Le concrezioni e i precipitati del senso nella poesia di Martina Campi *
di Sonia Caporossi
Sette giorni in ospedale.
Sette giorni di odissea e smarrimento, di caduta a picco nei meandri stordenti della propria identità franta. La stessa durata del viaggio di Dante nei tre Regni. Lo stesso periodo della Genesi. E in questa sorta di Bildungsroman in forma di poemetto, per certi versi quasi mistico ma anche molto legato al verumfactum delle proprie concrezioni di realtà, si raddensa la dimensione esperienziale messa in versi da Martina Campi. La saggezza dei corpi racconta infatti un viaggio dentro gli “asettici inferni” (Sereni) delle corsie dell’ospedale in cui la poetessa è stata ricoverata per un malore la scorsa estate, episodio di vita vissuta che apre un percorso autobiografico di riconoscimento allo specchio in cui, poeticamente, l’Autrice vuole in qualche modo superare i ristretti confini della propria singolarità per cercare (e trovare) il bandolo della matassa universale periodicamente disperso e ingarbugliato dall’umanità tutta, dibattendosi col tema, proverbialmente carico di difficoltà espressive (e filosofiche), del senso e della perdita di senso.
Per ottenere un tale risultato poetico, e soprattutto per renderlo con quella leggerezza di immagini, ritmi e suoni che è da sempre tipica del suo versificare, Martina Campi rabbercia e rinsalda con i punti di sutura del linguaggio “l’anello che non tiene” (Montale), riallacciando brano a brano, in una definizione unitaria, lo spazio nel tempo e il tempo nello spazio, facendo tornare sinolo ciò che nel male e nel dolore si dà per scisso. L’Autrice, alla fine del proprio viaggio all’interno di se stessa, giunge così alla consapevolezza che il cronotopo, quando la patologia inganna i sensi, non è altro che una convenzione poetica, per cui ci vuole ben altro rispetto al semplice individuarne i confini e le modalità per potersi dire vivi o anche solo presenti a se stessi. Ecco perché il nesso tra lo spazio e il tempo può essere sciolto e ricucito come e dove l’esperiente vuole, anche e soprattutto in certe situazioni di vita al limite, come nella fenomenologia dello spaesamento e del distacco dalla linearità del tempo tipiche della malattia.
Per riuscire a tradurre in poesia un’esperienza di tale profondità e coinvolgimento, alla Campi è sufficiente la pratica poetica di ciò che si potrebbe definire come il circolo ermeneutico fondante che collega descrizione e sensazione, tale che, partendo dall’abituale descrizione di sensazioni, la poetessa riesce a esprimere l’inusuale, lo scarto, la sensazione delle descrizioni, fondendo dimensione interiore ed esteriore, soggettiva e oggettiva, all’interno d un dominio topologico compiutamente estetico.
L’ingresso in ospedale, in questo senso, è vissuto come un’ectopia della mente, un esodo dai sensi e dal senso delle cose (“è un fiume oggi la ferrovia / dal quale straripano i binari e oltre / gli argini folli i fogli, i sedili / galleggiano e si allontanano, lasciati (andare, / via) c’è una mano tra i palazzi e un muso / tra i raggi del sole che sbatte e sbatte ancora / da dove vieni? dov’è trascorsa la notte?”). Il mondo esterno si allontana, si sfalda, perde le sue certezze e i suoi punti fissi in una catabasi straniante all’interno delle proprie asfittiche paure, la principale delle quali, la perdita del controllo di sé, del proprio corpo e dell’interazione col macrocosmo circostante, è espressa attraverso espedienti poetici ben delineati, come ad esempio le ripetizioni (“non c’è acqua? Non c’è acqua?”, frase rivelatrice delle prime avvisaglie del malore); oppure attraverso l’uso di parentesi rivelatorie, epifaniche (“forse sono gli occhi, ed è un tentativo / quanta è la realtà dentro (agli occhi) / cedevole e ondeggiante, e distesa e sensibile / quanta, ne puoi (toccare con gl’indici), questa / o la pianta dei piedi, un divenire (divampare) / in linea retta per la via / il corridoio, (quanta) nelle braccia / aperte, camminando / e se fosse molto, molto più mossa / (di quella che si può restituire) / e se fosse molto / molto più rotonda?”); o ancora, attraverso l’uso di immagini ricolme di densità semantica e aggettivale, come improvvise finestre che si spalancano sui significati abituali cogliendone l’essenza immediata ma contemporaneamente cercando di riottenerne il dominio semantico ad ogni istante e ad ogni passo, per non smarrirsi (“avremmo forse voluto spalancare (preferendo) / le braccia, tra l’oggi / e il domani di carta carbone / raccontato, necessario, riverso / mescolarci forse alla pioggia / tradurci nella luce / avvicinarci / un poco, di più, almeno / concederci un’adeguata quantità / di sguardi amorevoli / disarmare gli elefanti / credere alle mani / avremmo forse preferito (davvero) / trattenere le armate / sconfinare sorrisi, a tavola / scambiarci il sale e il pane”).
Ed ecco che, in ospedale, la condizione di “straniera alla vita” (Pagliarani) che la poetessa mostra senza remore e senza veli, si riverbera in quieta ob-sessione attraverso l’enumerazione morbida e ovattata degli oggetti e dei fantasmi sfuggenti della corsia (“gli aghi nel braccio e le coperte di lana / il freddo disumano della stanza”), attraverso la considerazione scarna e minimale dei gesti così nuovi e alienanti eppure immediatamente divenuti abitudinari, avvolti dal feltro protettivo e tranquillizzante di una normalità autoimposta proprio a contrasto con l’eccezionalità di una situazione eteroimposta: quella del ricovero in nosocomio improvviso e indesiderato.
L’immersione evanescente delle cose quotidiane nella cappa diafana del color bianco che avvolge e permea le pareti, le lenzuola, le luci al neon dei corridoi e delle stanze, strappa sistematicamente quegli stessi oggetti dal loro contesto d’uso, li pone in evidenza, li ionizza e ne fa galleggiare il substrato di realtà nell’amnio di una parvenza disvelata in senso heideggeriano, laddove l’aletheia altra non è che la surreale presa di coscienza della perdita di coscienza che subito diviene un livello superiore di coscienza. Il bianco è il colore degli ospedali, il bianco è il colore dei manicomi che accolgono il Degente Archetipico e lo proteggono nell’alveo sospeso e atemporale delle sue cannule, dei suoi aghi e delle sue brande; e la “terra straniera”, così, non è più dentro la corsia, è “fuori”, se è vero che il ricovero è paura e malattia ma anche, nella dimensione evenemenziale della krisis, l’ottenimento confortante e salvifico di una consapevolezza: quella di essere “scampate al sospetto / della bruta follia”.
Tra l’incipit che riguarda l’entrata in ospedale e la fine che inquadra la strada percorsa a ritroso, in un rientro verso l’ovocita familiare delle quattro mura di casa, nel panta rei esteriore del nostos e del ritorno, scopriamo che lo straniamento non riguarda i giorni e le ore trascorsi nel ricovero all’interno del quale invece la protagonista si è subito adattata ricostruendo una dimensione ovattata e familiare (“andiamo a farci una nuotata, a turno / nel nostro bagno in comune e in accordo / e andiamo a nutrirci insieme ch’è il mezzodì / al tavolino, ai piedi del muro (arid’osso): / quando restiamo tra noi ci scambiamo gli avanzi / e ci diciamo buon appetito, (ti sia gradito) / guardiamo i morti passare / nei silenzi, che le voci bisbigliano rosari”); lo straniamento, piuttosto, come si scopre fin dal secondo giorno, riguarda invece lo scollamento e il discidium col fichtiano Non – Io, cioè col mondo esterno all’ospedale, che solo era prima considerato reale (“perché fuori è una terra straniera / fuori è tutta un’altra storia / e anche loro che arrivano, con l’amore / nelle borse, e le migliori intenzioni”).
Come in un gioco di specchi e di maschere pirandelliane, insomma, si scopre che l’esser stata sradicata dalla propria quotidianità a causa della veemenza della malattia ha consentito alla poetessa di raggiungere un livello superiore di percezione e di ermeneusi del mondo, laddove il poeticum risiede nel segno che è imago a se stesso, nel prepotente divario tra dentro e fuori o, con le parole della Campi, nella scissione tra “vita normale/vita in sospeso, chiusa, malata, condivisa con perfetti estranei; che poi, anche se il tutto è durato pochi giorni, erano loro il mio mondo, e stranieri invece i visi di tutti i giorni, gli affetti, le abitudini”. E così, prima o poi si rompe il nuovo equilibrio, come se l’unico equilibrio consistesse nel tornare ogni volta a smarrire il lume della candela (“e so che dovrete andare / e so che dovrò andare anch’io / per diverse stanze, corridoi / che non s’incontrano più / abitudini che attraversano il caldo / agguantano i bianchi del giorno irreversibili / le ore / scorrono / non curanti / dalle terrazze / dalle sale d’attesa / dalle stanze con la televisione”). Ecco che, oltrepassando il cancello del nosocomio dopo la dimissione, quasi accecata dalla luce esterna che apre un rinnovato squarcio sull’antica ferita dell’autoriconoscersi (“troppo il sole / in una volta, sola”), i parenti, gli amici accorsi a prenderla divengono all’istante “sconosciuti alla fretta / sconosciuti alle conversazioni / ai come stai / che te ne pare”; e allora diventa difficile riallacciare i rapporti con ciò che la stessa poetessa, in un colloquio privato, ha avuto modo di definire in questi termini: “il sole, guardarsi indietro, il silenzio, le conversazioni di convenzione, ricercando la normale familiarità con la propria vita”.
In una tale esperienza emozionale di inversione di contesto si fatica molto, in genere, a tornare in se stessi, a recuperare la vestizione della maschera, ma si ottiene in compenso la vantaggiosa condizione del cecchino che può sparare sulle macchie, sulle incongruenze e sui punti oscuri del sistema heisenberghianamente osservato cogliendo le asperità scabre delle concrezioni di realtà in costante mutamento e rivoluzione: un sistema aperto, quello del proprio microcosmo irriducibilmente in conflitto col macrocosmo, e proprio per questo, modificato e modificabile nel momento esatto in cui viene guardato, ovvero versificato; finché poi, alla fine “[…] tutto ritorna com’è / e tutto intorno s’aggira fino / ai prossimi giorni, ignoti”.
Martina Campi è riuscita, in questo breve poemetto, a lanciare uno sguardo oltre il confine del senso, giacché, come scrive Emilio Garroni, “l’artista sta sempre, esemplarmente, sul discrimine invisibile che separa senso e non senso; così come, non esemplarmente, ci stiamo tutti”: compito dell’arte e, precipuamente, della poesia, è proprio scardinare le certezze convenzionali della norma e la stessa aderenza del circolo ermeneutico tra significato e segno, per aprire squarci dis-velatori (sempre con Heidegger), che possano generare costruttivisticamente barlumi di alterità all’interno delle precipitazioni chimiche del qui-ed-ora. Altra funzione, a ben vedere, la poesia non ha: e Martina Campi dimostra con questa sua opera matura di saperlo molto bene.
* Prefazione a Martina Campi, La saggezza dei corpi, L’Arcolaio, Forlì 2015.
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Sonia La Grande. Grazie Nazione Indiana, grazie Daniele Ventre.
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