Un salotto a Salò. Pasolini in Arcitaliani di Massimo Sgorbani
di Marco Simonelli
A quarant’anni dal brutale omicidio di Pier Paolo Pasolini, l’humus social-mediatico italiano ha ricordato il poeta friulano glorificandone il nome e in linea di massima tacendone l’asperità e complessità dell’opera poetica e cinematografica: persino le Poste Italiane hanno emesso un francobollo che ne raffigurava l’effige, sancendone così la beatificazione nell’empireo filatelico. Chi invece ha preferito ricordare Pasolini e il suo acume critico nei confronti del perbenismo della società italiana post-bellica è il drammaturgo Massimo Sgorbani che con Arcitaliani o le 600 giornate di Salò ha omaggiato l’opera pasoliniana isolandone alcuni temi fondamentali per poi rielaborarli nella costruzione di uno spettacolo teatrale della durata di tre ore.
Lo spettacolo si apre all’indomani della liberazione della Sicilia da parte degli Alleati e segue le vicende di uno strampalato e fumettistico nucleo familiare orgogliosamente fascista ispirato al personaggio di Sor Pampurio Arcicontento iconica creatura partorita dalla penna di Carlo Bisi per il Corriere dei Piccoli: un padre presuntuoso e autoritario (Marco Natalucci) che, come il suo doppio d’inchiostro, costringe la famiglia a cambiare casa continuamente; una madre (Rosanna Gentili), ingessata in un tailleur verde sotto al ginocchio, che soffre di tremende quanto provvidenziali emicranie; un figlio adolescente (Roberto Caccavo) alle prese con le prime pulsioni sessuali che comunica, attraverso stati onirici, con i fantasmi dei partigiani trucidati, una fedele e stralunata servetta di estrazione contadina (Gaia Nanni) e un pappagallino che, dalla sua gabbietta, commenta in versi le vicende dei protagonisti. Al plot principale del testo si aggiungono gli inserti grotteschi di Ben e Claretta (Mussolini e la Petacci, rispettivamente Gianfranco Quero e Giusi Merli), marionette umane dalla fisicità distorta i cui dialoghi altro non sono che decontestualizzati lacerti della corrispondenza intercorsa fra il Duce e la sua amante. Da subito il colorato e disfunzionale nucleo familiare si rivela un microcosmo di fascismo: i vari componenti infatti, avvalendosi del ricatto e della minaccia, costringeranno a turno la servetta a consumare con loro un rapporto sessuale. Esilaranti e terribili, gli amplessi a scena aperta altro non sono che esplicite citazioni pasoliniane: la famiglia borghese risemantizza quella di Teorema sconvolta dall’attrazione erotica per l’ospite Terence Stamp; il personaggio della servetta abusata è un emblema dei giovani sottoproletari che in Salò subiscono le torture dei quattro carnefici fascisti mentre il personaggio del pappagallino che interagisce con i protagonisti commentandone le azioni cita i pennuti parlanti di Uccellacci e uccellini.
Ma al di là delle suggestioni pasoliniane, Arcitaliani appare come un dramma allegorico che esplora l’archetipo di una famiglia affetta da un fascismo inteso come disfunzione affettiva, violenza sopraffatrice, incomunicabilità. I componenti della famiglia infatti sembrano comunicare fra loro avvalendosi di frasi fatte, consuetudini, tic non solo linguistici: il figlio, che cresce -amleticamente- comunicando con i fantasmi dei partigiani trucidati, il padre che cambia continuamente abitazione poiché insegue l’irraggiungibile ideale di un appartamento perfetto, la madre che nasconde la propria sessualità ed evita il “dovere coniugale” con la scusa del mal di testa celano, dietro la loro tendenza macchiettistica, i fantasmi che potevano alternarsi nella psiche di chi visse, come Pasolini, in quel contesto storico. Si tratta di un teatro freudiano che esplora le conseguenze sadiche dell’incomunicabilità e della solitudine. L’enuresi del figlio, la fissazione scatologica del padre, il rigido perbenismo fobico della madre sono altrettante spie di un malessere storico-filosofico che sembra affondare le proprie radici nella marionettistica rappresentazione del dux-pater patriae Ben(ito), ipersessualizzato megalomane tiranno che risulta comico e grottesco nella sua spavalderia di latin-lover senile. Unica remissiva risorsa affettiva e comunicativa affidabile dell’intera famiglia risulta essere l’abusata servetta sottoproletaria che non si limita a fornire ai tre il proprio corpo bensì l’ascolto di cui necessiterebbero ma che non riescono a darsi reciprocamente.
I momenti più trascinanti di Arcitaliani sono indubbiamenti i monologhi in cui ogni membro della famiglia borghese rompe la quarta parete e si produce in un’autoanalisi psico-semiologica con lo scopo di illustrare al pubblico il significato profondo delle proprie azioni: ne emergono patologie neuro-sociali come l’analisi che la madre fa dell’origine della sua emicrania, ricondotta all’usanza iconografica dell’aureola che nell’arte sacra denota la santità del personaggio rappresentato.
Nel salotto della famiglia borghese irrompono, attraverso gli incubi del figlio, i fantasmi veri e propri dei partigiani che hanno perso la vita per mano dei tedeschi: vengono realizzate in questo modo le scene più commoventi dell’intero testo, affidate a un coro di giovani attori che si producono in un suggestivo controscena.
La regia di Gianfranco Pedullà accentua ed esaspera i connotati fumettistici della famiglia di Pampurio: sgargianti e stereotipati, creature smaccatamente finte (come del resto lo sono Ben e Claretta, amanti tragici ridotti a fantocci o macchiette d’avanspettacolo) si contrappongono alla coralità lucida e precisa nell’iperrealismo dolente delle scene oniriche.
Significativa la scelta di scritturare un poeta (Rosaria Lo Russo) per interpretare il pappagallino: a questo personaggio, che si esprime utilizzando luoghi testuali di Malaparte e D’Annunzio, è affidato il ruolo di fool shakespeariano, linguacciuta presenza che dalla sua gabbietta rammenta alla famiglia borghese l’oscenità delle loro azioni. Nella sua morte (verrà brutalmente freddato dal figlio con un colpo di pistola) è possibile leggere in filigrana sia un riferimento al D’Annunzio dell’impresa di Fiume (il cui spirito verrà in seguito tradito dagli esiti del fascismo), sia un riferimento all’omicidio di Pasolini intellettuale scomodo.
Il dramma troverà il suo epilogo in piazzale Loreto, fatale ultimo domicilio della famiglia di Arcitaliani dove la servetta rivelerà il suo ruolo di allegoria del sottoproletariato: verrà infatti sedotta dalla Radio stessa, nella persona del cantante (Massimo Altomare) che interpreta brani dell’epoca (Mamma mi ci vuol la fidanzata, La famiglia canterina etc) per permettere agli attori un rapido cambio di scena. Nel suo destino si traduce la lucida visione che Pasolini ebbe del sottoproletariato e della sua inurbanizzazione e conseguenti “corruzione” e imborghesimento fra gli anni ‘50 e ‘70, forse il modo più schietto e incisivo per ricordare il lascito intellettuale di Pasolini all’Italia.
Date dello spettacolo presso il Teatro delle Arti di Lastra a Signa