La prima tenebra – un dialogo notturno
di Orazio Labbate e Mariasole Ariot
La notte della pianura – di Orazio Labbate
Vedo i cani accogliere in gola le stelle, mentre quegli animali mantengono le fauci aperte verso l’alto, come se fossero porte trascinate dal vento che però mai si richiuderanno. La notte, infatti, non cessa di sprigionare i suoi membri.
Qui ci sono bestie, ombre ingobbite di fantasmi morti di freddo, macchine assai spedite che accelerano tra le strade per svuotarsi dei passeggeri. Talvolta qualcheduno si scatena fuori dall’abitacolo ed è come se cercasse ossesso Dio. Ma Dio non è nella luce artificiale. I lampioni però riescono a infiammare il sangue del cristiano, ora morto. Chi è? Un Crocifisso in terra, il fantoccio delle strade siciliane? Pasto delle bisce e dell’ombra delle nuvole?
Chi sono?
Quale cane cammina con me e ancora incendia, con la sua mancanza, le mie ossa fino a farle scattare?
Trattengo la forza dei muscoli, e costringo le mani dentro le tasche come se da lì il gesto delle dita contrite ammansisse il corpo.
Da lì, sarò il mago della metafisica, Dio obbedirà, e da lì, da Dio, otterrò la chiave sigillata nel mio spirito in grado, ora ricevuta, di far procedere tutte le notti fino a farmi morire con l’esplosione di me contro esse.
Le luci delle case, nella pianura gelese, singhiozzano come candele spente dal respiro spaventoso di un bambino. Mi fermo davanti all’ingresso delle abitazioni e prego affinché queste si spossessino dei demoni dentro gli armadi, delle persone sotto le lenzuola impaurite dal buio conchiuso anticamente sul soffitto. Stringono la croce, le persone. E la croce fa uscire il sangue dalle loro dita indifese.
Che un tornado sollevi il dolore di quelli che dormono e persino i sogni di questi. Che l’Aldilà precipiti sul sonno.
Intanto, didentro i campi deserti qualcosa scricchiola sottoposta al passo delle volpi che incedono, O potere della notte, come maiali sconosciuti.
Chi sono io per vegliare sugli addormentati della pianura?
La luna pare collassare lungo i tetti delle case: un po’ di non-luce dona loro Diavolo e trasformala in illuminazione. Strappa gli occhi dei campagnoli per incassare nella loro faccia le pietre della verità. Mi muovo simile a una serpe parlante qualche lingua, per sussurrare in direzione delle finestre, a quella gente, quale terribile notte arriverà.
Fiuto le braci ancora una volta accese dal buio. Esso mi perseguita.
Vedo Gela in fiamme. La città scavalca l’orizzonte e il mio cuore non può rispondere allo scirocco. E il mio petto vocìa e dalla tasca raccolgo le spine scippate alla mattina dall’albero carbonizzato. Prendo le spine e le ficco nella mia fronte. Il sangue cola e il petrolchimico di Gela mi appare insaguinato.
Sarò, dunque, solo? Sono un corpo accudito dal sangue e dalle fiaccole che discendono dal buio sopra di me?
Sì, avrò tutte le notti la faccia di un demone siciliano.
Nella città, la notte – di Mariasole Ariot
Poi accade il gelo delle cose. Nella calca dorata della notte m’innesto sulla piazza spoglia, i sensi si mescolano alle cose, diventano oggetti carichi di significato : una morte inattesa, una luce di un faro, un dardo scagliato nella fretta. Eppure ogni fretta è incastonata nel suo contenuto nero, nel rimando delle piccole stelle in forma di pietra : la strada ha l’odore arancione della misericordia, il tempo fermato dei controllori della sera si addormenta nel pulviscolo della nostra macchia – e svoltando l’angolo si avvertono brusii di gente mista a frattaglie : sono gli oscuri, i passeggeri notturni di questa città vuota, di questo mordere e spremere gli ultimi rimasugli di cielo : una cupola che cade sulla terra per darci l’addio prima del risorgere, prima che sia troppo tardi per essere presto, un ingranaggio ceduto per inganno all’ultimo interlocutore.
A volte, nelle strade grigie si accumulano ricordi, cadono come nei giorni d’agosto, quando stiamo distesi sull’erba ad aspettare l’arrivo che non arriva, quando ci confondiamo nel paesaggio e ci penetriamo a vicenda a bocche spalancate per gli inizi.
Dove sono le maniglie delle porte, dove si aprono, dove mordono, dove non è possibile sapere se non questo niente in forma di vuoto?
Le particelle si fanno chiare, scompongono il vissuto in milioni di sottoparticelle, una sostanza lattiginosa che ci fa da via lattea e non ci cura, e non ci nutre, e non ci strema. Il dubbio è nascere o morire, rincorrere a perdifiato un’altura per farne un corpo, costruire dall’assenza un pieno magmatico e fermarsi a intervalli regolari.
Lo vedi questo riflettersi di ombre negli scuri? Nel lento dipanarsi delle circostanze?
Ho un tempo incastrato nell’occhio, dove non compare se non un senso, una dimenticanza addormentata appena prima di risvegliarsi.
No : non ci sono animali, non ci sono corpi, non ci sono parole di senso compiuto : tutto è ombra e silenzio, un turbinio di tetti e sottotetti, le sfere del presente che si cibano di passati. Il passare è una memoria, un rifugio per i diseredati, per i senza-testa, per le calure dei notturni.
Passeggio con il mio animale morto nelle vie della città chiusa, arrivo al limite prima delle mura e la distesa è chiara : un albume d’uovo che non si schiude, una cornice per delimitare questo nostro scomporci che non fa’ corpo con il mondo. E’ un terrore ingiallito dalle luci artificiali, chiamato per restituire il suo sì al mutismo delle bocche.
Mentre mi avvinghio all’oscurità, il soffitto sprofonda, fonda un unico terreno con l’asfalto, si prende quello che non è possibile prendere : un gatto dalla testa affilata, un bicchiere di latta, la caduta della pioggia.
Lo vedi questo mio restare immobile in attesa? Questa testa cava, questa latitudine perpendicolare agli occhi?
Il tuo viso è diviso in piccole macchie, il tuo corpo è un nodo da snodare, un mediocre gesto dell’umanità che ci versifica.
Poi accadono gli immobili, i piccoli esseri notturni che per pietà annegano sulle mie mani d’acqua. Li raccolgo come a berli, ingurgito il suono che emettono poco prima di separarsi dalla trachea per spingersi nella zona nera dell’esofago, li accolgo con le loro diramazioni ventricolari : sono già morti e non smettono di morire.
E’ questa la mia notte, quando il cielo si stacca dalla corolla e accumula rugiada sulle foglie, quando non ho foglie, quando la specie umana è un miraggio e tutto è cieco : mutano le membra, mutano le persone, mutano i figli, muta il fogliame in forma di siepe. Tutto è cieco e tutto vede : il piccolo delirio si stacca dalle aperture create nella cupola sovrastante, i neri aprono le pareti per far emergere pianeti e luci ottagonali. Li studio con passione, la mia, coricata sul ventre, rannicchiata fino al punto indecente della sfera. Se il Dio di cui scrivi è una menzogna, noi siamo le sue richieste, le sue parole sfiancate, le sue diramazioni. Mente come mentono le bestie prima di attaccare, abbassate sul ciglio della strada per scomparire.
Fa’ che sia una piega, fa’ che sia una sfortuna, fa’ che sia un mostrarsi per difetto, fa’ che sia un difetto, fa’ che sia il nostro accumularci sui marciapiedi, fa’ che non sia dolore, fa’ che il dolore sia una parola, un cane senza denti che liquida presto, fa’ che sia inverno.
Le notti di giugno mi sfregano gli occhi, li rendono pasto per pochi. Noi siamo i pochi, questo andare in perdita senza tremare.