Le barisien
di Nicola Fanizza
A volte, quando entro in un ristorante e vedo esposti in bella vista dei polpi arricciati, mi accade di pensare a Michele Cardassi, un anarchico libertario che ho conosciuto negli anni Sessanta. Fu proprio lui a proporre – in occasione della prima Sagra del Polpo, tenutasi a Mola di Bari nel 1964 – di utilizzare la centrifuga della lavatrice per arricciare i polpi. Questa operazione, tradizionalmente, si fa agitando i molluschi su un cesto e termina nel momento in cui i polpi diventano, per l’appunto, tutti ricci, con i tentacoli che sembrano dei veri e propri boccoli. Le carni allora diventano tenere e croccanti e i cefalopodi sono pronti per essere consumati crudi o alla brace.
Michele era un individuo davvero fuori dal comune, aveva un’intelligenza analogica, un modo di pensare che gli consentiva di percepire somiglianze e corrispondenze là dove nessun altro avrebbe saputo trovarle.
Ricordo la sua corporatura esile, i suoi occhi vivaci e il suo sguardo intenso. Ogni volta che lo incontravo, mi sorprendeva con le sue affabulazioni. Emergeva dai suoi pensieri una singolare miscidanza di vigorosa maturità e di freschezza infantile.
Era nato nel 1906 a Mola in una famiglia di modeste condizioni sociali. La madre cuciva in casa e il padre faceva il barbiere, un mestiere che impone l’ascolto degli altri. Parlava poco, con parole sorvegliate per non urtare la sensibilità dei clienti, e sempre a tempo debito. Da qui la tendenza di Michele – ereditata, forse, dal padre – a non sprecare il fiato.
Michele aveva manifestato sin dalle elementari la sua predisposizione per le materie letterarie e in particolare per il disegno. Quando la maestra gli dava la consegna di scrivere un tema, la sua fantasia mirabilmente viva e limpida gli consentiva di veicolare ardite analogie. La maestra, però, non riusciva a capirne il senso e lo invitava a scrivere senza i suoi soliti «voli pindarici». Michele non fu compreso neppure da suo padre che, non tenendo nel debito conto le sue vere attitudini, lo iscrisse alla scuola marittima, dove conseguì la patente di motorista. Lo studio delle discipline scientifiche – meccanica, termodinamica ed elettrotecnica – non si rivelò, però, del tutto inutile. Quelle conoscenze si riveleranno oltremodo preziose, poiché gli consentiranno di estendere il suo orizzonte.
Dopo aver ottenuto il libretto di navigazione, Michele trovò un imbarco su un motopeschereccio con la qualifica di aiutante motorista e partì per il Levante. Durante la sua permanenza a bordo, utilizzava al meglio i tempi morti per leggere alcuni libri che gli erano stati consigliati da due suoi coetanei – Onofrio Martinelli e Bruno Calvani –, che condividevano con lui la passione per la pittura. Michele partecipava alle loro discussioni. Sentiva il loro pensiero come una forza sensibile quanto lo è il calore, la luce e il vento. Diceva altresì che tale forza era presente anche nella sua mente, era la sua capacità di stabilire nuovi legami tra idee apparentemente disparate.
Sulla scorta delle sue frequentazioni e delle sue riflessioni si accorse ben presto che non era tagliato per la vita sul mare. Decise, pertanto, di seguire la sua autentica predisposizione e si diede all’arte del ritratto.
Quando gli veniva chiesto di eseguire un ritratto, Michele chiedeva al committente – mentre era in posa – di parlare di qualsiasi cosa e, preferibilmente, di quei momenti rari, violenti e fuggitivi che avevano costellato la sua vita. Voleva sentire il suono della sua voce, voleva scandagliare i sotterranei della sua anima per individuarne i tratti ineffabili e restituirli alla vista nel disegno del suo volto. Il ritratto disegnato doveva sempre raccontare la storia in un uomo in carne ed ossa, doveva parlare delle sue sofferenze, doveva parlare dei suoi desideri, doveva parlare della sua vita. Di fatto il disegno di un volto ci colpisce sempre in maniera diversa dall’immagine realistica di una foto, poiché parla alla parte più profonda di noi stessi.
Va da sé che un ritrattista non poteva vivere per molto tempo in un piccolo paese. Ben presto, infatti, cominciarono a mancargli il lavoro e, insieme, il respiro. Decise, pertanto, di raggiungere il suo amico Onofrio Martinelli che si era trasferito da poco tempo in Francia.
Questo Paese era diventato da pochi anni la meta prediletta dei fuoriusciti antifascisti, e Michele si gettò a tuffo nel contesto tanto caotico quanto stimolante della Parigi della seconda metà degli anni Venti. Qui la sua enorme curiosità lo porta a frequentare i movimenti libertari e gli ambienti delle avanguardie artistiche e – stando a quello che mi raccontò – strinse amicizia con Picasso, il quale lo avrebbe rappresentato in un ritratto in bianco e nero. Nondimeno l’esistenza di quel quadro è un vero e proprio mistero, poiché nessuno è riuscito mai a vederlo!
Gli anni vissuti a Parigi furono fra i più belli della sua vita. Le autorità francesi erano oltremodo tolleranti nei confronti dei fuorusciti italiani. Dipingeva solo quando ne aveva voglia; mangiava solo quando aveva fame; si abbandonava all’istinto e all’effervescenza magmatica del momento; viveva una dimensione di tempo senza tempo; era un autentico flâneur. Il suo rapporto con Parigi era diventato a tal punto empatico da fargli «dimenticare» persino la sua terra e la lingua dei suoi genitori. Michele parlava in francese anche quando incontrava i suoi conterranei. Nondimeno a ricordargli le sue origini pugliesi ci pensarono i suoi amici parigini: infatti, gli affibbiarono il nomignolo Le Barisien.
Dal suo fascicolo personale – conservato presso il Casellario politico centrale –, apprendiamo che nella primavera del 1930 Michele era rientrato in Italia e aveva manifestato in più occasioni la sua ostilità nei confronti del regime fascista. Da qui l’attenzione degli organi della polizia nei suoi confronti. La Commissione Provinciale di Bari decise di limitare la sua liberta personale e lo inserì «nell’elenco Categ. 5^ delle persone pericolose da arrestare in alcune contingenze».
Ecco qui di seguito il dispositivo argomentativo dell’Ordinanza del 5 luglio 1930, con cui venne «sottoposto ai vincoli dell’ammonizione»:
«Cardassi Michele di Natale ha sempre professato idee libertarie, delle quali ha tentato di fare propaganda ogni qual volta se ne è presentata l’opportunità.
Rimase alcuni anni in Francia, ove, vuolsi, abbia fatto parte di organizzazioni operaie estremiste, fra le quali svolgeva attiva propaganda antinazionale»*.
Per lui, che aveva le gambe nervose e infaticabili, la limitazione delle sue possibilità di movimento nello spazio e nel tempo era un duro colpo. Si sentiva come un leone in gabbia. Veniva continuamente sorvegliato, era circondato da delatori, e per di più non trovava lavoro. E tuttavia ciò che, probabilmente, lo spinse ad andare via da Mola di Bari fu la distanza che avvertiva nei confronti di una città che, improvvisamente, gli era diventata ostile. Era venuto meno il tessuto delle relazioni degne. Mola per Michele era diventata un inferno.
L’occasione propizia gli capitò nel febbraio del 1933, quando riuscì, finalmente, a espatriare clandestinamente, «valicando il confine nei pressi di Postumia» (Slovenia). Non appena superò la frontiera, Michele vide il cielo riempirsi di nuovi colori.
*Roma, Arch. Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, Michele Cardassi, b. 1071. Michele Cardassi, in quanto «ammonito», per due anni doveva rincasare prima delle 20 e uscire dopo le 7 del mattino. Due volte la settimana aveva l’obbligo di presentarsi dai carabinieri e non poteva «trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole o in case di prostituzione».
MEMORIA E STORIA. Con la “forza sensibile” del suo pensiero e della sua scrittura, l’Autore è riuscito a venir fuori da un’impresa ardua: sul filo della memoria e delle poche note estratte dagli archivi della polizia fascista, ha realizzato uno straordinario “ritratto” e restituito luce, vita, e dignità allo spirito dell’anarchico libertario “conosciuto negli anni Sessanta”.
Federico La Sala
Un medaglioncino bozzettistico davvero saporito.
bellissimo pezzo, Giorgio, un pregio non banale del personaggio è quello, mi pare, di essere assolutamente sconosciuto da google.
La qualità principale di Fanizza è quella di coniugare la sua sua sensibilità di scrittura con il rigore nella ricostruzione storica