Georgiche – Libro IV – vv. 1-94
trad. isometra di Daniele Ventre
E qui di séguito i doni divini del miele celeste
racconterò: Mecenate, anche a questa parte riguarda.
D’una leggera materia a te le ammirande visioni
e i capitani animosi io dirò con ordine e gli usi
di tutto un popolo, e i suoi cimenti e le armate e le lotte,
in tenue spazio è l’impegno, ma gloria non tenue, ove i numi
siano a qualcuno propizi e invocato Apollo ci ascolti.
Prima di tutto per l’api si cerchino sedi e ripari,
dove folata di vènti non sia (le impediscono i vènti
nel riportare ai covili il cibo) e non pestino i fiori
pecore o unghiuti capretti, errando la mucca dal campo
non porti via la rugiada e non roda le erbe nascenti.
Siano lontani anche i sauri screziati dal lucido dorso,
dalle opulente dimore, e le cince e tutti gli uccelli
e così Procne segnata in petto da mani cruente;
tutto devastano in lungo e in largo e le predano in volo,
esca soave nel becco portandole ai nidi crudeli.
Siano nei pressi però le limpide fonti e gli stagni
verdi di muschio o un ruscello che fugga sottile fra l’erba,
spandano l’ombra all’ingresso la palma o l’immenso oleastro:
che in primavera, alla loro stagione, ove in testa agli sciami
nuovi re marcino, o uscita dai favi la gioventù giochi,
a rifuggire dall’afa le inviti una ripa vicina
o fra ripari frondosi un albero presso le accolga.
Sia che ristagni tranquilla o fluisca l’acqua, nel mezzo
collocavi di traverso o salici o grandi roccioni,
sì che si possano dare a soste frequenti o all’estivo
sole dischiudere l’ali, ove mai durante una sosta
l’Euro precipite l’abbia asperse o calate in Nettuno.
Verdi fioriscano intorno la casia e il serpillo che spande
per ampio tratto il suo odore, e abbondanza di santoreggia
dal greve olezzo, le viole si bagnino in rorida fonte.
Ma gli alveari, o tu li abbia creati di cave cortecce,
o che perfino tu li abbia di flessile vimini intesti,
mostrino angusti gli accessi, poiché nel suo gelo l’inverno
ghiaccia anche il miele e il calore li scioglie di nuovo e li fonde.
Queste due forze per le api si temano al pari: né invano
esse nei loro covili gareggiano a occludere i pori
tenui con cera, o di resina e fiori ne riempiono i buchi
o addirittura raccolgono e serbano a un simile intento
glutine denso oltre il vischio di Frigia o pece dell’Ida.
Spesso, se vera è la voce, perfino in meandri scavati
sotto la terra hanno caldo riparo e le scopri nel fondo
di cave pomici o anche nel grembo di un albero roso.
Tu in ogni caso ungi ancora di fango leggero i fenduti
favi, a scaldarli, e d’intorno poi collocavi rare fronde.
Troppo vicino agli alveari non lascerai il tasso né i granchi
abbrucerai con il fuoco, non credere all’alta palude
dove sia greve l’odore di mota o le concave rocce
suonano al batterle o l’eco di voce ritorna rifratta.
E per di più, quando il sole dorato ha scacciato e sotterra
spinto l’inverno e dischiuso il cielo alla luce d’estate,
subito quelle per gole e selve si vanno aggirando,
mietono fiori purpurei, leggere delibano i fiumi
in superficie. Ecco liete per non si sa quale dolcezza,
alla progenie si volgono e ai nidi, ecco ad arte le cere
fresche modellano, oppure producono miele tenace.
Quando però scorgerai dalle celle agli astri del cielo
già fuoriuscito lo sciame nuotare al chiarore d’estate
e trascinarsi nel cielo vedrai la sua nuvola nera,
sta’ ben attento: acque dolci ricercano sempre e ripari
verdi di fronde: tu là cospargi i prescritti profumi,
o l’apiastro tritato o vile erba della cerinta,
dèsta d’intorno un tinnio, scuoti i cembali della Madre:
si fermeranno da sé nei luoghi trattati e da sole
si celeranno, com’è loro uso, in profondi rifugi.
Se tuttavia scenderanno in battaglia (e spesso fra due
principi suole destarsi discordia fra grande tumulto),
subito è dato sapere a distanza il cuore del volgo,
gli animi che nel conflitto s’accendono: stimola infatti
anche le pigre un ronzio marziale di bronzo sonoro,
si ode una voce imitare un rotto rimbombo di tube.
Trepide allora all’assalto si muovono, vibrano l’ali,
armano di pungiglione i rostri e rinsaldano il braccio
e tutt’intorno al sovrano e ai quartieri stessi addensate
serrano i ranghi, con forti ronzii provocando il nemico.
Se primavera ritrovano asciutta e distese campagne,
via dalle porte si lanciano: in alto nell’etere è guerra,
s’ode un ronzare; si stringono unite in un nugolo enorme,
piombano precipitando: non piove nell’aria più densa
grandine, tante le ghiande non cadono al leccio agitato.
I capitani di mezzo alle schiere ad ali drizzate
anche nei piccoli petti ridestano grande coraggio,
tanto a non cedere sono decisi, finché il vincitore
fiero non forza i nemici a volgere in fuga le spalle.
Questi tumulti degli animi e queste violente battaglie
spente da un gesto leggero di polvere sono placate.
Come però chiamerai dalla schiera entrambi i sovrani
quello che paia peggiore, perché come spreco non nuocia,
mandalo a morte: tu fa’ che abbia sgombra l’aula il migliore.
Uno sarà sfavillante d’un oro di lucide macchie;
già, ve ne sono due generi: è questo il migliore d’aspetto,
chiaro com’è del suo rutilo ammanto, ed è sordido l’altro
nella sua ignavia, trascina inglorioso il ventre rigonfio.