Quel silenzio assordante che copre tutti i naufragi

Giovanni Accardo intervista ALESSANDRO LEOGRANDE

Alessandro Leogrande, giornalista e reporter, da alcuni anni racconta le tragedie dell’immigrazione, lo ha fatto con “Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud” (Mondadori 2008) e con “Il naufragio. Morte nel Mediterraneo” (Feltrinelli 2011), lo fa col nuovo libro, “La frontiera” (Feltrinelli 2016), un’inchiesta che si può leggere come un romanzo e che in parte si svolge anche a Bolzano. Un libro fondamentale per capire chi sono i numerosi profughi che sbarcano a Lampedusa o muoiono nel Mediterraneo, da cosa scappano e quali terribili violenze devono affrontare nei loro viaggi verso l’Europa.

Dopo avere raccontato il naufragio della motovedetta albanese avvenuto nel canale di Otranto nel 1997, ora racconta i numerosi naufragi di immigrati nel Mediterraneo e soprattutto le storie dei sopravvissuti, con quale obiettivo?

Ciò che trovo inaccettabile dei tanti naufragi di immigrati che contraddistinguono la nostra contemporaneità è il silenzio che li avvolge. Letteralmente, i naufraghi sono quasi sempre risucchiati dal silenzio delle onde. Per questo, credo che l’operazione, ostinata e contraria, della letteratura e del reportage narrativo debba essere quello di raccontare ciò che in genere non viene visto o sentito, o viene semplicemente rimosso. Con “Il naufragio” ho voluto raccontare la storia di un naufragio specifico: quello della Kater i Rades nel marzo del 1997. Con “La frontiera” ho provato a tenere insieme le infinite rotte e i disparati naufragi che segnano i viaggi contemporanei e che lambiscono quella che noi proviamo a definire come “frontiera”.

Il libro si apre con un video che ricorda di aver visto a Roma nel 1998.

Quel video mostrava il massacro dei curdi nel villaggio di Halabja, fatti gasare da Saddam Hussein. Le immagini mostravano la morte dopo l’avvelenamento collettivo: i corpi di uomini, donne, bambini e animali riversi per le strade, davanti alle case, intorno a un tavolo da cucina. Erano immagino scioccanti, e se ci penso oggi credo che mi abbiano colpito nel profondo, non solo perché non avevo visto niente di simile prima, ma perché di quel genocidio non sapevo assolutamente niente. Non sapevo niente delle cause e della sua genesi. Credo che questo iato, tra la violenza che genera i viaggi e di cui a volte percepiamo qualcosa e le sue cause, la sua storia, sia alla base dell’incomprensione o dello stupore che spesso proviamo verso i viaggi contemporanei.

A mostrare quel video a lei e altri studenti universitari era stato Shorsh, un profugo curdo, che lei ha recentemente ritrovato proprio a Bolzano, dove vive. Chi è?

Shorsh è un profugo curdo a cui mi lega una profonda amicizia. La sua storia, oltre a essere segnata da quegli eventi, ci dice di quanto complicati siano i viaggi contemporanei. Dopo essere stato in Italia per molti anni, è tornato in Kurdistan, ma poi dopo l’avanzata del Daesh, è tornato in Italia, approdando a Bolzano, dove l’ho ritrovato. Questo andirivieni non lineare, fuori dagli schemi con cui spesso guardiamo alle migrazioni, ci dice molto della vita dei profughi.

Molti dei profughi di cui racconta sono eritrei, come eritrei erano i 360 morti del naufragio del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa. Da cosa scappano?

Scappano da una dittatura terribile, nata dalla degenerazione del governo rivoluzionario che aveva condotto il paese all’indipendenza dall’Etiopia nei primi anni ‘90. Il fallimento di quella lotta di liberazione è una tragedia politica contemporanea. L’Eritrea è un carcere a cielo aperto. Le prigioni sono pieni di oppositori politici. Non si ha nemmeno conoscenza di quanti siano tutti i gulag disseminati nel paese, dove si praticano sistematicamente le torture sui detenuti. Soprattutto, l’Eritrea ha istituito il servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato sia per gli uomini sia per le donne. A 18 anni tutti sono costretti a entrare in caserma e a rimanerci, in balìa dei vertici dell’esercito, almeno fino a 55 anni. È da questa mostruosità che scappano ragazzi e ragazzini che affollano i barconi.

L’Eritrea è stata una colonia italiana. C’è un legame tra quel passato e la situazione politica di oggi?

La rimozione delle condizioni attuali dell’Eritrea è strettamente intrecciata alla rimozione del nostro passato coloniale. Siamo incapaci di riconoscere la questione eritrea anche perché siamo incapaci di nominare il nostro passato coloniale. Che non si conclude solo con il fascismo: una comunità italiana, ad esempio, era rimasta ad Asmara fino alla metà degli anni ‘70. Più in generale, siamo incapaci di riconoscere il passato coloniale in tutti quei luoghi chiave per comprendere le migrazioni contemporanee. Non solo l’Eritrea, ma anche la Somalia, l’Etiopia, la Libia e la stessa Albania.

Il 31 ottobre 2014 si è conclusa l’operazione Mare nostrum con cui la Marina Militare ha soccorso e salvato migliaia di migranti, senza purtroppo evitare i numerosi morti: 3400 solo nel 2014. Che giudizio dà di quell’esperienza? Andrebbe ripristinata?

Credo sia stata un’esperienza positiva quanto all’azione di monitoraggio e soccorso svolta in acqua internazionali. Dal momento che oggi è impossibile creare dei corridoi umanitari in Libia, il soccorso in alto mare è l’unica cosa da fare. Ed è importante che a fare ciò siano quelle stesse navi militari che fino a 6 anni fa erano impegnate in operazione di respingimento. Oggi Mare nostrum è stata di fatto assorbita nelle operazioni europee di Frontex nel Mediterraneo. Rimane l’obiettivo del soccorso in alto mare, e questo è un bene. Ma tale pratica di soccorso si interseca con una filosofia del controllo delle nostre coste, volta a voler smistare con l’accetta profughi e migranti economici, dai confini molto ambigui. La decisione di voler creare degli hotspot sulla costa, per rinchiudere temporaneamente chi sbarca, è la naturale conseguenza di questo modo di ragionare.

Pensa che giornali e televisione stiano raccontando correttamente le tragedie dei profughi o sono responsabili di un ingiustificato allarmismo?

Ci sono giornalisti che svolgono ottimamente il proprio lavoro. Ma nel complesso il mondo dell’informazione è spesso in ritardo nel restituire la complessità delle cause che spingono centinaia di migliaia di persone a partire. Solo comprendendo quelle cause è possibile evitare di creare allarmismi.

Cosa si può obiettare a coloro che dicono aiutiamoli a casa loro? C’è un modo per contenere il flusso di profughi che sbarcano in Italia o che aspettano di farlo?

Ma cosa vuol dire aiutare a casa loro chi è scappato dalle galere della dittatura eritrea, dalla guerra in Siria o dalle violenze del Daesh? Un’espressione del genere è del tutto priva di senso logico. Diverso è porsi il problema di trasformare radicalmente le condizioni sociali, economiche, e soprattutto politiche, che costringono la gente a partire. Ma per farlo bisogna abbandonare un modo di ragionare che si divide in “casa nostra” e “casa loro”, perché nell’età della globalizzazione esse sono strettamente interrelate. I viaggi restituiscono come termometro del mondo e come fenomeno visibile (almeno quando la gente muore) questa interrelazione, e le nostre responsabilità (unite a quelle delle satrapie locali) nel far sì che la “casa loro” sia spesso un luogo devastato.

 

(Questa intervista è stata pubblicata il 16 giugno 2016 sul quotidiano “Alto Adige” di Bolzano)

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5 Commenti

  1. Nell’anno scolastico 2011/12 ho proposto ai miei alunni (una quinta Istituto tecnico) Il naufragio. E’ stata una lettura che ha coinvolto grandemente i ragazzi, che di quella vicenda non sapevano nulla: alcuni di essi erano albanesi.
    Ora vado in pensione e non avrò più una classe con cui lavorare su La frontiera, che ancora non ho letto ma che leggerò al più presto. Grazie ad Alessandro Leogrande per queste sue opere.

  2. Il mare non ha frontiera. In nostro mondo il mare è diventato uno spazio in lutto.
    Silenzio. Di notte. Sulla riva in fuoco.
    Il naufragio è un tema letterario, ma nei libri ormai è verità nuda.
    La frontiera è una limita del cuore umano.
    Non so dove si trova la mia frontiera.

  3. intervista molto bella. peccato per l’ossimoro più brutto del mondo (“silenzio assordante”, amatissimo dagli autori impegnati tipo saviano) nel titolo.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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