les nouveaux réalistes: Anna Giuba

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Untitled n.1

di

Anna Giuba

– Guarda che c’è ancora roba tua, nel mio armadio. – ha detto Franco.
– Sto impazzendo. È doloroso. Smettila di dirmi cosa devo fare. Se anche ci metto un giorno in più, non ha nessuna importanza. Nessuno mi corre dietro. – ho risposto.

Infilavo le cose negli scatoloni quasi a casaccio. Maglioni e documenti e carte e cappotti leggeri e pesanti. Negli armadi e nei cassetti c’era un gran casino. C’era sempre stato. Separare gli oggetti miei e di Franco era come separare noi, una lacerazione intima e profonda. Uno strappo lento, che durava.

Era finita senza che quasi ce ne rendessimo conto. L’anima non vibrava più negli sguardi. Non ci aspettavamo a sera con il desiderio di abbracciarci. Non ci riconoscevamo. Non facevamo più l’amore. Questa era la cosa che scottava. Franco la sera spegneva la televisione con l’aria annoiata e s’infilava sotto le coperte, la schiena larga rivolta verso di me. – Notte. – diceva spegnendo la luce. Tutto qui. Due fili di rame dove l’elettricità aveva smesso di scorrere.

Io respiravo la mia solitudine nel buio, mi chiedevo perché.
Facevo progetti per il giorno dopo, nel pensiero gli dicevo – Ti sorriderò di più. – Sarei andata ad aspettarlo al lavoro, fuori dell’ufficio. Saremmo andati a mangiare fuori. Così, per ritrovare il piacere di essere insieme, di essere noi. Poi non succedeva niente. Le giornate colavano come la pioggia d’autunno sui vetri della cucina.
Avevo passato intere giornate a fumare e a guardare fuori della finestra. Non avevo neppure voglia di cucinare. Ogni tanto bevevo un whisky anche nel pomeriggio, lo stordimento lieve dava una tregua alla tristezza. Ci mancava anche il tempo, la pioggia sottile durava da giorni. Sembrava sottolineare tutto in una dissolvenza acquosa.
Prima, durante l’estate, non me n’ero accorta. Io e Franco eravamo troppo impegnati a urlarci addosso per sentire i loro gridi.

Vivevamo di fronte ad un convitto di suore. Era un palazzo austero, con la facciata sempre pulita e le imposte sempre chiuse. Solo ogni tanto la donna delle pulizie spalancava una delle finestre e si intravedeva un interno asettico. Pochi pensili e i muri bianchi. Sul tetto del convitto c’erano tre grandi camini e un abbaino enorme. Un pomeriggio li avevo visti. Stavo bevendo il whisky. Lo sguardo si era posato su di loro come un respiro profondo. Erano due gabbiani.

La nostra non era una città di mare, forse venivano dal fiume. Non era lontano. Erano grandi e bianchi e bellissimi. La femmina era un po’ più piccola, ma aveva lo stesso un’apertura alare sconcertante. Non riuscivo a staccare gli occhi dalle piume azzurrate. I gabbiani sembravano non far caso alla pioggia.

1

Garrivano un urlo rauco e stridulo, il maschio si era alzato in un volo circolare ampio e suadente, come volesse proteggere la femmina in una spirale aerea.
Ho appoggiato le braccia al davanzale. Sicuramente avevano fatto il nido, l’atteggiamento della femmina accucciata era di possesso.

Guardavo i gabbiani e i gabbiani si guardavano intorno. Ogni tanto spalancavano il becco e lasciavano uscire il loro pianto roco.
Poi ho sentito la chiave nella toppa, Franco che tornava.
– Ci dai di nuovo dentro? – mi ha chiesto cinico. Non avevo fatto in tempo a nascondere la bottiglia.
Avrei voluto dirgli tante cose. Che non bevevo per dimenticare o cazzate simili, bevevo per ricordarmi chi era lui. Per respirare. Per ricominciare a dipingere.

–  Non li abbiamo mai visti. – ho glissato facendo finta di non aver sentito

– Guarda, sono magnifici… – ho detto indicando con un movimento del mento gli uccelli davanti a noi.

–  Ah… sì, hai ragione. Magnifici. – ha detto lui con lo sguardo fisso oltre la finestra. Poi si è tolto la giacca umida di pioggia ed è andato ad accendere il computer. Era un ottimo modo per non parlare.

Abbiamo deciso di separarci un mattino di novembre. Era sabato. Una di quelle giornate limpidissime e gelide che seguono Ognissanti.
C’è stata la solita litigata. Ma è stata una litigata stanca, senza passione persino nell’odio. Non ci siamo detti nessuna cattiveria. Eravamo già troppo feriti da come eravamo. – Silvia, basta. – ha detto Franco ad un certo punto. Era seduto sul letto e aveva la testa tra le mani.

– Sì, basta. – ho detto io.
Non c’era nient’altro. Le parole non servivano più a niente, erano suoni puri sputati fuori dai denti. Nel sole rancido che pioveva dalla finestra eravamo due pugili che si abbracciano in attesa della campana.
Ho trovato una stanza da un’amica. Elena mi aveva detto molte volte di andare da lei, quando sentiva che non ce la facevo più. Avevo accettato.

– Franco, mi trasferisco da Elena. – ho detto la domenica mattina.

Franco non ha risposto. Si è limitato a continuare a digitare sulla tastiera e a fissare il monitor come se non avessi detto nulla. Ma dopo qualche minuto si è alzato dalla sedia e mi è venuto incontro. Le braccia gli pendevano lungo i fianchi come maniche vuote.

–  È dura. – ha detto in un soffio.

–  Anche per me. – ho detto io senza piangere.

–  Prenditi tutto il tempo che vuoi… – ha aggiunto per essere gentile.

–  Non ci vorrà tanto tempo. Anche se quattro anni vogliono dire un sacco di

cose… voglio dire di oggetti. Questa casa è piena di roba anche mia.

–  Beh, puoi cominciare a prendere lo stretto necessario, che so, i colori, le

ultime tele, e poi tornare e prendere il resto poco per volta.

2

– Nonò. – ho detto terrorizzata – Non voglio tornare. Se torno ho paura di non andare più. –

L’ho sentito che avrebbe voluto abbracciarmi. Baciarmi. Ci attaccavamo a quel filo di tenerezza rimasto, quello degli oggetti. Loro conservavano la vita che mancava a noi giorno per giorno. L’intreccio della lana dei maglioni, la carta un po’ gialla dei documenti più vecchi. Le nostre fotografie. I quadri che avevo dipinto di notte e che al mattino mostravo a Franco con orgoglio.

La vita era lì, nel respiro denso e intimo delle cose. Sarebbe bastato così poco. Un gesto. Una vibrazione. L’illusione del silenzio di un bacio. E poi niente, il nulla avrebbe ingoiato di nuovo tutto in altri silenzi, in un altro vuoto.
Ho cominciato ad impacchettare con la carta di giornale alla luce del sole del primo pomeriggio.

Ad un tratto i gabbiani si sono posati sul bordo dell’abbaino, torcendo il collo da una parte e dall’altra. Avrei giurato che mi fissavano. Stavano in silenzio, forse godevano del tepore del mezzogiorno quasi d’inverno e non avevano nessun bisogno di stridere. Il sole li investiva in pieno, faceva quasi scintillare le piume. Sembravano felici.

Sono rimasta a riempire scatole tutto il pomeriggio, a inguainare le tele. Spesso dovevo staccarle dal muro, e lasciavano un’ombra bianca sotto. Fino a quando non ha fatto buio, abbastanza presto. Verso le sei mi sono sciolta la coda di cavallo e lavata mani e faccia. Cristo, c’era anche da impacchettare la roba nel bagno.

Con il tempo saltavano fuori cose impreviste, un cassetto dimenticato, o uno scaffale. Un quadro rimasto lì a marinare dietro un mobile, come dicevo io. Per pensarlo prima di finirlo.
Mi ero scordata completamente dei gabbiani. Ormai era buio fatto.

Abbiamo passato la notte abbracciati, io e Franco. Senza fare niente, come fratello e sorella. Forse un po’ lo eravamo. Conoscevamo le abitudini intime, i gesti consueti. Non abbiamo avuto bisogno di parlare neppure per l’ultima tenerezza.

Al mattino, mentre continuavo a lavorare, ho cercato quasi involontariamente i gabbiani sull’abbaino. Non c’erano.
Tre uomini robusti trafficavano con corde e apparecchi strani. Stavano distruggendo il nido.

Lavoravamo in silenzio, io ero quasi rabbiosa nel ficcare le cose nelle scatole.
Franco era andato a lavorare, alla mia tristezza non si aggiungeva niente, era un sentimento che stagnava. Ma ero troppo impegnata con la carta di giornale e lo scotch per accorgermi di qualsiasi cosa.
Gli uomini facevano un rumore sordo e continuo. Non ci hanno messo molto. È bastata una mezz’ora per cancellare il lavoro dei due becchi. Probabilmente era un lavoro durato tempo.
Mi sono sentita improvvisamente sola. Avevo anche pensato di dare un nome ai gabbiani che mi avevano tenuto compagnia nei pomeriggi vuoti di poco tempo prima. Adesso era inutile pensare ai nomi.

3

Mi sono seduta in terra sul parquet, in mezzo alle scatole e ho acceso una sigaretta. Franco non voleva che fumassi, ma per quella volta avrebbe tollerato un’eccezione. Gli occhi andavano dalla brace al tetto di fronte.
Il sole della domenica aveva lasciato posto ad un cielo coperto e opaco. Nella stanza c’era troppo silenzio. Ho guardato l’orologio, erano appena le undici e mezza. Ho spostato dietro l’orecchio una ciocca di capelli che mi pioveva sulla faccia. Poi ho guardato la stanza con uno sguardo circolare, era quasi irriconoscibile.

Ho guardato il letto con odio amaro.
Avevo ancora tutta la giornata a disposizione, ma non avevo voglia di continuare. Fino a poco prima avevo pensato che se avessi fatto in fretta, molto in fretta, non avrei sentito così male. Non era vero. Mi sarei portata dentro quella fitta vecchia e sempre nuova per chissà quanto tempo.
Ho pensato ad Elena e mi sono sentita meglio. Non avrei sopportato una solitudine accecante. Anche se era diventato un’ombra, Franco era stato il mio uomo. Andava e tornava e apriva la porta di casa. C’era. C’era stato.
Una volta avevamo pensato di fare un figlio. Ci avevamo anche provato. Che assurdità.
Quel mattino Franco mi ha detto, prima di andare a lavorare – Non rimproverarti niente. Non è colpa tua. Non è colpa di nessuno. Succede. –
Non ho potuto rassegnarmi a qualcosa che non aveva un nome. Avrei preferito che si fosse trovato un’altra. Così era una cosa mozza. Senza senso. Forse ci stavamo ancora troppo dentro per poter capire. Forse il tempo. Sì, doveva essere così.

– In questo momento, in questa città, ci deve essere un’altra ragazza che sta pensando le stesse cose. – mi sono detta, e ho spento la sigaretta in un piattino. Era un pensiero consolatorio, ma non è servito a molto.

Ho ricominciato a riempire le scatole dimenticandomi di mangiare. Non avevo nessuna voglia di vedere l’interno del frigorifero.

Verso le tre avevo finito. Sembrava così. Adesso si trattava di iniziare a portare la roba in macchina, ma per questo avrei dovuto aspettare Franco. Ho deciso di dormire un po’, avevo tutto il tempo.
Ho dormito e ho sognato un sogno né bello né brutto. Ero in una chiesa ma non sapevo perché ci stavo.

Non era un matrimonio. Non era un funerale. Eppure la chiesa era piena di gente. Io ero molto più giovane e avevo una collana che mi aveva regalato Franco tempo prima. Credo proprio all’inizio. Era una collana con un ciondolo a forma di mezzaluna.

Mi sono svegliata sudata e ho maledetto il riscaldamento centralizzato. Possibile che a novembre dovesse esserci un caldo da agosto. Ho guardato l’orologio, avevo dormito un sacco. Erano quasi le quattro e mezza.
Mi sono preparata un tè perché il whisky era finito. Poi ho sentito la chiave nella toppa. – Ciao, sono qui. – ha detto Franco con voce più calda del solito.

4

–  Ho finito… – ho detto io inzuppando un biscotto.

–  Ah. – ha fatto lui – Lasciami riposare un attimo e carichiamo, ok? –

–  Ok. – ho detto di malavoglia.

Sono andata nella stanza da letto mentre Franco rimaneva in soggiorno a versarsi il tè rimasto. Faceva un caldo soffocante. In più, il calore del tè, mi sono detta in un soffio.
Mi sono avvicinata alla finestra e l’ho aperta per riuscire a respirare.

Un crepuscolo grigio si spalmava nel cielo viola. I tetti intorno erano quasi scuri. Una finestra del convitto delle suore si era illuminata all’improvviso.
Ho sentito un grido rauco, poi li ho intravisti nell’oscurità incipiente.
La femmina era accoccolata sul camino più alto. Il maschio l’ha raggiunta chiudendo le ali amplissime. Ormai era quasi buio, ma ho puntato gli occhi per vederlo meglio. Adesso ero sicura.

Aveva un rametto secco nel becco.

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6 Commenti

  1. Una poesia triste… ma quanta delicatezza!
    Nel leggerlo, sembra quasi di scorrere le tavole di un graphic novel.
    Molto bello.

  2. Un classico. Complimenti, sei una vera scrittrice. E come tale riesci a farti carico di un dolore universale.

    • grazie infinite. Ho volutamente rivisitato i due cliché, la fine di un amore e i gabbiani, cercando di dire qualcosa di nuovo. Dai commenti capisco che non ne è uscito qualcosa di scontato. Grazie ancora.

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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