io lo so che per te è strano, ma fidati di me: non superarla… MAI”.

Mentre papà passava come un’ombra tra noi, Ettore si è avviato svelto verso la striscia, poi si è fermato a due centimetri, si è voltato a guardarmi e zampettando è tornato da me. Ho tirato un sospiro di sollievo e me lo sono strapazzato tutto, dicendogli “Bravo Ettore, sei proprio un cane bravo”. Lui ha scodinzolato e per premio gli ho lanciato tre biscottini a forma di osso che ha ingoiato come fossero aspirine, senza nemmeno masticare. Mentre Ettore sbavava dalla felicità di avermi accontentato, io tra me e me pensavo: manca ancora una settimana a Natale, speriamo bene.

Il giorno dopo ho portato Ettore dal signor Peppino, al secondo piano. A casa di Peppino, Ettore si arricrea perché c’è un odore di piscio così forte che il cane si pensa di essere arrivato in paradiso. Io, invece, cerco di andarmene subito perché l’odore mi fa vomitare. Questa volta però Peppino era curioso di sapere perché si doveva tenere il cane. Allora gli ho spiegato: “Vincenzo si porta a casa la nuova fidanzata e non vuole Ettore tra i piedi. Dice che questa qui tiene molta classe e quel maiale del tuo cane lo sgozzo se le salta addosso come ha fatto con l’ultima! Che sarebbe Mena, quella chiatta che odora di salame”

“Filomena Mangiarulo, la nipote di Ciccio il pescivendolo?”
“No, un’altra. E poi Vincenzo ha detto a mamma: ‘Sta volta mi sono sistemato, a ma’! Questa Sonia sta sfondata di soldi, tiene pure la proprietà. A me che cazzo me ne fotte. Mi sveglio a mezzogiorno che quella sta già a faticare, giro per casa in mutande, mi faccio i cazzi miei, gioco con la playstation e mò per Natale mi compro pure la vestaglia di seta rossa come quella dei Conti.
Ma almeno è una brava ragazza? Ha detto mamma. Vincenzo allora è scoppiato a ridere così forte che si vedevano i pezzi di pomodoro tra i denti: Come no, una santa! Uguale a questo mamoziello qui. E mi ha sollevato peso peso per l’orecchio.”
“È vero!” ha detto Peppino stupito “guarda, pare che tieni una zampogna!”
“Mamma gli ha urlato in faccia, allora lui mi ha lasciato l’orecchio, e io sono salito sopra a portarvi il cane”
“Aspetta, vado a prenderti il ghiaccio”
“No no, me ne torno. Mi raccomando Ettore”. E sono scappato via prima di svenire per la puzza.

Sembra strano, ma dopo sono passati sette giorni senza incidenti. Anzi, zio Alfredo stava in stato di grazia, era molto gentile con mamma e cercava di ripagare l’ospitalità portando quasi sempre le paste mignon a pranzo. Parlava poco della sua opera, ma da come teneva spiritati gli occhi si capiva che il suo pensiero era: Non voglio dirvi niente, perché a parole non si può spiegare la magnificenza che sta venendo fuori. Ma a Natale vi sbalordirò, e tutti sapranno chi è Alfredo Palmisano, perché il babbo natale mio rimarrà nella storia mondiale dei babbi natali e il mio nome si tramanderà tra le renne di tutto l’emisfero australe.

Mamma in quei giorni stava troppo contenta e pure un po’ sorpresa che niente di brutto era ancora successo, visto che di mezzo ci stava zio Alfredo. Io lo so, lei si diceva: sarà la volta buona che pure Alfredino è cambiato, si è fatto più tranquillo, maturo. Perché mamma da fuori sembra più vecchia della sua età per via di quei segni che le sofferenze le hanno fatto uscire sulla fronte e sul collo, ma certe volte, dentro, pare una bambina piccola che ancora crede nelle favole.

I giorni passavano, e ogni pomeriggio verso le cinque, appena la luce del sole calava un poco nascondendosi dietro alla collina dei Camaldoli, zio Alfredo smetteva di cucire e si faceva mezz’ora di pennica sulla poltrona sfondata di nonna. Nella casa tornava il silenzio buono, che riposa le orecchie, perché la cucitrice di mamma è vecchia e fa il rumore di un treno dentro una galleria.

Dopo nemmeno un’ora rientrava papà e senza salutare nessuno andava spedito al frigorifero per ritrovare la sua amica birra. A volte nemmeno si accorgeva del fratello minore lì vicino con addosso la sua vestaglia e ai piedi le sue pantofole che sorseggiava caffè freddo dal bicchierino di plastica.

In quei giorni Ettore stava sempre insieme a me e mamma in cucina, con Marilena seduta sulla sedia vicino al balcone e la radio accesa su Napoli Sound.
Quando le cose vanno bene, non ci pensi mai. Poi qualcosa inizia a scricchiolare, e allora capisci, quella era la felicità. Mamma che accompagna le canzoni della radio con un lamento allegro e ci mette le parole sue inventate durante i ritornelli, Ettore accucciato tra i miei piedi, mentre cerco di fare i compiti per il giorno dopo e ogni tanto lancio in alto la penna facendola volare attraverso il vapore che sale dalle pentole, e la riacchiappo appena in tempo sulla discesa, prima che Marilena si metta a gridare indicando a terra come se un meteorite si fosse schiantato sul pavimento della cucina.

Finalmente eravamo alla vigilia. Vincenzo stava ancora con la famosa Sonia di buona famiglia, chiatta e con i buchi in faccia ed era già la terza volta che la portava a casa nel giro di una settimana. Un’altra cosa strana, che non era mai capitata prima.

La prima volta, questa Sonia a mamma non le aveva fatto una bella impressione, e nemmeno la seconda e la terza se è per questo, ma teneva così tanta voglia di vedere Vincenzo sistemato, o perlomeno tranquillo, senza problemi di debiti o amici fatti che lo cercano alle tre di notte, che si era data un pizzicotto sulla pancia e l’aveva invitata personalmente al cenone di Natale.

“Vincè…” ha detto timidamente mamma la mattina del ventiquattro appoggiando una spalla alla porta del bagno, mentre mio fratello si schiaffeggiava le guancie con il dopobarba verde ammirandosi la museruola appena rifatta nello specchio, “…ma questa Sonia… fosse la volta buona?”

Vincenzo ha fatto il sorriso delle grandi occasioni e tirandosi mamma sotto braccio le ha strofinato pollice e indice della mano destra davanti agli occhi dicendo piano piano una sola parola, quasi se la volesse trattenere ancora un poco in bocca, per assaporarsela meglio, prima di farla uscire fuori e sprecarla come una qualunque del vocabolario. La parola era “Munnezza”.

Nel pomeriggio sono salito da Peppino e con la scusa di fargli gli auguri, gli ho domandato di questa storia della munnezza. Lui ha fatto una smorfia e se n’è rimasto zitto, come se la mia domanda gli avesse messo una tristezza dentro che non si aspettava.

Dopo un po’ ha scosso la testa e mi ha fatto lui a me mille domande su cosa combinava Vincenzo e in quali giri si era cacciato questa volta. Alla fine mi ha scompigliato i capelli e con un mezzo sorriso ha detto “Speriamo che hai capito male, e noi ci stiamo facendo sopra il film. Quelli sono degli schifosi. Più malamente dei malamente. Perché ce ne stanno tanti che fanno la malavita da noi, lo sai, ma non tutti tengono genio di avvelenare l’acqua che si bevono pure i loro figli. Per fare così bisogna essere il diavolo in persona. E non è più facile che questa Sonia di mestiere fa la spazzina? Oppure tiene tutta la famiglia sistemata alla nettezza urbana, fosse ‘a primma vota…”

Siamo scoppiati tutti e due a ridere forte e Peppino mi ha abbracciato stretto facendomi tanti auguri di un sereno Natale. Mi ha pure chiamato “ragazzo mio”. Io ero così sorpreso per la sua gentilezza, che nemmeno mi sono accorto della puzza di pipì. O forse, visto che Natale viene un solo giorno all’anno, Peppino aveva festeggiato l’Avvento con un bel bagno profumato.

Quando sono sceso giù, che mancava solo mezz’ora all’inizio del cenone, mi è sembrato quasi di tornare in una casa diversa dalla mia. La tavola nel soggiorno era apparecchiata con tanto di candele dorate e ogni tovagliolo era annodato in modo strano al centro del piatto, come nei ristoranti di lusso. Nemmeno un bicchiere era di carta, e le posate brillavano come se qualcuno le avesse lucidate una per una.

Mamma con quel vestito rosso fuoco sembrava Rossella O’Hara, e aveva riempito la testa di Marilena con tanti fiocchettini dello stesso rosso identico. A me mi ha mandato subito in camera a mettere le bretelle del nonno, pure quelle rosse, e io ho cominciato a girare per casa con Ettore al guinzaglio e uno stuzzicadenti in bocca, molleggiandomi avanti e indietro con l’aria severa che fanno gli adulti quando tengono troppi pensieri.

Nel giro di dieci minuti è comparso zio Alfredo quatto quatto con un borsone sottobraccio. Sembrava un ladro appena scappato dalla gioielleria. Subito appresso sono arrivati Vincenzo e Sonia. Lui stava vestito con gli stessi jeans e la stessa camicia della mattina, mentre lei era truccatissima come un femminiello e sembrava una caramella con tutti i merletti che le uscivano dalla minigonna stretta stretta sulla pancia. Quando si è seduta io le ho contato almeno tre rotoli, uno in più di Gennaro ‘o puorco, il più chiatto delle Scuole Medie Giacomo Leopardi.

Pareva di essere tornati a quei giorni quando Marilena era ancora piccola e papà qualche parola la diceva pure. Infatti anche lui era di buon umore. Stava a capotavola e continuava a dire una frase, sempre la stessa, nel modo suo, con la voce che appena si sentiva e le parole stiracchiate per lo sforzo di uscire “C’è una bella atmosfera oggi, a casa”. E poi annuiva, sforzando l’angolo destro della bocca a sollevarsi per mandarmi una specie di sorriso.

Prima di mangiare ho portato Ettore sul tappetino morbido davanti alla porta della cucina e gli ho posato vicino l’osso di bue legato con un fiocco rosso avanzato da quelli che mamma aveva cucito per Marilena.
A tavola non abbiamo parlato tanto, perché tutti tenevamo troppa fame. Il pranzo della vigilia, infatti, lo avevamo saltato apposta per strafogarci meglio la sera. Marilena è stata buona buona per tutto l’antipasto e il primo, poi ha ricominciato con gli strilli. Mamma per distrarla le ha passato una fetta di pane cafone. Marilena ha buttato sul pavimento la crosta e ha bagnato la mollica con la Ferrarelle nel bicchiere. Mentre noi finivamo il baccalà fritto e l’insalata di rinforzo, ci ha bombardato tutti con le palline di pane zuppo nei capelli.

Verso le undici e mezza, zio Alfredo si è quasi strozzato con la terza fetta di pastiera, si è sollevato di scatto da tavola arraffando l’ultimo babbà ed è scomparso in camerino per prepararsi (“camerino” era il nuovo nome della camera di mamma e papà).

Quando mancavano pochi minuti alla mezzanotte, ci siamo alzati tutti da tavola e mamma come ogni anno è andata a prendere dal suo posto segreto il Bambinello di plastica che a mezzanotte in punto va sistemato tra il bue e l’asinello nel presepe sulla credenza all’ingresso.

Sonia fino a quel momento non aveva ancora detto una parola, teneva i capelli pieni di palline di pane e continuava a stringere il suo bicchiere di champagne come fosse il collo di qualcuno, ma sempre col sorriso. Ogni tanto si guardava intorno stordita, ma i suoi occhi spalancati erano vuoti, senza luce.

Marilena la fissava come fa sempre con le persone nuove e ogni tanto si avvicinava e le tirava un merletto diverso della gonna. Forse Sonia, per come stava vestita, le ricordava una delle sue bambole di pezza.
Mamma è riapparsa dal buio del corridoio portando il bambiniello stretto tra le mani come fosse un bimbo vero e preziosissimo. È stato in quel momento che Sonia ha detto quello che ha detto, e poi è successo tutto: il cielo è cascato sul tetto e il tetto sulla nostra testa.

È stato così in fretta che i miei ricordi sono confusi, ma le parole di Sonia me le ricordo bene, perché ridendo sembrava che le vomitasse al centro della casa con tutto lo champagne che si era stipato fino a quel momento nei rotoli della pancia.
“Signora bella, mi è venuta un’idea”, indicando Marilena, “la parte del bambiniello facciamola fare a questa scimmietta qui, così la smette di fare la deficiente!” Qualcuno deve aver spalancato la finestra della cucina, perché una corrente freddissima è soffiata sulle nostre facce e un silenzio cattivo ha riempito l’aria come una gelatina. Dopo qualche secondo mamma ha rotto la gelatina e calma calma, a voce bassissima che a stento si sentiva, ha detto a Sonia “Piccerè, che bella idea! Ma se a Marilena la deficiente facciamo fare la parte di Gesù bambino, a Sonia la vacca dove la mettiamo? Al posto del bue o dell’asinello?”

A questo punto Sonia si è trasformata che nemmeno la bimba nel film dell’esorcista. Sulla sua fronte larga e bucata dai segni dei brufoli sono comparse delle pieghe profonde, le labbra si sono storte e su tutta la faccia hanno iniziato a spuntare delle chiazze rosse e viola. Quando ha parlato, anche la voce era diversa, più sguaiata e maschile, come se le venisse direttamente dai rotoli pure quella.
“Piezze ‘e cantera, che vai ricenno? Marit’t è nu scemo, e tu ce fai pure ‘e corna co’ frate! Io te sparo in bocca a te e a tutta a famiglia toia!”

Finanche Vincenzo si è spaventato e ha fatto un passo indietro perché sembrava quasi il verso di un animale, e le parole erano mischiate a una specie di ringhio selvaggio. Ettore, che per tutta la cena se ne era restato buono buono sul tappetino a guardarci da lontano, accovacciato con le zampette di dietro rilassate sulle mattonelle della cucina, si è risollevato tutto rigido e impettito, e si è messo a rispondere al ringhio di Sonia con il suo ringhio di cane.

“E ‘o primmo c’acciro è chella bestia!” ha gridato Sonia ancora più forte indicando con il dito a forma di wurstel il mio Ettore. Vincenzo sembrava un fantasma, tutto bianco in faccia e senza parole.
Nemmeno il tempo di calmare Ettore, che quando mi sono girato mamma e Sonia erano venute già alle mani, anzi ai capelli, visto che se li tiravano tra loro urlandosi in faccia “Mò te faccio ‘o strascino!”

“No, io a te!”, finché non è intervenuto papà che si è messo a dividerle come se aprisse una cozza gigante, poi, quando finalmente si sono staccate, ha preso Sonia per la gola con una mano e Vincenzo per un orecchio con l’altra, ha spalancato la porta con un calcio e li ha buttati fuori sulle scale. Si vede che non era ancora soddisfatto, perché è tornato dentro, ha raccattato la borsa a pois di Sonia e gliel’ha chiavata dietro insieme al bicchiere di champagne sporco di rossetto.

“Voi munnezza siete, la munnezza degli esseri umani!” ha detto tra i denti mentre rientrava tutto rosso in casa. Mamma si è seduta tremando in punta alla poltrona col bambiniello stretto ancora nel pugno chiuso. In quel momento è scoccata la mezzanotte e da dietro una pianta è comparso zio Alfredo vestito da babbo natale cantando Jingle Bells mentre scuoteva un campanaccio da pecoraro in mano.

Ettore, che fino a quel momento si sarebbe meritato il premio Nobel dei cani perché nonostante tutti gli odori del cenone se ne era rimasto buono buono sul suo tappetino a giocare con l’osso di bue – e poi non si era mosso nemmeno al ringhio di Sonia – è sgattaiolato sotto al tavolo fino ai piedi di zio Alfredo, ha annusato con calma il tessuto rosso del vestito e ha sollevato la zampa. Io lo avevo portato giù qualche ora prima, ma si vede che la vescica si era di nuovo riempita tutta, oppure Ettore si sentiva assai ispirato. Zio Alfredo è rimasto immobile con il campanaccio fermo in mano. Continuava a guardarsi i pantaloni zuppi e le scarpe allagate di pipì con la fronte pensierosa, come uno che vede qualcosa che lo incuriosisce ma non capisce cos’è.
Marilena, che pure lei fino a quel punto era rimasta tranquilla (molliche di pane a parte), ha ripreso a gridare e ridere forte e più mamma provava a calmarla, più lei indicava zio Alfredo e sbracciando urlava “Piscia, piscia! Zio Alfredo piscia!”

Io ho fatto segno a Ettore di tornare subito da me, ma lui se ne è rimasto fermo a scodinzolare davanti a zio, lasciandogli il tempo di prendere coscienza. E infatti all’improvviso zio si è come scetato da un sogno, gli occhi si sono fatti piccoli e cattivi e con una mano sola ha acchiappato Ettore per la coda tenendolo sollevato a testa in giù come un coniglio. Mentre lo strattonava malamente gridava “‘Stu cane è muorto! ‘Stu cane adda murì!”

Così l’ha trascinato in cucina. Mi sono fiondato appresso a zio per salvare Ettore. Il cuore mi batteva tra i denti, come se tutto il sangue si fosse spostato nella testa. Mamma si è allungata di scatto e mentre teneva ancora una mano sulla bocca di Marilena, con l’altra ha cercato di acchiapparmi sotto la spalla per non farmi andare. Io già tenevo le mani che mi tremavano e sentivo le formiche salirmi veloci nelle braccia attraverso i gomiti. Con un gesto brusco le ho scansato la mano e fissandola con rabbia l’ho spinta verso il muro con tutta la forza che tenevo. Solo dopo, a ripensarci, mi sono accorto che negli occhi di mamma c’era la paura, e dietro alla paura una domanda, grande ma silenziosa.

Io però dovevo pensare a Ettore, così l’ho lasciata scivolare con la schiena al muro fino a terra, mentre il bambinello rotolava sul tappeto rincorrendo le palline di pane di Marilena.
Zio Alfredo continuava a urlare “Cane ‘e merda! T’aggia accìrere!”

Il guaito di Ettore mi faceva male alle orecchie e quando il neon della cucina mi ha illuminato in pieno la faccia, Zio Alfredo si è girato verso di me con gli occhi del pazzo.
“Tu qua stai? Bravo, è giusto. Devi vedere l’esecuzione”.

Io piangevo e non mi usciva una parola. Mi faceva male la testa, non riuscivo a pensare e gli occhi da pazzo di zio Alfredo mi mettevano paura.
Sempre tenendo Ettore come un coniglio, con la mano libera zio si è avvicinato al forno elettrico e ha schiacciato ON. Poi ha aperto lo sportello e ci ha ficcato dentro Ettore, che però non voleva entrare e si agitava tutto come un capitone. Quando lo sportello del forno si è chiuso, Ettore ha fatto un ultimo guaito disperato.
È sceso il silenzio. Zio Alfredo mi ha guardato sospirando e sembrava di colpo tornato tranquillo. Si è seduto su una delle sedie di paglia intorno al tavolo, si è asciugato il sudore sulla fronte con un tovagliolo di carta e poi si è scavato nella manica per trovarsi l’orologio. L’ha osservato a lungo come se dovesse leggerci dentro il futuro e mi ha chiesto con calma “Sai quanto ci mette l’agnello a cuocersi bene bene, fino a dentro?”

Io tremavo tutto e riuscivo solo a pensare che volevo stare nel forno insieme al mio Ettore, perché la cosa più brutta non è soffrire, ma soffrire da soli.
Dopo qualche secondo che a me però è sembrato un’ora, mamma è comparsa sulla porta della cucina che pareva un’altra donna, proprio diversa da quella che bestemmiava a Sonia e dopo la spinta mi guardava impaurita, tremando sul pavimento. Si era tolta le scarpe e teneva un lembo del vestito penzolante per le mazzate di prima, ma pareva comunque vestita di tutto punto, quasi stesse portando l’alta uniforme, e la sua camminata era lenta ma molto sicura. Negli occhi teneva una luce cattiva che non le conoscevo.

Con gesti semplici semplici, come quelli che fa ogni giorno per mettere i panni in lavatrice o cucinarmi una fettina, si è diretta alla parete dove stanno tutte le padelle in alluminio appese ai ganci, ha afferrato per il manico la più grande, l’ha soppesata bene come fanno i tennisti con la racchetta prima di servire, e dopo un lungo respiro l’ha chiavata con tutta la forza in faccia a zio Alfredo. Poi ha riappeso la padella ammaccata al muro, ha aperto il forno e facendosi piccola piccola si è allungata fino all’angolo in fondo dove Ettore stava rannicchiato e tremava come una foglia. Quando finalmente l’ha tirato fuori, lui stava tutto spaurito e mamma se l’è tenuto in braccio come un bambino, e ogni tanto gli diceva “Schhh, tu sei un bravo cagnolino, va tutto bene adesso, schhh…”

Lo so che è stupido, perché a finire nel forno è stato Ettore, però quasi l’ho invidiato in quel momento perché poteva essere il bambino che io non sarò mai più.
Ho pensato male, perché a Ettore non sono bastate un po’ di coccole. Era troppo spaventato e appena mamma l’ha posato dolcemente sul divano che di solito è il suo posto preferito, è saltato giù come tenesse una scarica di corrente ancora in circolo, si è messo a correre per casa come un coniglio pazzo, ha sbattuto tre volte contro un tavolino e due sedie, poi, come le mosche quando si sbattono in un posto chiuso, non appena ha incarrato la via di uscita della porta di casa rimasta semiaperta dopo il mazziatone di papà, non ci ha pensato due volte ed è scappato fuori.
Sono corso subito da Peppino facendo le scale due a due, sperando che Ettore si fosse nascosto da lui, ma niente, nemmeno l’aveva visto. Quando sono rientrato, mamma stava guardando papà in silenzio e papà guardava il presepe e ogni tanto si girava verso mamma con l’aria di rimprovero di un bambino offeso, senza mai riuscire a fissarla dritta negli occhi.

Mamma mi è venuta incontro e mi ha detto con un filo di voce “Vieni, piccerì, andiamo a dormire in camera di mamma. Attento a dove metti i piedi. Domani pensiamo a tutto”.

Da qualche giorno siamo entrati nel nuovo anno, e Ettore ancora non si è visto. Vincenzo sta ai domiciliari, perché il giorno di Natale, dopo essersi lasciato malamente con Sonia, per sfogarsi lo stress ha picchiato a sangue un tunisino alla stazione che voleva vendergli un accendino. Mamma ha riportato Marilena all’istituto, e passa le giornate a piangere. Mi chiede duecento volte al giorno dove sta Ettore, perché le goccine non fanno più effetto.

“Non lo so”
“Ma l’hai cercato bene?”
“Come no”
“E dove sta, dove sta…”
So che vorrebbe stringerlo come faceva prima e allora le dico che ho cercato, e continuo a cercarlo. Ma non è vero. Faccio dieci volte il giro della casa, lo chiamo e lo richiamo. Controllo anche fuori al pianerottolo e dai vicini. Ma già lo so, non può rispondere da dove sta. Certe volte mi viene di guardare sotto al mio letto, ma poi non lo faccio. Forse era solo stanco di vivere con noi, in una casa dove non sai mai se è peggio il silenzio o l’ammuina.
Quando succede qualche cosa o, peggio ancora, quando non succede, e allora mi iniziano a salire le formiche nelle mani, terrei tanta voglia di metterle dentro al pelo di Ettore, fino a che non sento più niente, tranne il battito caldo del suo cuore. Il fastidio delle mani aumenta, ma ho capito che se le chiudo facendo i pugni stretti poi, dopo un poco, mi passa.
Ma devo stringere forte, più forte che posso.

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3 Commenti

  1. Leggero, ironico, e commovente. L’ho letto e mi è rimasto dentro. Questa sera cullerò il ricordo di Ettore come un peluche. Grazie ai due Francesco.

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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