Stefano Zangrando: l’esercizio dell’occhio
di Marino Magliani
Come sarebbero stati i romanzi di Friedo Lampe (li ho letti nella splendida e introvabile traduzione di Giovanni Nadiani) se avesse vissuto ancora o se scrivesse ora? Erano romanzi che raccontavano la Bremen prima della guerra, o il mondo visto da una mongolfiera, romanzi scritti con tecniche cinematografiche, si diceva, allora molto all’avanguardia. Come se l’io narrante fosse la telecamera che si sposta lentamente e, mentre ci consegna pezzi di mondo e narrazione, un occhio esterno si prenda la briga di vedere cosa succede accanto e di capire se vale la pena di farci spostare gli occhi da quelle parti – e se scopre che non ne vale la pena, sa che è un bene. Che c’entra dunque, tutto questo, con Amateurs di Stefano Zangrando (alpha beta 2016), il romanzo dello scrittore altoatesino che sta piacendo in giro e passando per romanzo di «confine»? Che c’entra Lampe, l’editor e scrittore geniale, autore di un solo paio di libri, prima di farsi uccidere erroneamente dai sovietici… lui, perseguitato dal nazismo (una morte che ci ricorda un po’ quella di Bruno Schulz, per almeno un aspetto), che c’entra con l’intellettuale altoatesino che vive a Rovereto e ha insegnato all’Università di Trento e ora nella scuola trentina? C’entra secondo me giusto per una tecnica, c’entra per una disposizione, l’esercizio dell’occhio, credo.
Il romanzo, che racconta di due giovani, Valentino e Gerwin, che si ritrovano a Berlino e si confrontano con quel pezzo di futuro che si è materializzato dopo la gioventù e tentano di anestetizzarlo gettandosi nella vita, nelle cose che lasciano intuire che si sta vivendo: la città, un certo flanerismo, il linguaggio, le donne, (l’incipit che racconta la cucina), questo romanzo è una cinepresa neanche troppo sequenziale che inquadra le cose e le vite. Si inizia con l’incontro, per poi passare a chi sono quei due umani, ma visti da dietro, e ce li mostra lo stesso Valentino, il narratore. Assieme al resto dei personaggi secondari, come Martín, che ruotano come a farsi dettare il momento dell’entrata in scena. E i luoghi stessi, che rivivono molto bene nel racconto.
Qualche esempio. Pagina 85 (ci sono capitoli numerati e l’indice propone dei titoletti che però nel libro restano nascosti, come se fossero delle specie di promemoria del regista), la camera riprende l’ex birrificio, le gru, dal basso (non dal canestro della mongolfiera di Lampe), le ciminiere… «Rallentammo a pochi passi da dove si erano esibiti i mangiafuoco». Non un luogo, ma un tempo. Un’atmosfera che solo attraverso un’immagine così, in soggettiva, ci proietta una cosa. Il capitolo Siparietto inizia con un’altra cosa che il buio dovrebbe negarci, ma l’occhio si è appena abituato all’oscurità e ce la mostra. Non è la visione dei volti attorno al cadavere in Casa d’altri di D’Arzo, che si vedono per l’effetto delle candele accese, non quella luce che assomiglia alla luce dei Reggenti di Frans Hals o a quella di Rembrandt. Ma la luce alla quale l’occhio si è davvero abituato, come ci succede al cinema o in camera, che dopo un po’ si scoprono le cose attorno e il miracolo non c’è. O non si vede. Le cose inutili o – nella narrazione – che hanno e mostrano una loro importanza: «Arrivati a casa, mentre ci toglievamo le scarpe, nel buio, notammo dietro la porta quelle di…».
E poi naturalmente Berlino, una Berlino che l’autore conosce molto bene (Zangrando ci va e ci ha lavorato spesso, traducendo autori come Ingo Schulze e Kurt Lanthaler mentre era ospite dell’Accademia delle Arti), una città uscita da poco dal cambio colossale dovuto al crollo del Muro, eppure già archeologia, come ci racconta Valentino, nella sua metamorfosi, che l’autore è riuscito a fissare dal punto di vista dell’occhio italiano.
NdR: di Amateurs, edito (2016) da Alpha Beta Verlag, Bolzano, se ne parla qui e qui, e l’autore ne parla nell’intervista qui